Paolo Favilli
Nella parte conclusiva di un ponderoso libro edito alla metà
degli anni Novanta, più di mille pagine dedicate ad un secolo di storia del
socialismo europeo, l’autore, Donald Sassoon, ipotizza la possibile scomparsa
del «progetto socialista». Precisa, però, che «i partiti socialisti
sopravvivranno»1 perché i partiti possono diventare del tutto autonomi rispetto
alle ragioni che li hanno fatti nascere. Si tratta di un’asserzione del tutto condivisibile, ma che
mi pare produca difficoltà ed incertezze sui lineamenti del «mutamento»
rispetto ad alcuni lineamenti argomentativi del volume. Tale asserzione rimanda
con facilità a quel fenomeno di trasformazione politica che è stato chiamato
«mutamento genetico», con tutte le ambiguità che vi sono connesse.
Questa
metafora, infatti, si presta ad interpretazioni molto diverse tanto dei
processi che degli esiti del mutamento. L’espressione è da molto tempo (alcuni
decenni ormai) di uso comune a vari livelli della pubblicistica. Indubbiamente
suggerisce un mutamento molto radicale, ma nello stesso tempo può anche
suggerire un’evoluzione secondo modelli naturalistici. Sono, appunto, anche le
ambiguità del libro.
La fine del XX secolo ci consegna partiti socialisti senza
socialismo.
Quei partiti, però, afferma Sassoon, «non poterono fare
altrimenti». In fondo si sono limitati a seguire «le orme dei loro
predecessori». «Spiegarono e giustificarono la loro riforma della dottrina
socialista usando il criterio guida di tutti i socialisti: la trasformazione
del capitalismo. Ciò è quanto aveva proposto Bernstein nel 1890: un socialismo
evolutivo da accompagnare a un capitalismo evolutivo» 2.
Ritornerò tra poco su questa teorizzazione di continuità
metodologica tra Eduard Bernstein e, ad esempio, Gerhard Schröder per rimanere
in ambito Spd. Che il polimorfsmo del capitalismo storico sia aspetto
fondamentale anche della multiforme attività revisionistica dei socialismi è,
con tutta evidenza, un’ovvietà. Lo storico Giorgio Spini ha espresso il
concetto in questi termini: «voglio pensare che il capitalismo e il socialismo
siano una sorta di fratelli nemici, nati da una stessa matrice eppure sempre
in lotta fra di loro»3. Un’impostazione da cui è possibile trarre due
indicazioni del tutto condivisibili: 1) nella prospettiva della rilevanza dei
mutamenti storici socialismo e capitalismo nascono dalla medesima accelerazione
della modernità; 2) è assai problematico pensare un capitalismo privo di
antitesi, privo di una teoria e di una pratica critica, cioè di quell’insieme
che nella storia si è chiamato «socialismo». Ora, invece, pare essersi avverato
l’auspicio di quel conservatore inglese che, in tempi pretatcheriani, aveva
sostenuto la necessità di «lasciare ai laburisti un’unica possibilità per
tornare al governo: quella di smettere di essere socialisti»4. Una realtà che
ormai caratterizza, in modi solo marginalmente diversi, tutte le espressioni
dei partiti socialisti (o assimilati) rappresentati nel Partito Socialista
Europeo.
Il processo di «mutazione», insomma, ha «superato» la lunga
fase della dialettica continua tra forme del capitalismo e forme del
socialismo. Una dialettica in cui, certamente, il prius è
rappresentato (come sempre del resto) dalle trasformazioni necessarie del
capitalismo. Necessarie per le logiche interne del processo
di accumulazione e per la pressione esterna che limita, in certi periodi in
maniera sostanziale, il controllo politico e sociale, di per sé illimitato,
sul processo di produzione e di distribuzione. Il mutamento altrettanto necessario del
socialismo non si configurava come forma di adesione/mimetizzazione al primum
movens capitalistico, bensì come ricerca della forma più efficace per
contrastarne, nelle nuove condizioni, proprio le ragioni strutturali della
tendenza all’illimitatezza. E dunque non può essere invocata nessuna continuità
sostanziale con il secolo e mezzo di storia del movimento operaio e socialista.
In genere si è scomodato Bernstein (lo ha fatto anche Sassoon, come abbiamo
visto,) per indicare l’inizio del processonaturale che avrebbe portato
alla finale «mutazione genetica». Da Bernstein a Schöreder insomma, secondo la
linea cui ho fatto sopra riferimento.
