Istvan Mészaros ✆ Ilesxi |
1. Sintomi di una
crisi di fondo | Vorrei cominciare facendo una breve rassegna dei recenti
sviluppi inquietanti – e direi anche minacciosi a livello mondiale – nel campo
della politica e del diritto. Ma permettetemi di ricordare a questo proposito
la mia prima visita in Brasile, molti anni fa.
Non ero molto lontano da Maceio, in termini di distanze
brasiliane. In quell’occasione, dopo un lungo volo da Londra a Recife, al
mattino presto un’auto mi condusse a una stazione radio commerciale a Joao
Pessoa, per uno scambio di opinioni. Dieci minuti dopo l’inizio della nostra
conversazione, che veniva trasmessa in diretta, con amici e colleghi vedemmo
che al di là della parete di vetro che ci separava dalla stanza adiacente si
levava una grande confusione. Durante l’interruzione per la pubblicità potemmo
scoprire che la ragione di quella che sembrava una discussione infuocata nella
stanza accanto era la preoccupazione espressa da un reporter, testimone oculare
di serie rivolte causate dalla fame, che si stavano svolgendo in una città
vicina. Questo incidente accadeva nel 1983, esattamente ventitre anni fa.
Circa vent’anni dopo, all’epoca della campagna elettorale
del presidente Lula, lessi che egli annunciava come parte importante della sua
strategia presidenziale la decisione di porre fine al grave disastro sociale
della fame. I due decenni trascorsi dal tempo di quelle drammatiche rivolte a
Paraiba non erano riusciti a risolvere quel cronico problema. Naturalmente voi
siete giudici molto migliori di me per decidere se il presidente Lula abbia mantenuto
il suo solenne impegno. Ma anche se la risposta fosse un entusiastico sì – e io
ho qualche dubbio – le fosche statistiche delle Nazioni Unite sottolineano
costantemente che il problema persiste, con conseguenze devastanti, in molte
parti del mondo. E ciò malgrado il fatto che le capacità produttive di cui oggi
dispone l’umanità potrebbero relegare definitivamente nel passato i drammi
sociali della fame e della malnutrizione, ormai totalmente imperdonabili.
Sarebbe facile la tentazione di attribuire queste difficoltà
– come accade spesso nel discorso politico – a contingenze politiche più o meno
facili da correggere, postulando con ciò la possibilità di sanare la situazione
con un cambio di personale politico alla prossima tornata elettorale. Ma questo
significherebbe come sempre eludere il problema, e non dare una spiegazione
plausibile. L’ostinato persistere dei problemi in questione, con tutte le loro
dolorose conseguenze umane, indica che vi sono connessioni radicate molto più
in profondo. Esse indicano una forza d’inerzia apparentemente incontrollabile,
che sembra in grado di trasformare – con deprimente frequenza – anche le
migliori intenzioni espresse nei manifesti politici in pietre che lastricano la
strada dell’inferno, come dicono le immortali parole di Dante. In altri
termini, la sfida è di affrontare le cause e le determinazioni strutturali che
per forza di inerzia tendono a far fallire i programmi politici intesi a
modificare la realtà, malgrado che gli stessi autori dei programmi riconoscano
che la situazione è insostenibile.
Prendiamo in considerazione alcuni esempi significativi, che
dimostrano chiaramente non solo che vi è qualcosa che tocca pericolosamente la
maniera in cui regoliamo i nostri scambi societari, ma ancor peggio, come
circostanza aggravante, che vi è la tendenza a intensificare i pericoli fino a
un punto di non ritorno.
Sei anni fa, per una conferenza tenuta ad Atene nell’ottobre
del 1999, avevo scritto che “con ogni probabilità nel futuro la forma ultima di
minaccia nei confronti dell’avversario – la nuova “diplomazia delle
cannoniere”, esercitata da un cielo ormai ‘brevettato’ – sarà il ricatto
nucleare. Ma il suo obiettivo sarebbe analogo a quelli del passato, mentre la
modalità scelta potrebbe solo sottolineare l’assurda impossibilità di voler
imporre in quella maniera la razionalità del capitale alle parti del mondo che
vi si ribellano” (2). In questi sei anni tali pratiche politiche potenzialmente
letali di imperialismo egemonico globale sono diventate non solo una possibilità
generica, ma parte integrante della “concezione strategica” neo-conservatrice
del governo americano, apertamente dichiarata. E oggi ancora peggio. Nelle
ultime settimane, in relazione all’Iran, (3) si è intrapreso di fatto un
percorso che potrebbe minacciare non solo l’Iran ma tutta l’umanità, con un
disastro nucleare. La cinica formula che si usa sempre nel rendere pubbliche
tali minacce è di non confermare né smentire. Ma nessuno si lascia ingannare da
questi mezzucci. Di fatto il pericolo molto concreto di disastro nucleare, che
si è recentemente rivelato, ha spinto un gruppo di noti fisici americani, fra
cui cinque premi Nobel, a scrivere una lettera aperta di protesta al presidente
Bush, in data 17 aprile, in cui essi dichiarano: “E’ gravemente irresponsabile
che gli Stati Uniti in quanto maggiore superpotenza prendano in considerazione
delle azioni che potrebbero portare a un’ampia distruzione di vita sul pianeta.
Chiediamo che il governo annunci pubblicamente che eliminerà l’opzione nucleare
in ogni caso di avversario non-nucleare, presente o futuro, e chiediamo che il
popolo americano faccia sentire la sua voce su questa materia”. (4)
Le legittime istituzioni politiche delle nostre società sono
in grado di affrontare tali situazioni estremamente pericolose mediante un
intervento democratico nell’attuale processo decisionale, come continua a
ripetere il tradizionale discorso politico, malgrado tutte le evidenze
contrarie? Solo una persona molto ottimista – e anche un po’ ingenua – potrebbe
credere sinceramente e restare convinta che questa felice realtà corrisponda al
vero. Infatti negli ultimi anni le principali potenze occidentali si sono
lanciate in guerre devastanti, praticamente senza impedimenti, usando metodi
autoritari – come la “executive prerogative” o la “Royal prerogative” in Gran
Bretagna – senza consultare il popolo su una materia tanto importante, e
calpestando spietatamente sia il diritto internazionale che gli organi
decisionali delle Nazioni Unite. Gli Stati Uniti si arrogano il diritto
morale di fare quel che gli pare, ovunque gli pare, al punto di usare armi
nucleari – non solo in via preventiva ma anche preferenziale – contro qualsiasi
paese, ovunque i suoi “interessi strategici” lo richiedano. E tutto questo gli
Stati Uniti lo fanno come pretesi campioni e guardiani dei principi di
“democrazia e libertà”, e con tutto l’appoggio delle nostre “grandi
democrazie”.
Una volta si usava la sigla M.A.D. * (In inglese “mad”
significa “pazzo”. NdT) – Mutually Assured Distruction (sicura
distruzione reciproca) – per indicare la situazione di un confronto nucleare.
