Alain Badiou | Non si tratta di una selezione
razionale, di una rete prestabilita di preferenze, di un’antologia. No, è tutto
più legato a un concorso di circostanze, e la contingenza la fa ancor più da
padrona ove si consideri che sono esclusi da questa raccolta una serie di testi
aventi statuto analogo (cioè afferenti alla filosofia francese contemporanea)
già pubblicati nel volume Piccolo Pantheon portatile. Chiedo del
resto al lettore di considerare il volume qui presente e il Piccolo Pantheon
come un unico insieme.
Esistono poi, sparsi qua e là, altri testi sullo stesso argomento, che saranno sicuramente riediti un giorno, su degli autori sui quali ho scritto in modo troppo sintetico, o troppo esoterico, in articoli magari apparsi su riviste ormai introvabili, o seguendo un impulso che non è più il mio, o in un contesto che bisognerebbe esplicitare, o in una dinamica troppo allusiva, o ancora, senza tener conto d’opere successive che hanno poi modificato il mio giudizio… o che
so io.
Esistono poi, sparsi qua e là, altri testi sullo stesso argomento, che saranno sicuramente riediti un giorno, su degli autori sui quali ho scritto in modo troppo sintetico, o troppo esoterico, in articoli magari apparsi su riviste ormai introvabili, o seguendo un impulso che non è più il mio, o in un contesto che bisognerebbe esplicitare, o in una dinamica troppo allusiva, o ancora, senza tener conto d’opere successive che hanno poi modificato il mio giudizio… o che
so io.
Insomma, bisognerebbe senz’altro che
l’editore La Fabrique preparasse, dopo il presente volume e il Piccolo
Pantheon, un terzo tomo ove sia questione, tra l’altro – per non limitarsi
ai «vecchi», la cui opera è compiuta, stabilizzata, o a quelli che sono
scomparsi precocemente – di Gilles Châtelet, di Monique David-Ménard, di
Stéphane Douailler, di Jean-Claude Milner, di François Regnault, di François
Wahl… E poi finirò ben per scrivere, prima o poi, sull’importante e notevole
coorte di «giovani» filosofi di quarantacinque anni, o leggermente più giovani
(in filosofia la maturità è sempre tardiva).
L’abbozzo panoramico appena tracciato
non è altro, come si vede, che un work in progress.
Per compensare il carattere disparato
e contingente della cosa, vorrei procedere a qualche considerazione su cosa
convenga intendere per «filosofia francese», visto che il sintagma può sembrare
contraddittorio (la filosofia o è universale, o non esiste), sciovinista (che
cosa intendere, oggigiorno, con l’aggettivo «francese»?), e al contempo
imperialista (il solito occidentalo-centrismo?) e antiamericanista (la french
touch contro l’accademismo analitico dei dipartimenti di filosofia
delle università anglosassoni).
Senza rimettere in causa la vocazione
universale della filosofia, da me sistematicamente difesa, bisogna comunque
convenire del fatto che il suo svolgimento storico comporta delle
discontinuità, sia temporali che spaziali. Riprendendo un’espressione di cui
Frédéric Worms ha dimostrato tutta la pertinenza, occorre pur riconoscere che
esistono dei momenti della filosofia, delle localizzazioni singolari dell’invenzione
a risonanza universale di cui essa è capace.
Prendiamo come esempi due momenti
particolarmente forti e identificabili. In primo luogo quello della filosofia
greca classica, tra Parmenide e Aristotele, dal V al III secolo a.C., momento
storico fondatore, eccezionale e in fin dei conti alquanto breve dal punto di
vista temporale. Poi quello dell’idealismo tedesco, da Kant a Hegel, Fichte e
Schelling inclusi: ancora un momento filosofico eccezionale, tra la fine del
XVIII e l’inizio del XIX secolo, un momento intenso, creatore, e che dura solo
qualche decennio.
Allora, diciamo che battezzerò
provvisoriamente «filosofia francese contemporanea» quel momento filosofico
francese il quale, essenzialmente situato nella seconda metà del XX secolo, può
paragonarsi, per ampiezza di respiro e novità, tanto al momento greco classico
quanto al momento dell’idealismo tedesco.