Riflettere sugli esiti di partito socialista senza
socialismo della Spd significa entrare nel cuore della vicenda socialista
europea. Se si esclude l’esperienza inglese tutti i partiti socialisti europei
hanno, con specificità nazionali, introiettato il modello Spd. Ed alla fine
l’esperienza inglese e quella tedesca si sono ricomposte nei destini paralleli
di Blair e Schröder.
Eduard Bernstein si è visto assegnare il posto più alto nel
Pantheon dei precursori dei socialisti senza socialismo. Alcuni libri di uomini
politici più o meno autorevoli hanno costruito il piedistallo ed un numero
altissimo e continuo di interventi pubblicistici ha teso ad innalzarlo e
consolidarlo. Come quasi sempre succede nell’uso pubblico, la storia come
sapere critico è stata la prima vittima dell’operazione.
Il personaggio Bernstein si rivela particolarmente adatto al
ruolo scelto per lui dal «neoriformismo», cioè del rovesciamento del riformismo
storico. Protagonista di un aspro dibattito che lo vede isolato non solo nei
confronti degli «ortodossi» e dei «rivoluzionari» (Kautsky, Luxemburg), ma
anche nei confronti di altri importanti «riformisti» (Jaurès, Turati), può
agevolmente essere presentato come il precursore incompreso per decenni a cui
la storia ha poi finito per dare ragione. Ed inoltre, anzi soprattutto, la
famosa frase: «Quel che comunemente si
chiama obbiettivo finale del socialismo è nulla, il movimento è tutto», è
diventata la chiave per aprire orizzonti insospettati.
Si comprende agevolmente la ragione per cui a questa frase,
diventata ormai un aforisma del tutto decontestualizzato, si faccia riferimento
continuo in tutte le teorizzazioni del nuovo riformismo. L’aforisma permette di
far lumeggiare un nobile ed antico percorso, un inizio legato ad un padre della
socialdemocrazia più importante d’Europa, erede del lascito scientifico di
Friedrich Engels, e padre anche del riformismo più moderno. Nello stesso tempo,
visto che «movimento è tutto», il riformismo può svolgersi in uno spazio
totalmente libero, non gravato né da radici solide, né da progetti di società
che abbiano una qualche definizione. Alla prova della contestualizzazione della
frase in questione, alla prova di un minimo di attenta lettura testuale, però,
la proposizione del nobile ed antico percorso appare davvero problematica.
Vi sono testi di estrema complessità, costruiti attraverso
sistemi concettuali che rimandano a teorie in costruzione, ad equilibri tra
linguaggi che incrociano scienze sociali diverse. Alcuni testi di Marx hanno
queste caratteristiche ed è quindi comprensibile che il loro studio produca
un’ermeneutica con forti differenziazioni interpretative. I presupposti
del socialismo… si pone su tutt’altro piano e non sembra dover produrre grosse
difficoltà interpretative. È vero che nessuno scritto è di per sé trasparente,
è vero che tutti i testi vanno letti controluce, ma le variazioni cromatiche
non sono indifferenti allo spessore che il raggio deve attraversare.
Le divaricazioni che si sono prodotte in tempi relativamente
recenti e che si producono ancora oggi, sono dovute alla riproposizione non
mediata delle polemiche espresse nel corso della Bernstein-Debatte, rimodellate
(appena) sulle necessità politiche del presente. Così i «marxisti manichei» in
periodi di scarsa fortuna per il riformismo hanno ripreso i motivi della
polemica dei «rivoluzionari» d’inizio secolo contro Bernstein. Così ora i nuovi socialisti
riprendono quegli stessi motivi con segno rovesciato, e li ricompongono
nell’afflato liberatorio di un «movimento» che «è tutto».
Ne I presupposti del socialismo… Bernstein intende
rompere senza alcuna ambiguità con il «rivoluzionarismo» della Spd e di tanta
parte del socialismo internazionale. Un rivoluzionarismo che è intimamente
connesso al marxismo ortodosso, al marxismo identitario. Connesso soprattutto
tramite «catastrofsmo» e «teoria del crollo», che producono, sul piano
politico, indulgenza verso forme di blanquismo. In particolare producono
sistematica sottovalutazione del percorso democratico e della democrazia in sé.
La democrazia invece «è al tempo stesso mezzo e scopo. È il mezzo della lotta
per il socialismo, ed è la forma della realizzazione del socialismo». «Il
principio della democrazia - avverte però Bernstein - è la soppressione
del dominio di classe» 5. Un aspetto questo su cui gli odierni apologeti di
Bernstein preferiscono sorvolare.