Oggi che i “neo-con” non possono più addurre a pretesto che gli Stati Uniti (e
l’Occidente in generale) sono minacciati di distruzione nucleare, la sigla
indica la pazzia totale in cui si identifica il “legittimo orientamento
politico” della follia politico-militare istituzionalizzata. Ciò deriva in
parte dalla delusione dei “neo-con” per gli esiti della guerra in Iraq. I
conservatori americani avevano sperato che l’invasione dell’Iraq avrebbe messo
in moto un effetto-domino in tutta la regione, e che il popolo dell’Iran e
degli altri stati ricchi di petrolio fosse pronto a insorgere per rivendicare
democrazia e libertà di stile occidentale. Purtroppo si è verificato il
contrario, almeno in Iran. (6) Ma c’è qualcosa di molto peggio, perché dietro
vi è in agguato un intero sistema di “pensiero strategico” supportato e
garantito dalle istituzioni, e incentrato sul Pentagono. Per questo la nuova
“pazzia” è tanto pericolosa per il mondo intero, inclusi gli Stati Uniti, i cui
peggiori nemici sono appunto questi nuovi “strateghi”.
Lo possiamo vedere con molta chiarezza in un libro
pubblicato nel 2004 da Thomas P.M. Barnett (7), e recensito nella “Monthly
Review” da Richard Peet, che scrive:
L’11 settembre è stato un grande regalo, per quanto assurdo e crudele ciò possa sembrare. Fu in invito che la storia lanciò agli Stati Uniti per risvegliarsi dal sogno degli anni 90 e imporre nuove regole al mondo. Il nemico non è la religione (l’Islam) e neppure il luogo, ma la condizione di “sganciamento”. Essere “sganciati” in questo mondo significa essere isolati, deprivati, repressi e non istruiti. Per Barnett questi sintomi definiscono il pericolo. Più semplicemente, se un paese sfugge allaglobalizzazione, o ne rifiuta i contenuti culturali, è probabile che gli Stati Uniti finiranno per inviarvi delle truppe… Negli Stati Uniti la concezione strategica deve focalizzarsi sull’“accrescere il numero di Stati che riconoscono un insieme stabile di regole circa la guerra e la pace” – cioè le condizioni alle quali diventa ragionevole fare la guerra a nemici identificabili del “nostro ordine collettivo”. Aumentare questa comunità significa semplicemente stabilire la differenza fra buoni e cattivi regimi e incoraggiare i cattivi a cambiare. Gli Stati Uniti – Barnett pensa – hanno la responsabilità di usare il loro tremendo potere per rendere la globalizzazione veramente globale. Altrimenti parti di umanità saranno condannate allo status di outsiders che potrà condurre a definirli come nemici. E nel caso in cui gli Stati Uniti li identificassero come tali, gli farà la guerra, portando morte e distruzione. Questa non è assimilazione forzata – sostiene Barnett – e neppure allargamento dell’impero: è invece estensione della democrazia. (8)
Qui siamo evidentemente ai limiti della follia. E le sue
conseguenze brutali vengono chiarite dall’autore in un’intervista alla rivista
“Esquire”:
Che cosa significa questo nuovo approccio per il nostro paese e per il mondo a lunga scadenza? Permettetemi di essere molto chiaro: i ragazzi non torneranno mai a casa. L’America non lascerà il Medio Oriente finché il Medio Oriente non si sarà unito al resto del mondo. E’ semplice. Non è necessaria alcuna strategia di uscita perché non ci sarà uscita.
In verità
non potrebbe essere più chiaro di così. Possiamo vedere chiaramente la
gratuita idealizzazione delle assurde presunzioni del “tremendo potere” USA e
la proiezione della “globalizzazione” come mero dominio americano, riconoscendo
apertamente che esso veicola “morte e distruzione”. E se qualcuno volesse
pensare che Barnett è un irresponsabile pennivendolo, ci sono pure sempre i
fatti a suscitare allarme. Barnett infatti è “ricercatore strategico senior”
della Scuola navale di guerra di Newport, Rhodes Island, ed è “vision guy”
nell’ufficio di Force Transformation dipendente dal Ministero della difesa.
Inoltre fa parte di una lista di persone qualificate che bisogna interpellare e
prendere in considerazione, in tutta serietà.
Negli Stati Uniti purtroppo, i livelli più alti del
“pensiero strategico” sono popolati da questi “vision guys”, ben decisi ad
aggiungere i loro pesanti lastroni di intenzioni non certo buone, ma cattive e
aggressive, sulla strada per l’inferno di cui parlava Dante. Il grande poeta
italiano non sostenne mai che la via dell’inferno potesse essere lastricata
solo di buone intenzioni. Secondo uno di questi pericolosi “vision guys”, Max
Boot – che è consigliere anziano del prestigioso “Council on Foreign Relations”
americano – “ogni nazione che ha una politica imperiale è destinata a soffrire
qualche rovescio. L’esercito inglese, durante le ‘piccole guerre’ del periodo
vittoriano, fu severamente sconfitto ed ebbe migliaia di caduti sia nella prima
guerra afghana (1842) che nella guerra contro gli Zulu (1879). Ciò non indebolì
la determinazione degli inglesi a difendere e allargare il loro impero, ma li
rese ansiosi di vendicarsi. Se gli americani non sanno adottare un
atteggiamento mentale analogo, non saranno in grado di reggere una politica di
tipo imperiale”. (9) In una “concezione strategica” di tipo così aggressivo, si
avanza un’aperta idealizzazione della costruzione dell’impero inglese perfino
nei suoi aspetti più brutali. In nome dell’esportazione della “democrazia” e della
“libertà” si raccomanda cinicamente di adottare senza riserve l’antica violenza
coloniale come modello per la costruzione dell’impero americano di oggi.
Ciò che rende tutto questo particolarmente inaccettabile è
che su tutte le questioni di maggiore importanza – e si parla anche della
distruzione dell’umanità – ai maggiori livelli decisionali statunitensi si
riscontra un assoluto consenso, malgrado il periodico rituale delle elezioni
sia per la Presidenza che per il Congresso e il Senato, che dovrebbero offrire
alternative reali. Le differenze in queste questioni di importanza vitale sono
più conclamate che reali. Come affermavo nel dicembre 2002, molto prima
dell’invasione dell’Iraq, “il presidente democratico Clinton aveva portato
avanti la stessa politica del suo successore repubblicano, anche se in maniera
più mascherata. Per quanto riguarda il candidato democratico alla Presidenza,
Al Gore, egli ha dichiarato recentemente che appoggia senza riserve la guerra
contro l’Iraq perché tale guerra non significa un “cambio di regime” ma si
tratta di “disarmare un regime in possesso di armi di distruzione di massa”.