Ricordiamone qualche pilastro
arcinoto. L’Essere e il Nulla, l’opera fondamentale di Sartre, esce
nel 1943, e l’ultimo libro di Deleuze, Che cos’è la filosofia?,
data del 1991. Tra Sartre e Deleuze possiamo menzionare senza dubbio Bachelard,
Merleau-Ponty, Lévi-Strauss, Althusser, Lacan, Foucault, Lyotard, Derrida… Ai
margini di questo insieme conchiuso, e per aprirlo sul contemporaneo, si
potrebbero ugualmente citare Jean-Luc Nancy, Philippe Lacoue-Labarthe, Jacques
Rancière, e il sottoscritto… È questa lista d’autori e di opere che definisco
come «filosofia francese contemporanea», e che costituisce a mio avviso un
momento filosofico nuovo, creatore, singolare e al tempo stesso universale.
Il problema consiste
nell’identificare questo insieme. Cosa è accaduto intorno alla quindicina di
nomi propri appena citati? Cosa si è definito (quando dico «si è» mi riferisco
essenzialmente agli intellettuali americani) dapprima con il termine
esistenzialismo, poi strutturalismo, decostruzione, postmoderno, e ora realismo
speculativo? Esiste un’unità storica e intellettuale di un tale momento? E
quale?
Condurrò la mia indagine in quattro
tempi. Cominciando dalla questione dell’origine: da dove nasce questo
momento? Qual è la sua genealogia? Quale il suo atto di nascita? In un secondo
tempo tenterò di identificare le operazioni filosofiche che lo
contraddistinguono. In terzo luogo abborderò una questione fondamentale, il legame
tra filosofia e letteratura che caratterizza questa
sequenza. Infine parlerò della discussione permanente, durante il
periodo in questione, tra filosofia e psicoanalisi.
Per pensare l’origine del momento
filosofico francese della seconda metà del XX secolo occorre risalire
all’inizio del secolo medesimo, quando nella filosofia francese cominciano a
costituirsi due correnti autenticamente differenti. Alcune coordinate
fondamentali: nel 1911 Bergson tiene a Oxford due conferenze celeberrime, pubblicate
in seguito nella raccolta Il pensiero e il movente. Nel 1912 esce
il libro di Brunschvicg intitolato Les étapes de la philosophie
mathématique. Questi due interventi (giusto prima della guerra del ’14-18,
il che non è indifferente) fissano due orientamenti di pensiero almeno in
apparenza del tutto opposti. Bergson propone una filosofia dell’interiorità
vitale, che assume la tesi ontologica di un’identità dell’essere e del
cambiamento fondata sulla biologia moderna. Orientamento che avrà un seguito
per tutto il secolo, fino a Deleuze compreso. Brunschvicg propone invece una
filosofia del concetto o, più esattamente, dell’intuizione concettuale (secondo
il felice ossimoro di Descartes), fondata sulla matematica, e che descrive il
costituirsi storico di forme simboliche nelle quali sono in un certo senso
depositate le intuizioni concettuali fondamentali. Anche questo orientamento,
che lega l’intuizione soggettiva ai formalismi simbolici, perdura tutto il
secolo, con Lévi-Strauss, Althusser e Lacan, su un versante più «scientifico»,
e Derrida e Lyotard, su un versante più «artistico».
All’inizio del secolo abbiamo dunque
quella che definirei una figura divisa e dialettica della filosofia francese.
Da una parte una filosofia della vita, dall’altra – per semplificare – una
filosofia del concetto. E questo problema, vita e/o concetto, sarà il problema
centrale della filosofia francese, compreso nel momento filosofico di cui è qui
questione.
Il dibattito a proposito di vita e
concetto conduce alla fine alla questione del soggetto, questione che pervade
tutto il periodo che ci interessa. E perché? Perché un soggetto umano è al
contempo un corpo vivente e un creatore di concetti. Il soggetto è l’elemento
comune ai due orientamenti: esso è oggetto d’interrogazione rispetto alla
propria vita, alla propria vita soggettiva, animale, organica; ma è anche
oggetto d’interrogazione rispetto alla propria capacità di pensiero, di
creazione, di astrazione. Il rapporto tra corpo e idea, tra vita e concetto,
presiede conflittualmente al divenire della filosofia francese intorno alla
nozione di soggetto – anche quando talora sono altre le categorie cui viene
fatto ricorso – e questo conflitto è presente fin dall’inizio del secolo, da
una parte con Bergson, dall’altra con Brunschvicg.
