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Foto: Marshall Berman |
Vittorio Giacopini | Il
faut être absolutement moderne e tutta l’opera di Marshall Berman
ruota attorno al perno di questa contraddizione micidiale. L’imperativo di
Rimbaud esplode in una fantasmagoria di dilemmi, paradossi, segni erranti.
“Essere moderni significa sentire, a livello
personale e sociale, la vita come un vortice, scoprire di essere, insieme al
nostro mondo, in continuo disgregamento e rinnovamento, immersi perennemente
nelle difficoltà e nell’angoscia, nell’ambiguità e nella contraddizione: essere
parte di un universo in cui tutto ciò che vi era di solido si dissolve
nell’aria”.
L’esperienza della modernità (un libro stupendo) è del
1982 (edizione italiana Il Mulino, ristampato di recente), e la data conta.
Potevano essere anni di resa e perplessità; di diserzione. Non era un bel
momento, poco ma vero. La morte del sogno dei sixties – un congedo forse
rinviato troppo a lungo – la fine della stagione dei Movimenti. In Europa il
dibattito culturale si perdeva nelle gore astratte dello strutturalismo, in
America prevaleva – velata dal disincanto – la Reazione. Bisognava reagire,
oppure piegarsi. L’altro grande libro