Se la critica nei confronti del marxismo identitario è
radicale, molto più complesso il rapporto con l’eredità teorica marxiana con la
quale non è ipotizzata alcuna rottura. A tale scopo Bernstein separa nettamente
quella che chiama «scienza pura del socialismo marxista», dalle pratiche
identitarie. Gli elementi costitutivi della scienza pura sono a) concezione
materialistica della storia, b) teoria della lotta di classe e dello sviluppo
capitalistico c) teoria del plusvalore. Nei confronti di questo imponente
complesso teorico Bernstein adotta un approccio abbastanza inconsueto
all’epoca. Non considera cioè la costruzione marxiana come una sistematica, ma
si misura con gli sviluppi interni della teoria, ne segue il modificarsi nel
tempo, ne sottolinea i mutamenti ed infine si trova ad accettarne la
«formulazione matura»6. Risulta in genere che «una volta eliminati gli elementi
sicuramente erronei, alla fine, per dirla con Lassalle, è sempre Marx che ha
ragione contro Marx»7. Persino nella controversa teoria del valore8.
«Io parlo espressamente di passaggio dalla società capitalistica
alla società socialista» 9, afferma con nettezza Bernstein, e del resto non
poteva fare diversamente chi condivideva la teoria dello sviluppo
capitalistico. In che senso dunque il «movimento è tutto» ed il fine è nulla?
L’antico allievo di Engels lo spiega con estrema chiarezza: «E l’obiettivo
finale? Ebbene, rimane appunto obiettivo finale. La classe operaia… non ha
utopie bell’e pronte da introdurre per decreto popolare. Essa sa che per
raggiungere la propria emancipazione e, al tempo stesso, quella superiore forma
di vita verso cui la società odierna tende irresistibilmente in virtù del suo
stesso sviluppo economico, essa dovrà affrontare lunghe lotte e passare per
tutta una serie di processi storici, che trasformano radicalmente uomini e cose.
La classe operaia non ha da realizzare alcun ideale; ha soltanto da liberare
gli elementi della nuova società che si sono sviluppati nel grembo della
società borghese in declino». Questo affermava Marx nella Guerra civile in
Francia. Quando scrissi la frase sull’obbiettivo finale, io pensavo proprio a
questa affermazione di Marx, non certo in tutti i suoi punti ma nel suo
pensiero di fondo 10.
I partiti socialisti senza socialismo avranno, forse,
davanti a sé un futuro luminoso, ma per quanto riguarda il passato non possono
vantare alcuna eredità bernsteiniana. Anche il fero avversario dell’«ortodosso»
Kautsky e della «rivoluzionaria» Luxemburg non appartiene loro né per metodo né
per contenuti. Appartiene ad una storia in cui qualsiasi espressione di socialismo
non poteva prescindere da una teoria critica del capitalismo.
Lo stesso Bad Godesberg Grundsatzprogramm non è
assolutamente inseribile nella temperie del neoriformismo, bensì in quella
della Dichiarazione d’intenti del 1951. Nel programma del 1959, vista
la peculiarità della situazione tedesca, il silenzio su Marx è scontato. La
figura di Marx campeggia sulle insegne del nemico, ed il clima è quello
nell’ambito del quale, appena due anni dopo, crescerà il muro di Berlino. Il
Programma, però, al di là delle necessarie vaghezze «filosofiche» sulle quali
si basa assai spesso il giudizio odierno, è estremamente chiaro per quel che
concerne l’idea di società della Spd ed i compiti che la Socialdemocrazia
intende assumersi per riformarla in profondità. Per i
socialdemocratici tedeschi nel 1959 le tendenze in atto nel mercato
autoregolato sono quelle ad una concentrazione economica che si accompagna ad
una concentrazione del potere politico, del «potere sugli uomini». La proprietà
privata dei mezzi di produzione «ha diritto ad essere protetta» ma solo
«fintanto che essa non ostacola la costruzione di un ordine sociale giusto».
Compito della socialdemocrazia è quello di «impedire il controllo privato del
mercato», e dunque, a tal fine «la proprietà collettiva è una forma legittima
di controllo pubblico». Tutto questo per un obbiettivo di società in cui «da
subalterno dell’economia, il lavoratore [si trasformi] in cittadino
dell’economia»11.
Nel programma di Bad Godesberg, insomma, sono ben presenti
lineamenti derivati da due fondamentali aspetti della analisi marxiana: il
capitalismo come formazione economico-sociale storica e una teoria
critica di quella formazione. Si deve inoltre riflettere sul fatto che gli anni
Cinquanta sono quelli in cui sulle socialdemocrazie spira più forte il vento
della guerra fredda e quindi anche su tutto ciò che può sembrare abbiano in
comune col nemico. Nel corso degli anni Sessanta e poi ancora più apertamente
nel clima della «grande contestazione» e dei suoi effetti nel decennio seguente
i percorsi che da Marx si dipartono diventeranno molto più numerosi nella
cultura e nelle politiche della socialdemocrazia.