Qualche esempio, succintamente: il
soggetto come coscienza intenzionale è una nozione cruciale tanto per Sartre
quanto per Merleau-Ponty. Althusser invece descrive la storia come un processo
senza soggetto, e il soggetto come una categoria ideologica. Derrida, sulla
scorta di Heidegger, considera invece il soggetto come una categoria della
metafisica; Lacan crea un nuovo concetto di soggetto, il cui punto costitutivo
risiede nella divisione originaria, nella scissione; per Lyotard, il soggetto è
il soggetto dell’enunciazione, tanto da essere in ultima analisi responsabile
davanti a una Legge; per Lardreau il soggetto è ciò, o chi, a proposito del
quale è possibile provare l’affetto della pietà; per quanto mi riguarda,
invece, non esiste soggetto se non rispetto a un processo di verità, ecc.
Si noti come, su questo problema
delle origini, si potrebbe risalire anche più lontano, e dire che, in fin dei
conti, si tratta di un lascito cartesiano, e che la filosofia francese della
seconda metà del secolo non è altro che un immenso dibattito con Descartes.
Perché Descartes è l’inventore della categoria di soggetto, e il destino della
filosofia francese, e persino le sue divisioni, sono divisioni interne al
lascito di Descartes. Descartes è infatti al tempo stesso un teorico del corpo
fisico, dell’animale-macchina, e un teorico della riflessione pura. Egli
s’interessa dunque contemporaneamente alla fisica delle cose e alla metafisica
del soggetto. Tutti i grandi filosofi contemporanei hanno scritto su Descartes.
Si potrebbe citare un notevole articolo di Sartre sulla libertà in Descartes,
la tenace ostilità di Deleuze nei suoi confronti, o ancora il conflitto al suo
riguardo tra Foucault e Derrida. Poiché in fondo esistono tanti Descartes
quanti sono i filosofi francesi della seconda metà del XX secolo.
La questione dell’origine ci fornisce
quindi una prima definizione del momento filosofico che ci interessa: una
battaglia concettuale intorno alla nozione di soggetto, che spesso prende la
forma di una controversia in merito al lascito cartesiano.
Passando ora alle operazioni
intellettuali che permettono d’identificare il momento filosofico in cui ci
troviamo, mi contenterò di qualche esempio che illustri soprattutto la
«maniera» di fare della filosofia, cioè una serie di operazioni che potremmo
dire metodiche.
La prima di queste è per così dire
un’operazione tedesca, o un’operazione francese che concerne un corpus tratto
dalla filosofia tedesca. In effetti, tutta la filosofia francese della seconda
metà del XX secolo è in realtà non solo una discussione sul lascito cartesiano,
ma anche sul lascito tedesco. Vi sono stati momenti cruciali di tale
discussione, per esempio il seminario di Kojève su Hegel, che Lacan ebbe modo
di seguire e che segnò profondamente Lévi-Strauss. Vi è stata inoltre la
riscoperta, negli anni Trenta-Quaranta, della fenomenologia da parte di
un’intera generazione di giovani filosofi francesi. Come Sartre, il quale
cambiò completamente la propria prospettiva dopo aver letto, durante un
soggiorno a Berlino, Husserl e Heidegger in lingua originale. Anche Derrida è
inizialmente e prima di tutto un interprete assolutamente originale del
pensiero tedesco. E poi c’è Nietzsche, filosofo assolutamente fondamentale,
tanto per Foucault che per Deleuze. Personalità assai diverse tra loro come
Lyotard, Lardreau, Deleuze o Lacan hanno in comune di aver tutti scritto su
Kant. Si può quindi dire che i francesi sono andati a cercare qualcosa in
Germania, attingendo al vasto corpus che va da Kant a Heidegger.
Ma che cosa la filosofia francese è
andata a cercare in Germania? Lo si potrebbe sintetizzare in una frase: un
nuovo rapporto tra concetto ed esistenza, che ha assunto diversi nomi:
decostruzione, esistenzialismo, ermeneutica. Attraverso ciascuno di questi nomi
si tenta una ricerca comune che consiste nel modificare, nello spiazzare il
rapporto tra concetto e esistenza. Dato che la questione della filosofia
francese era, fin dall’inizio del secolo, il rapporto tra vita e concetto,
questa trasformazione esistenziale del pensiero, questo rapporto del pensiero
con il proprio terreno vitale, non potevano non interessarle fortemente. È
questo che intendo per operazione tedesca: individuare nella filosofia tedesca
una serie di mezzi nuovi per trattare del rapporto tra concetto e esistenza. E
si tratta in effetti di un’operazione singolare, visto che la filosofia tedesca
è diventata, nella sua traduzione francese, sul campo di battaglia della
filosofia francese, qualcosa di completamente inedito. Operazione affatto singolare
che è consistita, per così dire, nell’uso ricorrente, sul campo di battaglia
francese della filosofia, di un arsenale tratto dalla filosofia tedesca, ma
impiegato per fini in sé estranei a quelli di quest’ultima.
