Sigmund Freud & Martin Heidegger |
Solo che – ecco il punto che in questa sede vorrei sviluppare – l’irruzione della vita quotidiana conferisce a quella dissoluzione una connotazione molto significativa. E cioè, dimostra che il soggetto è letteralmente afferrato dentro delle dinamiche impersonali – di cui la vita quotidiana è il luogo per eccellenza – da cui esso non può mai separarsi, né pretendere di governare, ma da cui anzi è letteralmente governato. La vita quotidiana rompe, dunque, quella visione che profila l’uomo come un “essere personale” o un “soggetto spirituale” centrato sulla propria autocoscienza razionale e ben perimetrato dentro la propria autonoma individualità, ovvero smantella esattamente quel conio personalista dentro il quale il soggetto moderno si è forgiato per secoli. Un conio che peraltro implica anche un certo rapporto mente-corpo, che viene anch’esso radicalmente messo in questione. Insomma la vita quotidiana svela – come diceva Blanchot – qualcosa che «fa paura» e che perciò è sempre stato “saltato” dalla riflessione concettuale: il lato anonimo, impersonale, di ciascun individuo, di ciascuno di noi.
Tutto questo è stato colto con uno sguardo assolutamente
folgorante e profetico da due autori come Freud e Heidegger. Nel senso che sono
stati i primi a intuire la portata dirompente della vita quotidiana sul
dispositivo del soggetto personale. Ed è bene, dunque, rivolgersi a loro per
capire che cosa è in gioco.
Martin Heidegger ✆ David Levine |
2. In vista
di questa perlustrazione di alcuni “luoghi” di Freud e Heidegger, e proprio per
vedere in modo nettamente profilato la diversa prospettiva che essi ci
dischiudono, è bene prima ripercorrere, sia pure molto sinteticamente, i tratti
specifici della nozione di soggetto-persona. Naturalmente qui mi è impossibile
ricostruire in dettaglio il cammino semantico-culturale plurisecolare che ha
determinato l’avvento di quella nozione. Mi limiterò a qualche punto, giusto
per fissare i capi principali della questione.
Com’è noto, il subjectum,
nell’accezione con la quale ancora oggi solitamente lo usiamo e che costituisce
la nozione basilare di tutti i discorsi attuali sull’uomo, nasce nel Seicento.
Non con Cartesio – come si crede – bensì con Locke in particolare, attraverso
una serie di passaggi e interpolazioni semantico-concettuali che trascorrono
dalla romanità, lungo il medioevo, fino all’epoca moderna. Prima della modernità
– va sottolineato – subjectum aveva
tutt’altro significato. Indicava il fondamento, il sostrato (lo hypokeimenon) di qualcosa (più o meno
nel senso in cui noi oggi, per esempio, diciamo «il soggetto di quel romanzo
è…»). Orbene, Locke conduce una straordinaria operazione. Congiunge il
principio ontologico medievale secondo il quale «actiones sunt suppositorum» – ossia: ogni azione deve avere il
proprio supposto (fondamento/hypostasis),
ovvero il proprio “soggetto” – con la nozione di “persona”, che, come si sa, fa
il suo ingresso in filosofia tramite Boezio. Giacché il termine “persona”
nell’età patristica era a sua volta sinonimo di hypostasis (fondamento). E poiché la persona è «sostanza individua»
(come dice appunto Boezio), ecco come la nozione di persona conferisce al «soggetto agente» – fondamento delle
proprie azioni – quella «unità» che ne fa il centro unico e individuale di
tutti gli atti e di tutte le operazioni. Ma non basta. Locke plasma ulteriormente
la nozione di soggetto tramite l’attributo della «coscienza». In quanto dotato
di coscienza, il soggetto – Locke scrive – «ricorda
al “sé” i pensieri e gli atti compiuti». In tal modo egli «ne diventa
responsabile» e pertanto imputabile. Ecco come nasce il «soggetto agente
personale» moderno – cardine di ogni umanesimo. Soggetto centrato sulla propria
coscienza razionale e perimetrato nella propria invalicabile individualità.
Sigmund Freud ✆ David Levine |
Ma veniamo ora al punto nevralgico di tutta la questione.