(10) E non dovremmo poi dimenticare che il primo Presidente americano a
bombardare l’Afghanistan fu proprio quel tanto idealizzato Bill Clinton. Non
deve quindi sorprendere che il successore di Al Gore come candidato democratico
alla Presidenza, il senatore John Kerry, si sia affrettato a dichiarare –
ripetendo le parole del suo avversario repubblicano George Bush – che “gli
americani non sono d’accordo su se e come avremmo dovuto andare alla guerra. Ma
oggi per noi sarebbe impensabile ritirarci in disordine e lasciarci dietro una
società profondamente lacerata e dominata dagli estremisti”. Si capisce bene
perciò come il noto scrittore e critico americano Gore Vidal abbia descritto la
politica americana in questi termini di amara ironia: “Negli Stati Uniti c’è un
sistema che prevede un solo partito con due ali destre”.
Sfortunatamente, gli Stati Uniti non sono l’unico paese di
cui si possa dire questo. Ce ne sono molti altri in cui – tolti alcuni piccoli
partiti e movimenti totalmente ininfluenti a livello di potere decisionale – le
funzioni decisionali in politica sono monopolizzate da analoghi accordi
istituzionali consensuali e auto-legittimati, con differenze minime (seppure
esistono) fra loro, malgrado l’occasionale cambio di personale politico al
massimo livello. Dati i limiti di tempo, mi limiterò a discutere un solo caso
di grande importanza, quello della Gran Bretagna. Questo paese – che si vanta
di essere la culla della democrazia, sulla base dell’antico documento storico
della Magna Carta – sotto il governo di Tony Blair si è allineato al potente
Stato americano per quanto riguarda la definizione di Gore Vidal: un partito
con due ali destre. La guerra all’Iraq è stata approvata nel Parlamento inglese
sia dal partito conservatore che dal New Labour con l’aiuto di violazioni e
manipolazioni giuridiche più o meno ovvie. Oggi possiamo leggere che “le
trascrizioni delle dichiarazioni rese in privato dall’attorney general Lord
Goldsmith suggeriscono che il parere giuridico cruciale sulla legalità della
guerra, presentato in Parlamento a suo nome, fu scritto da due dei più fedeli
alleati di Blair… L’ex ministro degli esteri Robin Cook ha dichiarato che,
avendo presentato le dimissioni il giorno prima dell’inizio della guerra, non
aveva mai sentito Lord Goldsmith proporre la questione in una riunione di
governo. ‘Penso che non abbia mai scritto un secondo parere’, ha dichiarato al
“Guardian”” (11). L’aver reso pubbliche queste pratiche, condannate da noti
esperti di diritto, circa la “guerra illegale” di Bush e Blair, non ha
provocato alcuna reazione. Gli interessi dell’imperialismo egemonico globale –
serviti senza esitazioni e in maniera umiliante dal sistema di consenso
politico di una ex potenza imperialistica – devono avere la meglio ad ogni
costo.
Le conseguenze di questa maniera di gestire lo scambio
sociale e politico si estendono su un ventaglio molto ampio. Possono avere
implicazioni davvero devastanti per le pretese credenziali democratiche
dell’intero sistema giuridico. Tre casi importanti saranno sufficienti a
dimostrare l’assunto.
Il primo caso riguarda l’allarme lanciato dal famoso
scrittore John Mortimer, che fu in passato un sostenitore appassionato del
Partito laburista inglese, senza essere peraltro un radicale spinto. Tuttavia,
viste gli ultime vicende in campo giuridico e politico, e in particolare
l’abolizione della importantissima garanzia dell’habeas corpus, Mortimer ha
sentito la necessità di protestare con pari passione, e in un articolo ha
scritto che “ora è emerso il fatto orribile che l’idea di ‘modernizzazione’ del
Labour è rimandarci più indietro della Magna Carta e del Bill of Right,
giorni oscuri in cui non avevamo alcuna idea della presunzione di innocenza…
Sembra che in un gran numero di casi Tony Blair preferisca accettare le
sommarie convinzioni fornite dalla polizia senza necessità di alcun processo.
Con questo vengono liquidate centinaia di anni di una costituzione che ci rende
tanto orgogliosi”. (13)
Il secondo caso dimostra come il governo inglese risponda
alle severe critiche provenienti perfino dagli organi più alti della
magistratura: con un rifiuto autoritario. Come si è visto recentemente: “Un
giudice di alto livello ha espresso dei dubbi circa il sistema governativo di
controllo contro i sospetti terroristi, in quanto ‘affronto alla giustizia’ e
ha fatto ricorso perché contrario alle leggi sui diritti umani… Il ministero
dell’interno ha rigettato il ricorso”. (14)
Per quanto riguarda il terzo caso, esso indica una questione
di grandissima importanza legislativa: l’autorità del Parlamento stesso, che si
trova sotto la minaccia della legge di riforma del New Labour. Citiamo John
Pilger: “La legge di riforma legislativa ha già superato la seconda lettura al
Parlamento senza suscitare alcun interesse da parte dei deputati laburisti e
dei giornalisti specializzati: eppure si tratta di una legge assolutamente
totalitaria…In base a questa legge, il governo potrà cambiare segretamente ilParliamentary
Act, e un suo decreto potrà cancellare la costituzione e le leggi. La nuova
legge segna la fine dell’autentica democrazia parlamentare; di fatto i suoi
effetti sono tanto significativi quanto l’abbandono del Bill of rights da
parte del Congresso USA, l’anno scorso”. (15)
La manipolazione e la violazione del diritto internazionale
e nazionale, allo scopo di giustificare l’ingiustificabile, comportano rischi
notevoli anche per i più basilari elementi costituzionali. Sotto la pressione
diretta degli Stati Uniti, che vogliono assicurarsi un appoggio illegale per i
loro interventi avventuristici in altri paesi, i mutamenti in senso negativo –
che inficiano elementi fondamentali della struttura politico-giuridica dei loro
“alleati” – non restano confinati al contesto internazionale (dominato dagli
USA). Tendono invece a inficiare la costituzionalità in generale, con
conseguenze incontrollabili per il sistema giuridico interno degli “alleati
volonterosi”, sovvertendone le tradizioni giuridiche e politiche. L’arbitrio e
l’autoritarismo possono provocare rivolte come risultato di tali cambiamenti
altamente irresponsabili, che non esitano a gettare lo scompiglio anche nella
costituzione vigente.