La seconda operazione, non meno
importante, ha riguardato la scienza. I filosofi francesi della seconda metà
del secolo scorso hanno voluto strappare la scienza allo stretto dominio della
filosofia della conoscenza. Si trattava di stabilire che la scienza era più
vasta e profonda rispetto alla semplice questione della conoscenza, che si
doveva considerala come un’attività produttiva, come una creazione e non solo
come una riflessione o una cognizione. Hanno voluto trovare nella scienza une
serie di modelli d’invenzione e di trasformazione per poterla finalmente
ascrivere non al campo della rivelazione e dell’organizzazione fenomenica, ma
ad esempio al campo dell’attività di pensiero e dell’attività creatrice,
comparabili all’attività artistica. Questo processo giunge a compimento in
Deleuze, il quale stabilisce una comparazione sottile e intima tra creazione
scientifica e creazione artistica, ma comincia ben prima, presentandosi come
una delle operazioni costitutive della filosofia francese, di cui testimonia
negli anni Trenta-Quaranta l’opera assolutamente originale di Bachelard (che
s’interessa tanto alla fisica e alla matematica quanto alla substruttura
soggettiva della poesia), di Cavaillès – restituendo la matematica alla
dinamica produttiva nel senso spinoziano – o di Lautman, per il quale il
processo della dimostrazione è l’incarnazione di una dialettica soprasensibile
delle idee.
Terzo esempio di operazione
originale: l’operazione politica. Quasi tutti i filosofi del periodo che qui ci
interessa hanno inteso impegnare profondamente la filosofia nella questione
politica: Sartre, Merleau-Ponty nel dopoguerra, Foucault, Althusser, Deleuze,
Jambet, Lardreau, Rancière, Françoise Proust – così come il sottoscritto – sono
stati militanti politici. Mentre nella filosofia tedesca cercavano un nuovo rapporto
tra il concetto e l’esistenza, nella politica cercavano un nuovo rapporto tra
il concetto e l’azione, in particolare l’azione collettiva. Il desiderio
fondamentale d’impegnare la filosofia nelle situazioni politiche è stato
sotteso dalla ricerca di una nuova soggettività, anche concettuale, che fosse
omogenea all’emergere dirompente dei movimenti collettivi.
Definirei «moderno» il mio ultimo
esempio. La sua parola d’ordine: modernizzare la filosofia. Ancor prima che si
cominciasse a parlare quotidianamente di modernizzare l’azione di governo (oggi
come oggi bisogna modernizzare tutto, il che significa spesso distruggere
tutto), vi è stato nei filosofi francesi un profondo desiderio di modernità,
che li ha indotti a seguire da vicino le trasformazioni artistiche, culturali,
sociali e le trasformazioni di costume. Vi è stato un interesse filosofico
molto forte per la pittura non figurativa, per la nuova musica, per il teatro,
per il romanzo poliziesco, per il jazz e per il cinema. Vi è stata la volontà di
avvicinare la filosofia a quanto di più denso vi fosse nel mondo moderno. Vi è
stato inoltre un interesse assai vivo per la sessualità e per i nuovi stili di
vita. Così come vi è stata una sorta di passione per le formalizzazioni
dell’algebra e della logica. Attraverso tutti questi elementi la filosofia
perseguiva un nuovo rapporto tra il concetto e il movimento delle forme: le
forme artistiche, le nuove configurazioni della vita sociale, gli stili di
vita, le forme sofisticate delle scienze letterali. Attraverso questa
modernizzazione i filosofi cercavano un nuovo modo di abbordare la creazione
formale.
Il momento filosofico francese è
stato dunque, come minimo, un’appropriazione nuova del pensiero tedesco, una
visione della scienza come creazione, una radicalità politica, una ricerca
sulle nuove forme dell’arte e della vita. Attraverso tutto ciò si è realizzata
una nuova disposizione del concetto, uno spostamento del rapporto tra il
concetto e la sua esteriorità. La filosofia ha inteso proporre un rapporto
nuovo con l’esistenza, con il pensiero, con l’azione e il movimento delle
forme.