Com’è evidente, il «soggetto agente personale» si costituisce soloin
quanto in esso si produce una spaccatura fra una parte di sé che
slitta verso l’alto e guarda, «imputa» a sé stesso, gli atti compiuti da
se-stesso, da una prospettiva per definizione “sovrana” (è la parte che, con un
lessico più aggiornato, potremmo definire «la mente»); e un’altra parte di sé,
che invece scivola verso il basso diventando la parte inferiore, dominata e
dunque letteralmente “assoggettata” (il corpo). La prima – “persona” a tutti
gli effetti. La seconda – propriamente “impersonale”. La principale e vistosa
conseguenza di una simile dinamica è il definitivo impiantarsi di uno schema
secondo il quale l’uomo, da una parte, è un’entità inconfondibilmente dotata di
spirito razionale e dunque in stato di costitutiva trascendenza. Dall’altra
egli ha sì un sostrato corporeo-biologico, che lo accomunerebbe agli animali e
agli altri organismi viventi; ma tale sostrato, in virtù della «libera volontà
sovrana», può esser “governato”, ovvero assoggettato e forgiato in modo da
sottomettere – o meglio estromettere – l’originaria falda istintuale
(impersonale) e farla diventare la manifestazione esteriore dell’interiore
presenza della ragione personale (come tante volte si dice, sul volto di una
persona appare il suo “spirito”).
Si tratta di un processo di lungo corso che, come si sa,
arriva fino al «personalismo» novecentesco, come specifica corrente di pensiero
che riannoda tutte le fila del discorso relativo al soggetto personale moderno,
lungo una traiettoria che ancora oggi viene articolata da diversi teorici
importanti. Dove lo snodo determinante è sempre lo stesso: l’instaurazione di
una costitutiva trascendenza della ragione, della dimensione per dir così
spirituale o mentale, e dunque personale, rispetto alla naturalezza empirica e
impersonale del corpo. Il che si riverbera sull’intera visione generale delle
cose, divisa fra un piano trascendente (superiore e “spirituale”) e uno
immanente (inferiore e “materiale”) determinando una serie di conseguenze. Infatti
– tanto per dirne una – è del tutto evidente che una società fondata sul
principio dell’«individualità personale» non potrà che potenziare sempre più il
mito dell’individuo, della persona – con tutte le degenerazioni e le aporie che
ne seguono e che sono sotto i nostri stessi occhi. A partire da
quell’accentuato individualismo o personalismo, che sembra essere ormai la
caratteristica antropologica oggi dominante.
Ebbene, come dicevo all’inizio, l’insufficienza e le aporie
interne della nozione di persona sono state colte innanzitutto da Freud e
Heidegger, i quali hanno il merito di avere per primi individuato il risvolto
impersonale della persona. E proprio attraverso una esplicita tematizzazione
della vita quotidiana.
3. Partiamo
dunque da Freud, che è stato senz’altro il primo, in senso assoluto, a intuire
e concettualizzare la portata dirompente della vita quotidiana e della potenza
impersonale in essa contenuta. Non per caso a lui si deve un testo – per non
dire “il” testo – emblematico a riguardo: Psicopatologia della vita quotidiana (significativamente
denominato, all’inizio, solo La vita quotidiana dallo psicoanalista,
nelle lettere a Fliess e collaboratori) pubblicata esattamente all’inizio del
Novecento. In quest’opera – come del resto nell’Interpretazione dei sogni – Freud, infatti, si occupa dei
fenomeni che si «verificano nelle persone sane» e nelle condizioni di vita
«normali». In breve nella vita quotidiana. A chiunque capita quotidianamente
non solo di sognare, ma anche di dimenticare le chiavi o qualcosa in genere, di
non ricordare un nome e veder apparire al suo posto una parola bizzarra,
strattonare un oggetto e farlo cadere etc. È con questo materiale «proveniente
da una persona normale e carico di molteplici riferimenti della vita quotidiana»
(Interpretazione dei sogni, 106) che
Freud elabora il proprio discorso. Dunque: l’analista porta sotto i riflettori
non la follia, non la malattia conclamata, non l’eccezionalità o la straordinarietà, ma l’assoluta normalità,
la mera ordinarietà, persino la banalità. Cosa che fin lì quasi nessuno
aveva mai fatto.