La «mutazione genetica» dei partiti socialisti europei,
dunque, non è l’esito di un naturale processo evolutivo; la metafora
ha bisogno di essere precisata. In natura le mutazioni genetiche possono avere
varia tipologia; alcune sono essenziali per lo stesso processo evolutivo. Sono
le cosiddette «mutazioni positive», quelle cioè che fanno «progredire» l’organismo
oggetto del mutamento. Dal punto di vista dell’analisi sociale e delle culture
politiche la definizione del «progresso» è piuttosto problematica. Per quanto
riguarda i partiti socialisti come «organismi» possiamo provare a delineare
un’ipotesi di «progresso» coerente con la natura di quelle organizzazioni
politiche, cioè con le ragioni della loro genesi.
I partiti socialisti non sono nati in un contesto di
socialismo generico, di vaghe aspirazioni alla giustizia sociale, sono nati in
un contesto sia teorico che pratico all’interno del quale le loro identità si
sono costruite tramite strutture dinamiche proiettate sia nel breve che nel
lungo periodo. Questo mediante una coniugazione tra fine e mezzi che, come
abbiamo visto, Bernstein ha delineato con estrema chiarezza quando ha scelto la
via della «mutazione genetica positiva».
Il socialismo tedesco, per riprendere l’archetipo
modello, al momento della sua scelta per una particolare forma partito e per il
nome che porta ancora oggi (Congressi di Halle, 1890, ed Erfurt, 1891), usò,
nel programma, una formulazione particolarmente impegnativa. Il partito si dà
una struttura, uno strumentario analitico giustificati solo in relazione alla
lotta per «l’emancipazione proletaria». Giustificati, cioè, in relazione a
quello che viene solennemente affermato come «il compito storico della
socialdemocrazia» 12.
Un’attenzione particolare alla terminologia usata è
essenziale per comprendere i caratteri della «mutazione». Non è un caso che il
termine «emancipazione» sia pressoché scomparso dal linguaggio dei partiti
socialisti, oppure, le rare volte che vi appare, venga usato nella sua
accezione più decontestualizzata e generica. Si tratta di un indicatore assai
importante del processo inverso a quello della «mutazione genetica positiva».
Non dobbiamo dimenticare che nei congressi fondanti la Spd la saldatura
profonda tra quelli che nel linguaggio dello scontro politico interno del tempo
venivano chiamati «intellettuali del partito», e la componente, assai forte ed
autorevole, che rappresentava l’unionismo, avviene sul terreno della comune
teoria critica del capitalismo, indipendentemente dai gradi di
conoscenza/consapevolezza della complessità del suo tessuto analitico. In tale ambito emancipazione (Emanzipation)
si collega ad altri termini come alienazione (Entfremdung), bisogno (Bedürfnis),
critica (Kritik), donna (Weib), ebraismo (Judentum), Stato (Staat). Un
lessico che connette il concetto di liberazione/emancipazione alla necessità di
superare «la tensione e la contraddizione fra l’eguaglianza nel cielo del citoyen e
l’ineguaglianza sulla terra del bourgeois»13. E quindi ai processi di
modificazione radicale della società (modi di produzione e distribuzione,
democrazia reale, ecc.). I soli che possono trasformare le realizzazioni
astratte in concreto «recupero dell’uomo» alla propria umanità.
Per i socialdemocratici questo è un «compito storico», vale
a dire il fine da perseguire per tutta la fase storica in cui tali
«tensioni e contraddizioni» prevalgono. Il linguaggio dei testi fondanti la Spd
non può che risentire di un clima in cui non sono immaginabili le catastrofi
regressive che apriranno il XX secolo. Sarebbe tuttavia errato immaginare una
sostanziale ingenuità rispetto alle difficoltà del percorso tramite cui i
socialdemocratici tedeschi pensavano il loro «compito storico». Avevano ben
chiaro il fatto del rapporto che legava lo «sviluppo della società borghese
moderna» e «le vie pratiche del partito sul terreno di tale società». Nello
stesso tempo, però, consideravano la tendenza irrinunciabile a perseguire tutte
le forme dell’emancipazione (il fine) «sicura bussola» per orientarsi
«sul mare tempestoso e pieno d’insidie [non immaginavano quanto] della lotta di
classe moderna»14. «La lotta per l’emancipazione … è la più grande e gloriosa
lotta di liberazione che la storia conosca, e il fatto che la socialdemocrazia
conduca all’avanguardia questa lotta riscatta secoli di vergogna tedesca». Chi
riscatterà la vergogna dei partiti socialisti che «sul mare tempestoso e pieno
d’insidie», per la leggerezza del galleggiamento hanno buttato a mare il peso
del socialismo?