La questione delle forme e della
ricerca, da parte della filosofia, di un rapporto intimo con la creazione di
forme è qui cruciale. Ed evidentemente comporta il rimettere in questione la
forma della filosofia medesima. Si è reso allora necessario trasformare la
lingua della filosofia, e non solo creare nuovi concetti. E questo ha implicato
un rapporto singolare tra filosofia e letteratura, altra caratteristica
saliente della filosofia del XX secolo.
In un certo senso si tratta di una
lunga storia, tipicamente francese. Non erano forse definiti philosophes personaggi
come Voltaire, Rousseau e Diderot, che sono classici della nostra letteratura?
Vi è in Francia tutta una serie di autori che non si sa bene se appartengano
alla letteratura o alla filosofia. Per esempio Pascal, che è indubbiamente uno
dei più grandi scrittori della nostra storia letteraria e uno dei nostri più
profondi pensatori. Nel XX secolo Alain, un filosofo che si presenta come del
tutto classico, filosofo non rivoluzionario e che non appartiene al momento di
cui stiamo parlando, è assai prossimo alla letteratura: per lui la scrittura è
essenziale. Egli ricerca, nei suoi testi filosofici, una sorta di lapidarietà
stilistica ereditata dai nostri moralisti classici. Ed è del resto l’autore di
diversi commenti sul romanzo – eccellenti quelli su Balzac – e sulla poesia
francese contemporanea, soprattutto su Valéry. Quindi, persino in figure
«ordinarie» della filosofia francese contemporanea è possibile riscontrare
questo legame assai stretto tra filosofia e letteratura. Tra gli anni Venti e
Trenta i surrealisti hanno svolto un ruolo importante: anche loro volevano
modificare il rapporto tra pensiero e creazione di forme, vita e arte. La loro
era la ricerca di un programma poetico che tuttavia ha aperto la strada, in
Francia, al programma filosofico degli anni Cinquanta e Sessanta. Lacan e
Lévi-Strauss hanno frequentato e conosciuto i surrealisti. Anche un tipico professore
di filosofia della Sorbona, come Alquié, era coinvolto nell’ambiente
surrealista. Tutta questa storia complessa testimonia del rapporto tra progetto
poetico e progetto filosofico, rapporto di cui i surrealisti – ma anche
Bachelard, sul versante opposto – sono i rappresentanti. Ma a partire dagli
anni Cinquanta-Sessanta tocca alla filosofia stessa inventare la propria forma
letteraria, ricercando un legame espressivo diretto tra la presentazione
filosofica, lo stile filosofico e lo spostamento concettuale che essa stessa
ricerca.
Si assiste allora a un mutamento
spettacolare della scrittura filosofica. La maggior parte di noi si è ormai
abituata a questo genere di scrittura, quella di Deleuze, di Foucault, di
Lacan, e stentiamo a figurarci a che punto abbia rappresentato una rottura con
lo stile filosofico precedente. Tutti i filosofi in questione hanno cercato di
costituirsi un proprio stile, d’inventare una nuova forma di scrittura. Hanno
ambìto a essere scrittori. In Deleuze e Foucault si riscontra qualcosa di
affatto inedito nel movimento della frase. Un ritmo affermativo senza
concessioni, un senso della formula spettacolarmente inventivo. In Derrida si
riscontra un rapporto complicato e paziente della lingua con la lingua, un
lavoro della lingua su se stessa, e in questo lavoro il pensiero sguscia come
un’anguilla tra le piante acquatiche. In Lacan si ritrova una sintassi
complessa, che in fin dei conti ha in Mallarmé il solo termine di paragone.
Tutto ciò è mosso da una lotta ostinata contro lo stile convenzionale della
dissertazione – stile che al tempo stesso ritorna costantemente, come lo si
vede significativamente in Sartre, o anche in Althusser, poiché si tratta di un
fondo retorico contro il quale il risultato è sempre incerto.