L’attuale dibattito giapponese offre un esempio
significativo su questo punto. “E’ sorta una grave situazione in cui le forze
che vogliono procedere a una revisione costituzionale stanno facendo a gara nel
redigere una nuova costituzione. Il Partito liberaldemocratico (che è da molto
tempo al governo) ha preparato una bozza di costituzione in cui … viene
cancellato il secondo paragrafo dell’art. 9 della costituzione vigente, e si
aggiunge una norma che permette al Giappone di ‘mantenere una forza militare di
autodifesa’, destinata anche ad ‘attività coordinate a livello internazionale
per mantenere la pace e la sicurezza nella comunità internazionale’, aprendo
così la strada a un uso delle forze giapponesi all’estero. La bozza prevede
anche una clausola per limitare i diritti umani fondamentali in nome dell’‘interesse
pubblico’ e dell’‘ordine pubblico’, il che significare negare il
costituzionalismo. Inoltre è molto grave che la bozza del Pld renda più agevole
emendare la costituzione, cancellando il requisito previsto della maggioranza
dei due terzi del Parlamento per introdurre la maggioranza semplice”. (16) Lo
scopo immediato di tali cambiamenti è ovviamente quello di trasformare il
popolo giapponese in “volonterosa” carne da cannone per le guerre presenti e
future dell’imperialismo statunitense. Ma chi può dimenticare la dolorosa
storia delle trascorse avventure imperialistiche giapponesi e della repressione
interna, e garantire che non ci saranno altre conseguenze a lunga scadenza?
Nel frattempo ci sono tanti gravi problemi che potrebbero
trovare soluzioni opportune. Alcuni sono presenti da decenni e impongono
gravissime sofferenze e sacrifici a milioni di uomini. Per ricordare un esempio
molto vicino a voi, la Colombia. Per quarant’anni le forze di oppressione –
interne ed esterne, dominate dagli USA – hanno tentato di soffocare la lotta
del popolo colombiano, ma senza riuscirci. I tentativi di raggiungere un
accordo negoziato – “con la partecipazione di tutti i gruppi sociali senza
eccezione, allo scopo di riconciliare la famiglia colombiana” (17) nelle parole
del leader delle Farc – sono stati sistematicamente frustrati. Come ha scritto
recentemente Manuel Marulanda Velez in una lettera aperta destinata a un
candidato presidenziale: “Nessun governo, liberale o conservatore, ha mai
offerto un’effettiva soluzione politica al conflitto armato e a quello sociale.
I negoziati sono stati usati allo scopo di non cambiare nulla, perché tutto
restasse uguale. Tutti gli schemi politici elaborati dai governi hanno usato la
Costituzione e le leggi come barriere, per garantire che tutto continui ad
essere come prima”. (18)
Quando gli interessi sociali dominanti lo richiedono, la
“costituzionalità” e le regole del “consenso democratico” vengono cinicamente
usate in Colombia (come altrove) come strumenti per eludere e rinviare
all’infinito la soluzione dei problemi più urgenti, senza badare alle immense
sofferenze imposte al popolo. E di converso, in un diverso contesto sociale ma
in base alle identiche determinazioni strutturali, radicate nel profondo,
si ammettono anche le più stridenti violazioni della costituzione in
vigore, malgrado il periodico omaggio rituale alla necessità di rispettare i
dettami costituzionali. In questo senso, quando il Comitato del Congresso USA
che indagava sull’affare “Iran-contras” concluse che l’amministrazione Reagan
aveva “sovvertito la legge e violato la Costituzione”, non accadde
assolutamente nulla e il Presidente colpevole non fu né condannato né
rimosso. E ancora in un altro caso – come abbiamo visto per la decisione
del Pld giapponese di sovvertire la propria costituzione – quando le norme
costituzionali rappresentano un ostacolo a nuove, pericolose avventure
militari, gli interessi politico-sociali dominanti nel paese impongono una
nuova struttura giuridica la cui funzione principale è di liquidare le garanzie
democratiche e trasformare ciò che prima era considerato giuridicamente
illegale in “legalità costituzionale” istituzionalizzata a loro arbitrio. E non
dobbiamo infine dimenticare quanto è successo negli Stati Uniti e in Inghilterra
in campo costituzionale negli ultimi anni, in un senso pericolosamente
autoritario.
Come dicevo all’inizio, non dobbiamo attribuire i problemi
cronici del nostro scambio sociale a contingenze politiche più o meno facili da
correggere. La posta in gioco è molto alta, e storicamente abbiamo a
disposizione un tempo piuttosto limitato per rimediare, in maniera socialmente
sostenibile, all’ovvio malcontento delle classi sociali subordinate. Non si può
evitare indefinitamente la questione del perché – vogliamo dire le
cause sostanziali, non semplicemente gli insuccessi personali e
contingenti, anche quando siano gravi, come spesso nei diffusi casi di
corruzione politica. E’ necessario ricercare le cause sociali e le
determinazioni strutturali profonde che stanno alla radice delle tendenze
negative in politica e nel diritto, per riuscire a spiegare il loro ostinato
persistere e il loro attuale peggioramento. E passiamo ora alla questione del
“perché”.
2. La natura della
crisi strutturale del capitale | A questo proposito è necessario chiarire le notevoli
differenze fra tipi o modalità di crisi. Non è irrilevante che una crisi nella
sfera sociale si possa considerare di natura periodica/congiunturale o qualcosa
di molto più profondo. Infatti ovviamente la maniera di affrontare una crisi di
fondo non si può teorizzare negli stessi termini delle categorie di crisi
periodiche o congiunturali.
Per anticipare un punto fondamentale di questa conferenza,
per quanto riguarda il campo della politica la differenza cruciale fra i due
tipi diversi di crisi in questione consiste nel fatto che la crisi
congiunturale o periodica si sviluppa e si può risolvere all’internodi una
data struttura politica, mentre la crisi di fondo tocca i fondamenti strutturali nella
loro totalità. In altri termini, in rapporto a un dato sistema socioeconomico e
politico, parliamo della differenza fondamentale fra crisi più o meno frequenti nella politica,
mentre la crisi della modalità politica vigente richiede requisiti qualitativamente diversi
per la sua soluzione. E’ appunto questa che ci interessa oggi.
In termini generali, la distinzione non è semplicemente una
questione di gravità apparente dei due tipi di crisi. Una crisi congiunturale o
periodica può essere molto grave – come lo è stata la grande crisi mondiale del
1929-33 – ma può trovare soluzione entro i parametri del sistema dato.
Interpretare erroneamente la gravità di una crisi congiunturale come se fosse
una crisi di fondo del sistema – come fecero Stalin e i suoi consiglieri in occasione
della crisi del 1929-33 – conduce a errori e a strategie inficiate dal
volontarismo, come successe nei primi anni trenta, quando si identificò nella
socialdemocrazia il “nemico principale”, con l’unica conseguenza di rafforzare
Hitler, come di fatto avvenne. E inversamente, il carattere “non esplosivo” di
una prolungata crisi strutturale, senza le “tempeste” (Marx) con cui le crisi
congiunturali periodiche possono scaricarsi e svanire, può portare ugualmente a
strategie errate, come risultato dell’errata interpretazione dell’assenza di
“tempeste”, come se questo indicasse in via definitiva la stabilità del
“capitalismo organizzato” e “l’integrazione della classe lavoratrice”. Questo
genere di interpretazioni errate, certo fortemente incentivate dagli interessi
ideologici dominanti con il pretesto della “obiettività scientifica”, tende a
rafforzare la posizione dei fautori dell’accettazione del riformismo
accomodante da parte dei partiti istituzionalizzati della classe operaia – una
volta autenticamente di opposizione - e dei sindacati (tutti oggi passati sotto
la categoria dell’ “opposizione di Sua Maestà”). Ma anche fra i più sinceri e
convinti critici del sistema del capitale, questa errata concezione dell’ordine
stabilito, considerato indefinitamente esente dalle crisi, può portare a un
atteggiamento paralizzante di autodifesa, come abbiamo visto nel movimento
socialista degli ultimi decenni.