Ma perché Freud mette sotto la lente d’ingrandimento la vita
quotidiana più banale? Perché intuisce che proprio in essa è contenuto qualcosa
che fa problema, che «perturba» e dev’essere portato alla luce. «Tutta una
serie di fenomeni della vita quotidiana di persone sane – le dimenticanze, i
lapsus verbali, le sbadataggini, una certa categoria di errori», scrive Freud,
«debbono la loro insorgenza ad un meccanismo psichico» per il quale – facciamo
attenzione a quanto ora viene detto – «alla fine giungo a pensieri che mi
sorprendono, che non ho conosciuto in me, che non soltanto mi sono estranei, ma
anche spiacevoli […].
Abbiamo avuto l’impressione che la formazione [di tali pensieri] si svolgesse
come se una persona, che dipende da
una seconda, avesse da dire qualcosa che deve riuscire spiacevole a
quest’ultima» (Il sogno, 36-37; 41; l’ultimo corsivo è mio). Insomma, quando ci
succede qualcosa di irrazionale, come dimenticare il gas acceso o le chiavi,
fare una gaffe, strattonare un oggetto e farlo cadere etc., è come se un’altra
persona – che abita dentro di noi, ma che noi non conosciamo – volesse dirci
qualcosa di spiacevole, qualcosa che non vogliamo sapere, che rimuoviamo e che
tuttavia ci determina nei nostri comportamenti senza che ce ne rendiamo conto.
Si tratta di un meccanismo per il quale ci accorgiamo dunque che la nostra
persona è alla lettera una maschera – “persona”, appunto, secondo l’etimologia
greca –, sotto la quale si nascondono altre figure (o maschere), dentro le
quali la nostra individualità soggettiva si scompone e si frantuma, rompendo il
perimetro della persona identitaria e univoca che crediamo o pretendiamo di
essere e facendola slittare verso una dimensione propriamente impersonale.
Lo stesso avviene nelle turbe della memoria relativa ai
«nomi propri», che portano allo scoperto un vertiginoso scambio di ruoli da cui
può essere afferrata e decentrata una (la) persona. Nel capitolo, sempre nella Psicopatologia, intitolato Dimenticanza di nomi propri, Freud narra
in prima persona e analizza un’amnesia occorsagli, per la quale, al posto del
nome da ricordare, gli spuntano sulla bocca «nomi sostitutivi» volti in realtà
a coprire la dimenticanza intenzionale di qualcosa che lo «perturba» e che
rinvia ai complessi di «altre persone». Insomma, l’intera Psicopatologia ci mette sotto gli
occhi una “dinamica espropriativa” che dissolve continuamente l’identità
personale in un gioco di rifrazioni speculari inafferrabile e impersonale. E
che viene allo scoperto inaspettatamente – ecco il punto che ci interessa –
solo nelle particolari insensatezze della vita quotidiana. Sicché nel momento
in cui il soggetto dimentica un certo nome e lo sostituisce con un altro che lo
riecheggia in modo deformato, egli si accorge che queste «persone estranee» e
ciò che le riguarda si sono come “impossessate” di lui espropriandolo da sé e
creando delle «interferenze ignote» e una sorta di «contro-volontà» (Psicopatologia della vita quotidiana,
188). Col risultato non poco sconcertante di vedersi o accorgersi di essere
come rifratti in due identità, diverse ma inscindibili, che spezzano la
presunta identità originaria: quella «intenzionale» e quella «involontaria»;
una propria e l’altra «straniera»; una familiare e l’altra estranea, strana;
l’una governata e l’altra prepotentemente refrattaria ad ogni controllo ed anzi
tale da insinuarsi e determinare i gesti e le parole. Lo scienziato stesso
commenta in termini inequivocabili: «una
potenza psichica ignota […] deruba della disponibilità dei nomi propri
pertinenti alla […] memoria» (Psicopatologia
della vita quotidiana, 75; corsivo mio).