Si potrebbe quasi dire che uno dei
fini della filosofia francese sia stato quello di creare un nuovo luogo di
scrittura nel quale letteratura e filosofia diventassero indiscernibili; un
luogo che non fosse né la filosofia come disciplina né propriamente
letteratura, ma che fosse una forma di scrittura ove non si potesse più
distinguere tra filosofia e letteratura, cioè ove non si potesse più
distinguere tra il concetto e l’esperienza della vita. Poiché, in fin dei
conti, quest’invenzione di scrittura consiste nel dare una vita letteraria al
concetto.
Attraverso quest’invenzione, questa
nuova scrittura, si tratta di dire il nuovo soggetto, di creare, nella lingua,
la nuova figura del soggetto. In quanto il soggetto moderno, reale posta in
palio del momento filosofico francese, non può essere il soggetto razionale e
cosciente direttamente derivato da Descartes; né essere, per dirla più
tecnicamente, il soggetto riflessivo; deve essere qualcosa di più oscuro, di
più legato alla vita, al corpo, un soggetto meno ristretto del soggetto
cosciente, qualcosa dell’ordine di una produzione o di una creazione, che
concentri in sé forze più vaste. Sia che essa adotti, sia che riprenda o che
rinunci al termine «soggetto» a vantaggio d’altri vocaboli, è comunque questo
che la filosofia francese cerca di dire, di trovare e di pensare.
Per questo la psicoanalisi è
un’interlocutrice essenziale, perché la grande invenzione freudiana altro non è
che una proposta inedita riguardo al soggetto. Grazie al motivo dell’inconscio,
Freud ci segnala che la questione del soggetto è più vasta di quella della
coscienza. Ingloba la coscienza, ma non vi si riduce. Tale è il significato del
termine «inconscio» quando Lacan parla di «soggetto dell’inconscio».
Da qui il fatto che tutta la
filosofia francese contemporanea si è impegnata in una grande e seria
discussione con la psicoanalisi. Discussione che, in Francia, nella seconda
metà del XX secolo, costituisce una scena di straordinaria complessità. Già in
sé questa scena (o questo teatro) tra filosofia e psicoanalisi è assolutamente
rivelatrice. La posta in palio fondamentale altro non è che la divisione tra le
due grandi correnti della filosofia francese dall’inizio del secolo.
Torniamo dunque a questa divisione.
Da una parte il vitalismo esistenziale, che ha la propria origine in Bergson, e
passa indubbiamente per Sartre, Foucault e Deleuze; dall’altra quello che
definirei un concettualismo delle istituzioni, che permette una loro proiezione
formale, che si ritrova in Brunschvicg, e che transita per Althusser e Lacan.
La diagonale che li interseca entrambi, vitalismo esistenziale e formalismo
concettuale, è la questione del soggetto. Poiché un soggetto non è altro, in
fin dei conti, che ciò la cui esistenza ne sostiene il concetto. Ebbene, in un
certo senso, l’inconscio di Freud occupa esattamente questa posizione: anche
l’inconscio è qualcosa al contempo di vitale e simbolico, che sostiene il
concetto.
Ovviamente, come sempre, il rapporto
tra chi fa le stesse cose, ma in modo diverso, non è dei più semplici. Si
stabilisce per così dire un rapporto di complicità – visto che si fa la stessa
cosa – ma anche un rapporto di rivalità – visto che la si fa differentemente. E
il rapporto tra filosofia e psicoanalisi nella filosofia francese risponde
esattamente a questa regola: complicità e rivalità al tempo stesso. Un rapporto
di fascinazione e d’amore, ma anche di ostilità e di detestazione. Per questo
le scena è violenta e complessa.
Tre testi fondamentali permettono di
prenderne la misura. Il primo è l’inizio del libro di Bachelard pubblicato nel
1938, La Psicoanalisi del fuoco, il più chiaro sulla questione.
Bachelard propone una nuova psicoanalisi, fondata sulla poesia, sul sogno, e che
si potrebbe definire una psicoanalisi degli elementi: il fuoco, l’acqua,
l’aria, la terra, una psicoanalisi elementare. In fondo si potrebbe dire che
Bachelard cerca di sostituire alla determinazione sessuale freudiana il nuovo
concetto da lui elaborato di «rêverie». Vuole mostrare come la rêverie è
qualcosa di più vasto e di più aperto rispetto alla determinazione sessuale. Lo
si evince chiaramente all’inizio della Psicoanalisi del fuoco.