Non si insisterà mai abbastanza sul fatto che al nostro
tempo non si può capire la crisi della politica se non ci si
riferisce al più ampio quadro sociale generale, di cui la politica è parte
integrante. Ciò significa che al fine di chiarire la natura di questa crisi che
persiste e diventa sempre più profonda, in tutto il mondo, dobbiamo focalizzare
l’attenzione sulla crisi del sistema del capitale in sé. Perché la crisi del
capitale che stiamo vivendo – almeno fin dai primi anni settanta (19) – è una crisi
strutturale e onnicomprensiva.
Vediamo in maniera quanto più possibile breve, le
caratteristiche che definiscono la crisi strutturale in cui siamo immersi.
La novità storica della crisi odierna si manifesta con
quattro aspetti principali:
1 – ha un carattere universale e non solo limitato a un settore particolare (per esempio finanziario, o commerciale, o di un qualche ramo produttivo, o relativo a un qualche tipo di lavoro, con i suoi specifici gradi di produttività e di capacità, ecc.);
2 – il suo scopo è autenticamente globale (nel senso più minaccioso del termine) e non resta confinato a un particolare gruppo di paesi (come lo sono state le crisi più importanti del passato);
3 – la scala temporale è estesa, continua – se volete, permanente – e non limitata o ciclica, come le crisi precedenti;
4 – il modo di svolgimento si potrebbe definire strisciante – e contrasta con i crolli e le tempeste drammatiche e spettacolari del passato – ma bisogna sottolineare che non si possono escludere per il futuro convulsioni altrettanto violente e veementi, quando la macchina complessa oggi impegnata nella gestione della crisi e nella dislocazione più o meno temporanea delle maggiori contraddizioni comincerà a ingripparsi…
A questo punto è necessario precisare alcuni punti generali
sui criteri di una crisi strutturale, e sulle forme in cui si possono
prospettare delle soluzioni.
Per usare termini semplici e generali, una crisi strutturale
tocca la totalità di un complesso sociale, in tutte le relazioni con
le sue parti costitutive o sub-complessi, e con gli altri complessi cui è
collegato. Una crisi non strutturale invece tocca soltanto una parte del
complesso in questione, e quindi non importa quanto possa essere grave rispetto
alle parti interessate, giacché non mette a rischio la continuità della
struttura generale.
La dislocazione delle contraddizioni è dunque possibile solo
in caso di crisi parziale, relativa e gestibile all’interno del sistema, che
richieda solo adattamenti – anche se ampi – entro il sistema rimasto
relativamente autonomo. Una crisi strutturale invece mette in questione proprio
l’esistenza di tutto il complesso interessato, ponendo l’esigenza di superarlo
e sostituirlo con un complesso alternativo.
Si può esprimere questo contrasto anche nei termini dei
limiti che ogni specifico complesso sociale incontra nella sua immediatezza, in
ogni tempo dato, oltre il quale esso non può andare. Una crisi strutturale
quindi non riguarda i limiti immediati ma i limitiultimi di una
struttura globale… (20)
Nulla ovviamente è più grave della crisi strutturale del
modo di riproduzione metabolico-sociale del capitale che definisce i limiti
ultimi dell’ordine stabilito. Ma anche se profondamente grave in tutti i
suoi parametri importanti, la crisi strutturale può avere un’apparenza non così
grave e decisiva, se paragonata alle vicende drammatiche di una grande crisi
congiunturale. Le crisi congiunturali si scaricano con “tempeste” che in
maniera quasi paradossale contribuiscono anche a risolverle, almeno in
qualche misura, in base alla situazione esistente. E ciò risulta possibile
appunto per il carattere parziale di tali crisi, che non mettono in
questione i limiti ultimi della struttura globale stabilita. Nello stesso tempo
e per la stessa ragione, peraltro, i problemi strutturali di fondo che stanno
alla base di tali crisi – e che necessariamente si riaffermano di continuo come
crisi congiunturali specifiche – vengono risolti in maniera rigorosamente parziale e
anche limitata nel tempo. Cioè fino alla successiva crisi
congiunturale che si disegnerà sull’orizzonte sociale.
Per contrasto, data la natura complessa e prolungata della
crisi strutturale, che si svolge nel tempo storico ma in un senso epocale e
non episodico o istantaneo, è l’interrelazione cumulativa del
complesso che decide la questione, perfino sotto una falsa apparenza di
“normalità”. Giacché nella crisi strutturale la posta in gioco è tutto il
complesso, compresi i limiti ultimi e onnicomprensivi dell’ordine dato e in cui
non può esistere un caso particolare “simbolico o paradigmatico”. Se
non si capiscono il nesso generale sistemico e le conseguenze degli avvenimenti
particolari, si perdono di vista i cambiamenti realmente significativi e le leve
di un potenziale intervento strategico in grado di agire positivamente su di
essi, nell’interesse della necessaria trasformazione del sistema. La nostra
responsabilità sociale esige quindi un coscienza critica priva di compromessi e
attenta all’interrelazione cumulativa emergente; non dobbiamo adagiarci in
comode sicurezze sulla nostra illusoria normalità, ad aspettare che la casa ci
crolli sulla testa.
Data la crisi strutturale del capitale del nostro tempo,
sarebbe proprio un miracolo se essa non si manifestasse – e in senso amplio e
profondo – nel campo della politica. La politica, infatti - insieme con la
struttura giuridica che vi corrisponde – occupa una posizione particolarmente
importante nel sistema del capitale. Lo Stato moderno infatti è la struttura
politica totalizzante di comando del capitale, necessaria (fintanto che
esisterà l’ordine riproduttivo attualmente stabilito) per introdurre qualche
misura dicoesione (o di unità effettivamente funzionante) – anche se piena
di problemi e periodicamente infranta – fra la molteplicità di elementi
costitutivi centrifughi (il “microcosmo” produttivo e quello distributivo) del
sistema del capitale.
Questo tipo di coesione non può che essere instabile,
perché dipende dal rapporto di forze, che è sempre mutevole per sua stessa
natura. Quando la coesione si spezza, per un cambio significativo nei rapporti
di forza, si può ricostituire in qualche maniera, così da corrispondere ai
nuovi rapporti di forza. Finché cioè non viene di nuovo spezzata. E va avanti così,
se ne può stare sicuri. Questo genere di dinamica, che si autorinnova in
maniera tanto problematica, si applica sia alla vita interna, fra le forze
dominanti dei singoli paesi, sia internazionalmente, esigendo periodici
aggiustamenti in base ai nuovi rapporti di potere fra i molteplici Stati che
compongono l’ordine globale del capitale. Così appunto il capitale USA è
riuscito ad acquistare il predominio globale nel ventesimo secolo, in parte
mediante la dinamica interna del proprio sviluppo, e in parte affermando
progressivamente la sua superiorità imperialistica sulle altre ex grandi
potenze ormai indebolite – soprattutto la Francia e l’Inghilterra – durante e
dopo la seconda guerra mondiale.