Il rilievo è dirompente. Ma il punto decisivo è che, come
dicevo, tutto questo sta dentro la vita quotidiana ed emerge da essa come da
strappi che inaspettatamente si aprono e ci permettono di penetrare con lo
sguardo nella tessitura del suo normale e silenzioso scorrimento, facendoci
vedere il lato pre-personale – o impersonale – che sfonda la nostra persona, il
nostro «Io», facendolo come fuoriuscire da sé e immettendolo in altri «Io». E
dunque rivelandoci che – normalmente, e non eccezionalmente – noi siamo come
“doppiati” da una dimensione, da un rovescio vivente impersonale, a cui
aderiamo senza potercene separare con un atto di trascendenza coscienziale
(secondo quella impostazione soggettivistica e sovrana di cui dicevo prima). Si
tratta della dimensione anonima e indistinta del vivere di tutti i giorni in
cui siamo sempre immersi, che non solo sta prima e al di qua delle singole
persone, ma opera dentro la persona stessa che pensiamo di essere, che “ci”
vive, senza che ce ne possiamo mai veramente appropriare, come una forza
occulta, qualcosa di «ignoto», «di riposto” (Psicopatologia della vita quotidiana, 262, 278), che abita dentro
di noi e a cui non possiamo sottrarci. Il che destruttura e confonde i normali
confini separanti e individualizzanti, ossia personali. Perché quella dimensione
costituisce la zona di pensiero diffuso di cui nessuno è propriamente detentore
e continuamente circolante, a cui passivamente ci rifacciamo in infiniti e
molteplici gesti, e soprattutto in una continua trasmigrazione di identità, per
cui tutti ci rispecchiamo gli uni negli altri e di continuo assorbiamo,
introiettandoli e facendoli nostri, pensieri, convinzioni, gesti, dei
molteplici altri che ci circondano.
Ecco, allora, quanto Freud porta in primo piano: un’aderenza
non separabile della nostra personale identità ad un flusso anonimo, impersonale
e inappropriabile, che scompone il profilo unitario e compatto del
«soggettopersona», e ci sottrae alla chiusura dentro un perimetro identitario
che si crede convinto di costituire un soggetto autonomo e unico, totalmente
“appropriato” a se stesso e dunque sovranamente libero delle proprie azioni. Ed
è questo “meccanismo chiasmatico fra personale e impersonale” – da cui la
persona, che si mascheri o no a se stessa, che ne sia o no consapevole, è
sempre dominata ed espropriata – il «perturbante», il «non familiare»,
contenuto nella vita quotidiana, ossia nel più «familiare»: ciò che in essa,
quando improvvisamente si rivela, ci sgomenta.
La scoperta è, come dicevo, dirompente – per quella che era
stata fin lì (ed è tuttora per molti versi) l’autorappresentazione dell’uomo. In
tal senso il discorso di Freud è un battistrada irrinunciabile nel cammino
verso il rovesciamento del rapporto persona/impersonale e la individuazione di
una diversa idea di soggettività. Ma questo cammino trova un’ulteriore tappa –
fondamentale per la filosofia – in Heidegger.
4. Infatti,
una cosa va detta subito e senza mezzi termini: è con Heidegger che la vita
quotidiana fa il suo ingresso ufficiale nella riflessione filosofica, in tutta la
sua portata decostruttiva del soggetto personale. I testi ai quali occorre
riferirsi sono, in particolare, quelli connessi ai primi corsi a Friburgo degli
anni 1919-1923, in particolare Interpretazioni
fenomenologiche di Aristotele e Ontologia. Ermeneutica della
fatticità.
Nei due corsi in questione intanto è Heidegger stesso che
dice di voler imprimere alla propria indagine una svolta «in senso radicale»
proprio attraverso l’analisi della «vita fattizia» (das fatktische Leben),
ossia la vita quale di fatto è e la viviamo «tutti i giorni» (alltäglich). E fissa un punto cardine
decisivo: non vi è una realtà diversa da quella in cui si consuma la vita di
tutti e di ciascuno, non si dà una dimensione esterna e trascendente, e neppure
trascendentale, rispetto a quell’ambito, «fondamentale» e unico, che è
l’«esserci effettivo». È soltanto dentro questo che si determinano gli incontri
«oggettivi» con le cose o gli animali o gli altri, nonché l’istituzione
soggettiva della categoria «Io» (Interpretazioni
fenomenologiche di Aristotele, 126-7). Infatti, prima e al di qua di
qualsiasi «condizione “soggettiva”» c’è la vita fattizia – con la sua
intrinseca «motilità», con la sua singolare «inquietudine». Una inquietudine
che si esplica innanzitutto come una «inclinazione» a cadere nell’ordinario
«aver-cura» dei propositi mondani (Interpretazioni
fenomenologiche di Aristotele, 150-1 e sgg.), fra i quali sono compresi
tanto i progetti culturali quanto la dispersione spensierata. Ed è tale
inclinazione che trova il suo terreno di dispiegamento nella quotidianità vera
e propria: «Una determinazione dell’esser di-volta-involta è l’Oggi, il
permanere di volta in volta nel presente, quello di volta in volta proprio
(l’Esserci come storico, il suo presente. L’esser-nel-mondo, essere vissuto dal
mondo; presente-quotidianità)» (Ontologia.