Nel secondo dei testi in questione,
la fine de L’Essere e il Nulla, Sartre propone a sua volta la
creazione di una nuova psicoanalisi, che egli definisce «psicoanalisi
esistenziale». La complicità/rivalità è in questo caso esemplare. Sartre oppone
la propria psicoanalisi esistenziale alla psicoanalisi di Freud, che egli definisce
«empirica». Secondo lui è possibile proporre un’autentica psicoanalisi teorica,
mentre Freud resterebbe a una psicoanalisi empirica. Se Bachelard voleva
rimpiazzare la determinazione sessuale con la rêverie, Sartre vuole sostituire
il complesso freudiano, cioè la struttura dell’inconscio, con quel ch’egli
definisce il «progetto». Quel che definisce un soggetto per Sartre non è una
struttura, nevrotica o perversa, ma un progetto fondamentale, un progetto
d’esistenza. Anche in questo caso abbiamo dunque un perfetto esempio di
combinazione tra complicità e rivalità.
La terza referenza è il quarto
capitolo dell’anti-Edipo di Deleuze e Guattari, in cui, ancora una
volta, si propone di rimpiazzare la psicoanalisi con un altro metodo che
Deleuze chiama la «schizo-analisi», in assoluta rivalità con il modello
freudiano. Bachelard punta sulla rêverie contro la determinazione sessuale,
Sartre sul progetto contro la struttura o il complesso, e Deleuze – il testo è
chiarissimo a questo proposito – sulla costruzione contro l’espressione –
laddove il suo grande rimprovero alla psicoanalisi è che quest’ultima si limita
a esprimere le forze dell’inconscio, mentre si tratta di costruirle.
Ecco il fatto straordinario e
sintomatico: tre grandi filosofi, Bachelard, Sartre e Deleuze, hanno proposto
di rimpiazzare la psicoanalisi con qualcosa d’altro. E si potrebbe dimostrare
che Derrida e Foucault hanno nutrito un’analoga ambizione…
Tutti questi elementi tratteggiano
una sorta di paesaggio filosofico che occorre ora ricapitolare.
Credo che un momento filosofico si
definisca attraverso un programma di pensiero. Certo, i filosofi restano
differenti e il programma è abbordato secondo metodi a volte opposti, e dà
luogo alla fine a risultati contraddittori. È tuttavia possibile individuare
l’elemento comune che si riflette in tutte queste differenze e contraddizioni:
non le opere, né i sistemi, e nemmeno i concetti, ma il programma. Quando la
questione programmatica è forte e condivisa si dà allora un momento filosofico,
con una gran diversità di mezzi, di opere, di concetti e di filosofi. Allora
qual è stato il programma in questione nella seconda metà del XX secolo?
In primo luogo: smettere di
contrapporre concetto ed esistenza, farla finita con questa separazione.
Mostrare come il concetto sia dell’ordine del vivente, della creazione, del
processo e dell’evento, e come tale non possa essere separato dall’esistenza.
Secondo punto: inscrivere la
filosofia nella modernità, il che significa anche farla uscire dall’accademia,
farla circolare nella vita. La modernità sessuale, artistica, politica,
scientifica, sociale, sono tutte dimensioni che la filosofia deve poter
prendere in conto, incorporandole e traendone forza. E per far questo essa deve
rompere parzialmente con la sua stessa tradizione.
Terzo punto: rinunciare alla
contrapposizione tra filosofia della conoscenza e filosofia dell’azione. Questa
distinzione fondamentale, che per esempio assegna in Kant strutture e
possibilità ben differenziate alla ragion pratica e alla ragion pura, era
ancora in tempi recenti alla base dell’insegnamento della filosofia all’ultimo
anno di liceo. Ebbene, il programma del momento filosofico francese comportava
in ogni caso la rinuncia a questa separazione e la dimostrazione che la
conoscenza è anch’essa una pratica, persino la conoscenza scientifica è una
pratica, così come l’arte e l’amore sono dell’ordine del pensiero, e
nient’affatto agli antipodi del concetto.
Quarto punto: collocare direttamente
la filosofia sulla scena politica senza détour attraverso la
filosofia politica, inscriverla frontalmente sulla scena politica. Tutti i
filosofi francesi, a gran dispetto della stragrande maggioranza dei loro
colleghi anglosassoni, hanno cercato d’inventare quello che definirei il
«militante filosofico». La filosofia, per il suo modo d’essere, per la sua
presenza, non doveva proporsi solo come una riflessione sulla politica, ma come
un intervento volto a rendere possibile una nuova soggettività politica. In
questo senso nulla di più opposto al momento filosofico francese, nulla che ne
marchi tanto chiaramente la fine, quanto la moda attuale della «filosofia
politica». Ritorno un po’ triste alla tradizione accademica e riflessiva.