A questo proposito il grande interrogativo è: quanto tempo
può durare questa coesione, basata su continue rotture e ricostituzioni del
sistema, senza attivare la crisi strutturale del capitale? Gli aggiustamenti
forzati nei rapporti di forza fra Stati non sembra costituire un limite ultimo
in questo senso. Dopo tutto dobbiamo ricordare che l’umanità ha dovuto
sopportare – e ha sopportato – gli orrori di due guerre mondiali senza mettere
in questione il capitale come controllo sistemico della nostra riproduzione
metabolico-sociale. Si potrebbe considerare questo non solo comprensibile ma
ancor peggio accettabile, perché appartiene sempre alla normalità del capitale
decidere che “bisogna fare la guerra se non si può piegare l’avversario
in altra maniera”. Il problema è che questo “ragionamento” – che non è mai stato
“ragionato” ma è l’asserzione categorica che “il potere è dovere, succeda quel
che succeda” – è diventato ora totalmente assurdo. Una terza guerra mondiale
non si fermerebbe nel momento in cui l’avversario venisse vinto. Porterebbe
alla distruzione di tutta l’umanità. Quando chiesero a Einstein con che armi
sarebbe stata combattuta la terza guerra mondiale, rispose che non lo sapeva,
ma sapeva perfettamente che le guerre successive sarebbero state
combattute con le clave.
Nel sistema del capitale, la politica ha sempre avuto un
ruolo importante nel ricostituire la coesione necessaria. Molto semplicemente,
senza la politica il sistema non potrebbe reggersi e tenderebbe a cadere a
pezzi per impulso della forza centrifuga dei suoi elementi costitutivi. Ciò che
nella normalità del capitale appare come una grande crisi politica, è
dovuto in ultima istanza alla necessità di produrre una nuova coesione a
livello societario generale, in coerenza con i nuovi rapporti di forza,
materialmente mutati o in via di mutamento. Per esempio, tendenze di sviluppo
di tipo monopolistico non possono evitare di produrre gravissimi
problemi in tutti i settori, che possono essere riportati entro una struttura
relativamente coesiva solo a opera della politica – la struttura di comando totalizzante
del capitale. E ciò va fatto anche se poi in realtà i provvedimenti adottati
non sono altro che tonanti razionalizzazioni ideologiche e giustificazioni dei
nuovi rapporti di forza, da modificare ulteriormente a favore della grandi corporationmonopolistiche
o quasi, appena il trend economico lo richieda. Naturalmente, gli sviluppi
monopolistici internazionali avvengono sulla base di uno stesso genere di
determinazioni. Ma tutti questi processi sono in via di principio compatibili
con la normalità del capitale, e non portano necessariamente a una crisi
strutturale del sistema. E neppure a una crisi strutturale della politica.
Perché, finché si parla di crisi, si tratta di crisi nella politica –
cioè crisi particolari che si sviluppano e si risolvono entro i parametri
gestibili del sistema politico stabilito – e non di crisi della politica.
Le istituzioni politiche esistenti hanno l’importante
funzione di gestire, e in un certo senso far rientrare nella routine, le forme
più adatte e stabili per ricostituire la coesione sociale necessaria, in base
agli sviluppi materiali in corso e ai rapporti di forza che vi corrispondono,
attivando anche tutto l’arsenale culturale e ideologico disponibile, per
raggiungere questo scopo. Nelle società capitalistiche democratiche questo
processo politico viene gestito con la forma di elezioni parlamentari
periodiche, più o meno contestate. Anche se la necessità di aggiustamenti non
si può contenere entro tali parametri, dati i cambi importanti che intervengono
nei rapporti di forza, portando con sé interventi politico-militari di tipo
dittatoriale, si può ancora parlare di crisi nella politica, che il capitale
può dominare purché prima o poi si ritorni alla “costituzionalità democratica”
caratteristica della normalità del capitale. Inoltre, tali avvenimenti sono il
più delle volte controllati dall’estero, come dimostrano i numerosi casi di
dominio autoritario sperimentati in America Latina, su ispirazione e sotto
controllo degli Stati Uniti.
Si tratta naturalmente di qualcosa di molto diverso se i
processi e le tendenze di sviluppo di tipo autoritario cominciano ad
affacciarsi non nelle regioni subordinate ma nel nucleo interno –
nelle parti strutturalmente dominanti – del sistema globale del capitale. In
questo caso il sistema dei “due pesi e due misure” che consiste nel dominare
(anche militarmente e imperialisticamente) ferreamente gli altri paesi, ma
mantenere all’interno le “regole democratiche”, compresa la piena osservanza
della legalità costituzionale, questo sistema dicevamo diventa insostenibile.
E’ un’aspirazione sistemica del capitale quella di dislocare le contraddizioni,
finché lo si può fare. Data l’esistenza di gerarchie strutturali che vanno rispettate
in ogni momento anche nelle relazioni interstatuali, è parte della normalità
del sistema che i paesi dominanti cerchino di esportare – in forma di
interventi violenti, compresa la guerra - le loro contraddizioni interne
in altre zone del sistema, meno potenti. E lo fanno sperando di garantire
all’interno la necessaria coesione sociale, e in mezzo a scontri sempre
più gravi che travolgono i confini di classe.
Ma nella misura in cui il sistema del capitale diventa
sempre più interconnesso a livello globale, il processo diventa sempre più
difficile, malgrado tutta l’utile mitologia creata intorno alla
“globalizzazione benefica per tutti”. Ne devono risultare mutamenti
significativi, con serie conseguenze che si ripercuotono ovunque. Perché la
preoccupazione principale della potenza dominante – oggi gli Stati Uniti
d’America – è di mantenere il controllo sul sistema globale del capitale, come
supremo potere di imperialismo egemonico globale. Ma dati i costi proibitivi in
termini materiali e umani che bisogna pagare in qualche maniera, questo disegno
di dominio globale comporta inevitabilmente immensi pericoli e grandi
resistenze, non solo internazionali ma anche interne. Per questa ragione, allo
scopo di mantenere il controllo autoritario del sistema del capitale nel suo
complesso, in una condizione di crisi strutturale sempre più profonda oggi
inseparabile dalla globalizzazione capitalistica, l’inequivocabile tendenza
autoritaria deve intensificarsi non solo sul piano internazionale, ma anche
all’interno dei paesi imperialisti dominanti, per stroncare ogni possibile
resistenza. Le gravi violazioni della legalità costituzionale che abbiamo già
visto negli Stati Uniti e nella struttura giuridico-politica dei suoi alleati
più stretti, e quelle che vedremo con ogni probabilità nel futuro e che oggi
possiamo presagire in base ai provvedimenti già decisi o presi in
“considerazione” da parte di apparati legislativi cinicamente manipolati,
indicano con chiarezza questa pericolosa tendenza, sotto l’impatto della crisi
strutturale del capitale.