Ermeneutica dell’effettività, 36). Dove l’Oggi quindi – lungi dall’essere
una modalità difettiva o spregiativa – è il «Come», un modo d’esserci
costitutivo della vita effettiva stessa (Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, 26), già da sempre
aderente al proprio scorrimento giornaliero, rimessa alla sequenza dei giorni,
distesa nel di-volta-in-volta presente di una giornata. Dal quale, dunque,
l’Esserci non solo non si può separare, ma dal quale addirittura «è vissuto» (Ontologia. Ermeneutica dell’effettività,
37) e di cui non si può mai appropriare.
Ma questo che cosa comporta? Che è impossibile staccare da
sé la vita effettiva per renderla l’«oggetto» esterno di un «soggetto» sovrano.
Scrive Heidegger: «L’esistenza non è mai “oggetto”» (Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, 27). Ma questo fa cadere
automaticamente anche il soggetto. Dice infatti Heidegger in modo del tutto
esplicito: la «effettività […] non include nessuna idea di “io”, persona,
io-polo, centro dell’atto» (Ontologia.
Ermeneutica dell’effettività, 35-6). Proprio perché «la persona» in
particolare – specifica il filosofo con l’acribia storico-filologica che lo
contraddistingue –, originata nella concezione vetero-testamentaria, è intesa
dalla tradizione cristiana come quell’essere «factus ad imaginem et similitudinem Dei» che ne ripete i
tratti essenziali del «liberum arbitrium
intellectualis» e della «potestas» (ovvero del possesso di se stesso) e che
dunque separa drasticamente l’esserci dalla sua effettività assoggettandola.
Laddove quest’ultima è, esattamente al contrario, ciò che si sottrae a
qualsiasi “potestà” soggettiva e personale. Dunque è propriamente
“impersonale”.
Comunque, questo è solo l’esordio del discorso di Heidegger.
Ben altro affondo teorico si dispiega in Essere e Tempo.
E difatti la prima cosa che balza agli occhi è che, nella I
Parte di Essere e Tempo, là dove
si tratta della definizione esistenziale del Dasein, la quotidianità viene subito presentata come il solo orizzonte
attraverso cui si può accedere alla realtà dell’Esserci – poiché l’Esserci «di
fatto [faktisch]» non ha altra
dimensione che quella quotidiana. Questa impostazione, come già nei corsi
friburghesi, implica immediatamente una netta presa di distanza nei confronti
di qualsivoglia idea di «Io» o «soggetto» o «persona» come basamento pensante e
autocostituente di ogni approccio al mondo. Non c’è prima di tutto un
“soggetto” che istituisce il rapporto col mondo e pone il mondo o la vita
come “oggetti” esterni a sé. Prima di tutto c’è la vita effettiva (o
quotidiana) che li coinvolge entrambi. Difatti, solo a partire dal commercio,
innanzitutto quotidiano, con le cose e gli altri, ovvero solo perché «disperso»
nel suo fuori non personale (o impersonale),
l’Esserci può ripiegarsi su di sé e comprendersi. Sia in rapporto con le cose,
sia in rapporto con gli altri.
Per quanto riguarda il rapporto con le cose: l’Esserci è,
innanzitutto, già da sempre operante – in modo pre-tematico, ossia non
concettualizzato – con le cose, assunte per la loro utilizzabilità (Zuhandenheit: esser alla mano). Il che
significa che l’Esserci «innanzitutto e per lo più non è se stesso» (Essere e Tempo, 146), non è colto e non
può cogliersi, appunto, come un soggetto autonomo e autocosciente. È quanto
emergeva prima anche a proposito di Freud. Innanzitutto e per lo più, noi
viviamo inseriti in un flusso di relazioni che ci precede e ci sopravanza. E se
questo effetto potentemente decostruttivo e spersonalizzante già viene in luce
nell’analisi dell’«utilizzabile a portata di mano», tanto più si fa evidente
nel rapporto con «gli altri». Questo rapporto rompe l’involucro soggettivo dell’identità
personale rivelando che «non c’“è”, né è mai dato innanzitutto un soggetto
senza mondo», ovvero «un io isolato» (Essere
e Tempo, 147) e che ciascuno di noi è innanzitutto e da sempre disperso –
impersonalmente – in un esser-con-gli-altri, in un «con-esserci», da cui
neppure si distingue (cfr. Essere e
Tempo, 149, 158) .