Quinto punto: riprendere la questione
del soggetto, abbandonare il modello riflessivo e, pertanto, discutere con la
psicoanalisi, rivaleggiare con essa e tenerle testa, se non superarla, nel
pensare un soggetto irriducibile alla coscienza, e quindi alla psicologia. Il
nemico mortale per la filosofia francese che qui ci interessa resta la
psicologia, la quale ha ricoperto per lungo tempo più di metà del programma
d’insegnamento di filosofia, che il momento filosofico francese ha tentato di
sgominare, e il cui attuale ritorno in voga significa forse che un periodo di
creazione volge al termine, o sta volgendo al termine.
Sesto punto, infine: creare un nuovo
stile dell’espressione filosofica, rivaleggiare con la letteratura. Reinventare
in fondo la figura dello scrittore-filosofo del XVIII secolo. Reinventare una
personalità che vada al di là del mondo accademico, ma anche del mondo
mediatico, che si facesse conoscere direttamente, attraverso la parola, gli
scritti, le prese di posizione e gli atti, visto che il suo programma consiste
nell’interessare e nel modificare la soggettività contemporanea, per così dire con
qualunque mezzo.
Questo è il momento filosofico
francese, il suo programma e la sua grande ambizione. Credo tradisca un
desiderio essenziale. Un’identità, anche quella di un momento filosofico, non è
forse l’identità di un desiderio? Sì, vi era e vi è un desiderio essenziale di
fare della filosofia una scrittura attiva, cioè lo strumento e il viatico di un
nuovo soggetto. E di conseguenza il desiderio di fare del filosofo qualcosa di
diverso dal saggio, il desiderio di farla finita con l’immagine meditativa,
professorale e riflessiva del filosofo.
Fare del filosofo qualcosa di diverso
dal saggio significa farne qualcosa di diverso da un semplice rivale del prete:
farne uno scrittore agguerrito, un artista del soggetto, un amante della
creazione. Scrittore agguerrito, artista del soggetto, amante della creazione,
militante filosofico, sono termini che esprimono il desiderio che ha
attraversato questo periodo, e che voleva che la filosofia agisse in
nome proprio.
Tutto ciò mi fa pensare a una frase
di Malraux, che però quest’ultimo attribuisce a De Gaulle, nel libro Les
chênes qu’on abat: «La grandeur è un cammino verso un
qualcosa che non si conosce». Credo che la filosofia francese della seconda
metà del XX secolo, cioè il momento filosofico francese, abbia proposto alla
filosofia di preferire il cammino piuttosto che la conoscenza della meta, l’azione
e l’intervento filosofico piuttosto che la mediazione e la saggezza. è stata
quindi una filosofia senza saggezza, come oggi le si rimprovera puntualmente.
Quel che abbiamo desiderato non era
dunque una separazione netta tra vita e concetto, né la sottomissione
dell’esistenza in quanto tale all’idea o alla norma, ma che il concetto stesso
fosse un cammino di cui non si conosce il punto d’arrivo. E la filosofia doveva
chiarire per quali ragioni questo cammino, sul quale si decide di mettersi e la
cui meta è in parte aleatoria e oscura, è giustamente – vale a dire: in
conformità con la giustizia – quello nel quale bisogna ingaggiarsi.
Sì, la filosofia del momento di cui
si detto è, è stata, l’accettazione dell’idea, imperativa e razionale, di un
sentiero oscuro verso la giustizia – nel mio lessico: verso una verità – che
l’epoca ci invita a costruire nel momento stesso in cui decidiamo di
avventurarvici.
Questo libro L'avventura della filosofia francese. Dagli anni sessanta, appena uscito in Italia, di uno dei più rilevanti filosofi contemporanei, Alain Badiou. Ne pubblichiamo la prefazione, per gentile concessione della casa editrice DeriveApprodi.
© Il Rasoio di Occam
Questo libro L'avventura della filosofia francese. Dagli anni sessanta, appena uscito in Italia, di uno dei più rilevanti filosofi contemporanei, Alain Badiou. Ne pubblichiamo la prefazione, per gentile concessione della casa editrice DeriveApprodi.
© Il Rasoio di Occam