Un chiaro esempio di manipolazione legislativa tendenziosa è
la maniera in cui il governo redige alcune leggi importanti. Non sorprende
perciò che un giudice della Suprema Corte inglese abbia dovuto avanzare
proteste circa un importante problema di diritti umani dicendo che “le leggi
approvate sono state redatte in modo da impedire ai tribunali di intervenire…
Il giudice dice che Charles Clarke (l’allora ministro dell’interno) ha deciso
di emettere l’ordine sulla base di informazioni unilaterali, ma non è riuscito
a prevedere le circostanze che potevano permettere al tribunale di annullare
l’ordine in questione, anche se contravveniva le leggi sui diritti umani” (21).
Nel periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale,
si celebrò la “fine dell’imperialismo” in maniera forse affrettata e ingenua.
In realtà abbiamo visto solo un lungo processo di aggiustamento nei rapporti di
forza internazionali, coerentemente con la maniera in cui sono stati
rimodellati i rapporti di potere socioeconomico e politico prima e durante la
seconda guerra mondiale. Lo aveva previsto il presidente Roosevelt, in un
passaggio del suo primo discorso inaugurale, quando auspicava la politica delle
“porte aperte” ovunque, anche nei territori allora coloniali. In seguito agli
aggiustamenti postbellici le ex potenze coloniali sono state relegate in
seconda e terza fila, come forze subordinate dell’imperialismo americano.
Tuttavia, per un certo numero di anni – nel periodo postbellico di ricostruzione
e di espansione economica relativamente indisturbata, che permise di creare e
finanziare lo Stato sociale – il cambiamento importante introdotto con la
“politica della porta aperta” imposta a forza (aperta agli Stati Uniti,
naturalmente) si accompagnava all’illusione che anche l’imperialismo fosse
stato relegato nel passato per sempre. Vi era inoltre un’ideologia ampiamente
diffusa, che aveva permeato non solo gli intellettuali ma anche alcuni
importanti movimenti della sinistra tradizionale, secondo cui anche le crisi
dell’ordine socioeconomico e politico stabilito appartenevano irrimediabilmente
al passato. L’ideologia era fondata – insieme con quella che proclamava “la
fine delle ideologie” – sul gratuito postulato che ormai si viveva nell’era del
“capitalismo organizzato”, capace di dominare perfettamente le proprie
contraddizioni.
Il risveglio fu amaro, anche sul piano politico e
ideologico, quando la crisi strutturale del sistema del capitale si riaffermò
in forma onnicomprensiva e radicale. Nel 1987, al momento di una grande crisi
borsistica internazionale, i banchieri europei affermarono pubblicamente alla
televisione che la causa della crisi era il rifiuto degli Stati Uniti a
prendere idonei provvedimenti per il loro debito astronomico. I banchieri
americani replicarono aggressivamente che se gli Stati Uniti avessero iniziato
a far qualcosa per il loro debito, si sarebbe visto quale enorme crisi sarebbe
scoppiata. E in una qualche maniera avevano ragione. Era molto ingenuo
immaginare che l’Europa potesse evitare l’impatto della crisi strutturale
cronicamente irrisolta di cui il debito USA era solo un aspetto, ma che
implicava la complicità interessata dei paesi creditori, coinvolti nelle
operazioni
Negli ultimi due decenni abbiamo visto il risorgere di un
aperto imperialismo pieno di spirito di vendetta, dopo che per molto tempo era
rimasto mascherato come mondo postcoloniale di “democrazia e libertà”. E nella
nuova situazione ha assunto una forma particolarmente distruttiva. Esso ora
domina la scena storica, insieme con l’aperta affermazione della necessità di
impegnarsi – nel presente e nel futuro – in “guerre illimitate”. Inoltre, come
abbiamo già detto prima, non si perita di decretare la “liceità morale”
dell’uso di armi nucleari – in modo preventivo e preferenziale - perfino contro
paesi che non posseggono tali armi.
Fin dal sorgere della crisi strutturale del capitale nei
primi anni settanta, i gravi problemi del sistema si sono accumulati e
deteriorati in ogni settore, non ultimo in quello della politica. Anche se, in
contrasto con l’evidenza, si continua a propagandare in ogni modo il mito di
una “globalizzazione benefica per tutti”, non esistono organismi politici
internazionali in grado di modificare le conseguenze negative chiaramente visibili
della tendenza attuale. Perfino il limitato potenziale delle Nazioni Unite
viene annullato dalla decisione americana di imporre l’aggressiva politica di
Washington a tutto il mondo, come è accaduto per la guerra all’Iraq, iniziata
sulla base di false informazioni.
Agendo in questa maniera, il governo degli Stati Uniti si è
arrogato arbitrariamente il ruolo immutabile di governo globale del sistema del
capitale nel suo complesso, senza esser affatto toccato dal pensiero del
necessario insuccesso ultimo di tale progetto. Perché non basta affatto
disporre di una “forza soverchiante”, come predica la dottrina militare
dominante, non basta distruggere l’esercito avversario e infliggere immensi
“danni collaterali” a intere popolazioni. L’occupazione e il dominio permanente
dei paesi attaccati è una questione completamente diversa. Immaginare che anche
la maggior superpotenza possa farlo, imponendolo come “normalità” a tutto il
mondo, e ponendolo come base immutabile del “nuovo ordine mondiale” è una
posizione totalmente assurda.
Purtroppo da molto tempo gli eventi puntano in quella
direzione. Non è stato il presidente Bush, bensì Bill Clinton a dichiarare con
arroganza che “un’unica nazione è necessaria, gli Stati Uniti d’America”. I
“neo-con” hanno voluto sostenere e mettere in pratica questa convinzione. Ma
anche i cosiddetti “liberali” non hanno saputo predicare alcun credo più
positivo. Essi lamentano che oggi esistono “troppi Stati”, e auspicano una
“integrazione giurisdizionale” (22) come soluzione del problema. Ma quel che
chiamano grottescamente “integrazione giurisdizionale”, in realtà è la pseudo
legittimazione di un controllo autoritario diretto da parte di una manciata di
potenze imperialistiche, prima fra tutti gli Stati Uniti. Questa tesi, a
dispetto della sua terminologia fumosa, non è molto diversa dalle idee espresse
dal signor Barnett circa le condizioni di “sganciamento” che citavo all’inizio.
Se oggi ci sono “troppi Stati”, non è che si possano far
sparire d’incanto. E neppure si possono distruggere militarmente per instaurare
la felicità globalizzata della “nuova normalità”. Non si possono reprimere
indefinitamente gli interessi nazionali legittimi. I popoli d’America Latina ne
sono testimoni.