Ebbene dice Heidegger, proprio questo nostro «esserci»,
irretito potremmo dire nelle cose e negli altri, «è un esistenziale ed
appartiene, come fenomeno originario, alla costituzione positiva dell’Esserci» (Essere e Tempo, 161). È qui il punto
nevralgico. L’universo del «Si» quotidiano – pur traducendo continuamente il
qualcuno nel nessuno, pur rovesciando inestricabilmente il personale
nell’impersonale, e benché in questo senso possa essere dichiarato
«inautentico», come dice Heidegger, proprio perché livella e spegne ogni
originalità personale – non è un «nulla». Anzi, è la modalità più concreta di
esistenza. Ma allora, è qui che autentico e inautentico, proprio e improprio,
vita quotidiana e vita appropriata a se stessa o qualificata, perdono la loro
connotazione univocamente contrapposta e – come già era apparso nei corsi degli
anni Venti – si rivelano in un intreccio speculare che li rende l’uno il
rovescio dell’altro. Infatti si potrebbe dire – come del resto Heidegger fa –
che non solo «inautentico» non significa affatto che l’Esserci perde il proprio
essere «autentico» quasi che l’uno sia esclusivo dell’altro, ma che, al
contrario, sono talmente l’uno inclusivo dell’altro che l’unica forma di
autenticità per l’Esserci è di scoprirsi irrimediabilmente inautentico, ovvero
quotidiano. Detto altrimenti – senza tornare sulla discussa distinzione
lessicale tra «proprio» e «autentico», entrambi adottati per tradurre eigentlich,
ma non del tutto sovrapponibili ed anzi il primo più efficace del secondo – il
“proprio” della quotidianità non solo è l’“improprio”, ma è tale da rovesciare
in forme di “improprietà” (= inautenticità) ogni tentativo di “autentico”
accesso ad essa.
L’esito è radicale: la quotidianità avvolge l’intera
dimensione dell’Esserci. Talché – ecco la conclusione lapidaria e decisiva di
queste straordinarie pagine heideggeriane – la stessa «esistenza autentica non
è qualcosa che si libri al di sopra della quotidianità deiettiva;
esistenzialmente, essa [l’esistenza autentica] è solo un afferramento modificato di questa» (Essere e Tempo, 219; corsivo mio).
Certo, va detto che nella Seconda Sezione della Prima Parte
di Essere e Tempo, quella sulla quale l’opera, come si sa, si chiude, il
discorso sulla quotidianità viene ripreso e lentamente fatto rotare nel senso
di un suo superamento. Anche attraverso una riconsiderazione del tempo tutta
volta ormai a piegare la «Zeitigung inautentica»
alla fondazione della storicità autentica. Ciò che inevitabilmente
ricostituisce il quadro categoriale attinente al «principio di soggettività» –
da Heidegger così potentemente smantellato. Infatti in questa Seconda Parte il
filosofo ripropone – secondo un gesto del tutto tradizionale – l’auto-trascendimento
della quotidianità attraverso la comprensione di sé come «totalità strutturale
unitaria» prodotta dalla morte. La morte è vista ora come la «possibilità più
propria dell’Esserci» (Essere e Tempo,
314), ovvero come ciò che perimetra la vita rendendola un «tutto» in sé
conchiuso, invalicabile, s-tagliandolo sulla e separandola dalla dispersione e
dall’impersonalità quotidiana. E non a caso da questo lato rientrano anche, nel
discorso heideggeriano, il lessico dell’eroismo e della «decisione» condensato
nella figura dell’eroe. Difatti, in quelle pagine finali leggiamo: «Solo l’essere
libero per la morte offre all’esserci il proprio fine puro e semplice […] e
porta l’Esserci al cospetto della semplicità del suo destino» (Essere e Tempo,
452) – come fanno appunto gli eroi (Essere
e Tempo, 454).
Come si vede, si tratta di un netto mutamento di registro
lessicale e concettuale che conduce a quel «gergo dell’autenticità» denunciato
da Adorno e che peraltro condurrà Heidegger a scelte – come ben sappiamo –
nefaste. In questo modo l’enigma della vita quotidiana – analizzata da
Heidegger per almeno un decennio con una ricchezza insuperata – può dirsi
risolto e insieme dissolto. Il quotidiano cede il passo ad altri motivi che ne
costituiscono la sublimazione e al contempo l’abbandono. Come del resto tutta
la produzione successiva di Heidegger ampiamente confermerà (si pensi al
discorso ieratico sulla cosa, sulla brocca etc.) – determinando il congedo dal
tema che egli, per primo, aveva portato al cospetto della filosofia.
Cionondimeno la portata radicale delle analisi heideggeriane
– e prim’ancora freudiane – ci spinge a proseguire lungo la strada dai due
autori aperta e a cercare di pensare – se è vero, come dice Deleuze, che la
filosofia è creazione di concetti – ad un altro concetto di soggetto. Non più
personale, ma, come io ho provato a chiamarlo, «impersonale», ossia tale da
riunire in sé le due dimensioni fin qui separate (quella della persona e quella
propriamente impersonale). Tale da implicare la consapevolezza che noi siamo
sempre immessi in campi di forze che ci eccedono, ci estroflettono da noi stessi
aprendo i nostri confini perimetrali personali, facendo di noi stessi «un centro
del tutto virtuale» – come diceva Merleau-Ponty – nel quale si coagulano
«vortici d’esperienza» che sono del reale – prima di appartenere a noi stessi
come persone e soggetti individuali, dotati di una coscienza e di un pensiero
autonomi e (presuntivamente) esclusivi – e che coinvolgono persino le cose come
«membrature della nostra stessa vita». Del resto, molti fenomeni attuali,
ormai, rendono sempre più evidente come la categoria di «soggetto personale»
sia inadatta alle complicate dinamiche trasformative del mondo contemporaneo –
dall’arte ai flussi sociali, dalla scienza alla politica – a cui siamo
continuamente sottoposti, che non padroneggiamo affatto e che ci determinano
nei nostri più piccoli gesti. Dinamiche, perciò, sempre più sfuggenti alle
tradizionali dicotomie gerarchiche, che distinguono fra mente e corpo, ragione
e passione, universale e singolare, “dentro” (ciò che riteniamo essere la
nostra “interiorità”, il nostro pensiero individuale ed esclusivo) e “fuori”
(ciò che ci sta intorno nell’ambiente esterno). Ciò che ho chiamato “soggetto
impersonale” – naturalmente ancora tutto da pensare – vorrebbe essere un
tentativo di risposta a questa esigenza.
Enrica
Lisciani Petrini insegna Filosofia teoretica presso l’Università degli studi di
Salerno. I suoi lavori ruotano attorno al pensiero filosofico
otto-novecentesco, con una particolare attenzione alle riflessioni di autori
come Heidegger, Bergson, Merleau-Ponty, Deleuze, Jankélévitch. Di quest’ultimo
ha curato diverse edizioni italiane: Pensare la morte? (Cortina, Milano
1995); La musica e l’ineffabile (Bompiani, Milano 1996); La
morte (Einaudi, Torino 2009); Da qualche parte nell’incompiuto (Einaudi,
Torino 2012); Debussy e il mistero (SE, Milano 2012); Il puro e
l’impuro (Einaudi, Torino 2014). Tra le sue pubblicazioni: Il suono
incrinato. Musica e filosofia nel primo Novecento (Einaudi, Torino
2001); La passione del mondo. Saggio su Merleau-Ponty (ESI, Napoli
2002); Risonanze. Ascolto Corpo Mondo (Mimesis, Milano 2007). Charis.
Essai sur Jankélévitch (Vrin-Mimesis, Paris-Milano 2013).
Enrica Lisciani-Petrini |
Tratto da Fenomenologie e visioni del mondo. Tra mente e corpo, a cura di
Pio Colonnello, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2015
http://mimesis-scenari.it/ |