La crisi strutturale della politica è parte integrante della
lunga crisi strutturale che infetta il sistema del capitale. E’ onnipresente, e
non si può quindi risolvere tentando di arginarne in maniera apologetica
qualche isolato aspetto politico. E tanto meno inficiando la legittimità
costituzionale di base, come abbiamo visto in vari casi allarmanti. E neppure
sovvertendo e abolendo la legittimità costituzionale stessa. Se i giudici
dell’Alta Corte inglese e i magistrati italiani protestano di fronte a tali
tentativi, malgrado l’aggressività di tutti i Berlusconi del caso, che li
denunciano perfino tre giorni prima delle elezioni generali (23), anche noi
dobbiamo fare lo stesso, con consapevolezza critica della posta che è in gioco.
Il nostro modo di controllo metabolico sociale è in una crisi profonda, e si
può risanare solo istituendone uno radicalmente diverso, basato su
un’eguaglianza sostanziale che oggi per la prima volta nella storia è
concretamente raggiungibile. Molti criticano giustamente gli insuccessi
dolorosamente evidenti della politica parlamentare. Ma anche a questo
proposito, se è necessario ripensare presente e passato del parlamentarismo,
non si può giungere a risultati sostenibili se non si pone il fatto in un
ambito più ampio, come parte integrante di un nuovo ordine sociale,
inseparabile dalle esigenze di eguaglianza sostanziale. Oggi molti concordano
che il nostro ordine metabolico sociale – per la sua distruttività sul piano
ambientale, come in quello della produzione e dell’accumulazione di capitale,
per non parlare delle manifestazioni dirette della più irresponsabile
distruzione militare – non è sostenibile a lunga scadenza. La nostra coscienza
critica deve saper vedere con chiarezza non solo le tendenze di sviluppo e il
loro impatto cumulativo, ma anche il fatto che la lunga scadenza sta diventando
oggi sempre più breve. E’ nostra responsabilità fare qualcosa prima che sia
troppo tardi.
Note
1 – Conferenza tenuta a Maceio, Brasile, il 4 maggio 2006,
all’apertura del 13° Congresso nazionale della magistratura del lavoro.
2 – The
Alternative to Capital’s Social Order: Socialism or Barbarism, Bagchi &
Co., Kolkata, 2001, p. 39; Monthly Review Press Edition, p. 40.
3 –
“Seymour Hersh afferma che una delle opzioni prevede l’uso di un’arma nucleare
tattica, come la B61-11, per garantire la distruzione dell’impianto nucleare
iraniano di Natanz”, Sarah Baxter, Gunning for Iran, in “The Sunday
Times”, 9 aprile 2006.
4 - La lettera, che porta la data del 17 aprile 2006,
insieme con gli indirizzi e-mail dei firmatari, si trova su
htpp://www.globalreasearch.ca. Questa iniziativa era stata preceduta
nell’autunno del 2005 da una petizione firmata da più di 1800 fisici che
ripudiavano la nuova politica nucleare USA, che prevede l’uso di armi nucleari
contro avversari non-nuclearizzati.
5 – John Pilger ha giustamente criticato il primo ministro
Tony Blair per questo, scrivendo: “Blai ha dimostrato il suo gusto per il
potere assoluto, usando la Royal Prerogative per bypassare il Parlamento e
andare alla guerra”. L’articolo è stato pubblicato sul “New Statesman” del 17
aprile 2006. Possiamo anche aggiungere che strumenti come la Royal Prerogative
a altri analoghi in altre costituzioni sono stati inventati proprio allo scopo
di essere violati, per offrire una via di fuga dai vincoli democratici in caso
di difficoltà, invece di estendere i poteri di decisione per via democratica,
come dovrebbe essere in caso di grave crisi.
6 –
Dall’articolo di Sarah Baxter citato.
7 – Thomas
P. M. Barnett, autore di The Pentagon’s New Map: War and Peace in the
Twenty-First Century, New York, 2004.
8 – Richard
Peet, Perpetual War for a Lasting Peace, in “Monthly Review”, gennaio
2005, pp. 55-56.
9 – Max
Boot, Savage Wars of Peace (titolo tratto da Rudyard Kipling, Il
fardello dell’uomo bianco), citato in The Failure of Empire, rivista
del mese degli editori della “Monthly Review”, gennaio 2005, p. 7.
10 – Edizione Boitempo (Sao Paulo) di O século XXI,
socialismo ou barbarie, p. 10.
11 – “Le trascrizioni dimostrano la mano del n. 10 nel
parere legale sulla guerra”, in “The Guardian”, 24 febbraio 2005. Bisogna
menzionare a titolo di chiarimento che la prima opinione espressa da Lord
Goldsmith era molto scettica circa la legalità della guerra prevista.
12 –
Philippe Sands, Lawless World: America and the Making and Breaking of
Global Rules, Londra, 2005.
13 – John
Mortimer, “Non posso credere che un governo laburista potesse essere così
pronto a distruggere le nostre leggi, la nostra libertà di parole e le nostre
libertà civili”, in “The Mail on Sunday”, 2 ottobre 2005.
14 –
“Terror Law an Affront to Justice”, in “The Guardian”, 13 aprile 2006.
15 - “John
Pilger sees freedom die quietly”, in “New Statesman”, 17 aprile 2006.
16 – “Japan
Press Weekly”, edizione speciale, marzo 2006, p. 26.
17 – Manuel Marulanda Vélez, Carta enviada pelo lider
historico das FARC da Colombia a Alvaro Leyva, candidato as Eleiçoes
Presidenciais marcadas para 24 de Maio de 2006, in resistir.info, aprile
2006.
18 – Ibidem.
19 – Nel novembre del 1971, nella prefazione alla terza
edizione di Marx’s Theory of Alienation, ho scritto che gli
avvenimenti in corso “sottolineavano in maniera drammatica l’intensificarsi
della crisi globale strutturale del capitale”.
20 – La citazione è tratta dalla sezione 18.2.1 di Beyond
Capital, pp. 680-682. Nel libro, al capitolo 18, la questione è discussa in
maniera molto più dettagliata.
21 –
“Terror Law an Affront to Justice” cit. Un altro articolo nello stesso
numero di “The Guardian”, scritto dalla corrispondente politica Tania Branigan,
affermava che “I critici protestano perché la legge di riforma legislativa
darebbe al governo la facoltà di cambiare quasi ogni legge, a suo arbitrio,
anche introducendo nuove figure criminali o cambiando la Costituzione senza
alcuna votazione… I Tories e i liberaldemocratici l’hanno definita “la legge di
abolizione del voto parlamentare”.
22 – Martin
Wolf, Why Globalization Works?, Yale University Press, New Haven,
2004.
23 – Vedere “La Repubblica” del 7 aprile 2006, e in
particolare l’articolo di Giorgio Ruffolo, “Un paese danneggiato”.