«Mutazione genetica positiva», la metafora si attaglia con
precisione al «compito storico» che la socialdemocrazia si attribuiva.
«Mutazione genetica negativa», la metafora si attaglia con precisione agli
esiti dei partiti socialisti nell’attuale fase di accumulazione.
Nessun analista serio, solo apologeti, propagandisti,
«pugilatori [più o meno] a pagamento», possono negare il dato di fatto. Al
massimo, i più consapevoli, possono solo sostenere che a questo non c’erano
alternative.
Non è stato forse uno dei teorici principali del New
Labour, Antony Giddens, a considerare i «cambiamenti dello stile di vita»15 l’indice
più sicuro del simultaneo cambiamento dell’agenda politica? Quale più marcato
indice di tale cambiamento tra agenda politica e stili di vita delle vicende di
un Blair, che il New Labour lo costruisce, di uno Schroeder che
costruisce la Neue Mitte, e le scelte dell’uno per un incarico milionario
alla Banca Morgan, e dell’altro per un incarico, sempre milionario, alla
Gazprom? Passi altamente coraggiosi, come li definisce la «comunità degli
affari»16. Indici quasi perfetti per la «mutazione genetica negativa».
In un recente libretto Donald Sassoon, nei panni
dell’intervistatore, chiede a Marx che cosa pensi di Tony Blair. «Davvero devo
esprimermi su gente del genere? - fa rispondere a Marx - Dire che la storia li
dimenticherà è troppo. Non se ne accorgerà nemmeno» 17.
L’immaginaria risposta dell’autore di Das Kapital coglie
certo nel segno in relazione alla statura intellettuale, morale, politica del
soggetto in questione e della tipologia blairiana in generale, tipologia che
nella decadenza italiana ha trovato un terreno particolarmente adatto di
proliferazione. Ma l’importanza storica del blairismo non riguarda la persona
bensì, come detto prima, la sua funzione di indicatore. Ad esempio quasi
nessuno ha detto con tanta chiarezza che, «nella nuova politica», la differenza
tra quelli che erano i «vecchi concetti di destra e sinistra (…) sta
nell’apertura o nella chiusura alla globalizzazione»18. Il termine
«globalizzazione», con tutta evidenza, viene usato come forma eufemistica di capitale
mondiale e quindi il «compito storico» che i nuovi laburisti, i partiti
socialisti senza socialismo affidano a se stessi è quello di essere rigorosi
battistrada al capitale mondiale. In Europa il loro maggiore contributo a tale
compito è stato, ed è, quello di stabilire tra mondo della politica e mondo
della comunità degli affari lo stesso rapporto esistente negli Stati Uniti.
Sempre nella citata Intervista immaginaria si chiede a Marx
cosa pensi dei meccanismo americani di gestione del potere. «Un fantastico
sistema di governo: democrazia truccata, elezioni truccate, sistema politico
truccato, circondato da impostori e gretti avvocati. Questo consente al business di
svolgere il proprio compito, comprare i candidati, una tangente qui, una
tangente là. La gente non è coinvolta. La metà se ne frega di votare. Per
l’altra metà la politica è un innocuo divertimento, come guardare Chi
vuole essere milionario?». Non si può negare che il sistema di governo europeo
(Ue e Stati) non abbia fatto passi da gigante in quella direzione. Non si può
negare che i partiti socialisti senza socialismo siano scarsamente impegnati
nel conseguire questo loro «compito storico». Non si può negare la chiarezza
del segno della «mutazione genetica».
Note
1 D. Sassoon, La sinistra nell’Europa occidentale del
XX secolo, Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 905.
2 Ivi, p. 878.
3 G. Spini, Le origini del socialismo, Torino, Einaudi,
1992, p. X. Il corsivo è mio.
4 Cit. in S. Halimi, Il grande balzo all’indietro,
Roma, Fazi, 2006, p. 289.
5 E. Bernstein, I presupposti del socialismo e i
compiti della socialdemocrazia, Introduzione di Lucio Colletti, Bari, Laterza,
1968. Le cit. pp. 185 e 187. Il corsivo è mio.
6 Ivi, p. 41.
7 Ivi, p. 48.
8 «Che la teoria marxiana del valore sia esatta o meno, è
assolutamente indifferente ai fini della constatazione del pluslavoro. In
questo senso essa non è una tesi dimostrativa, ma soltanto uno strumento di
analisi e di chiarificazione». La teoria del valore lavoro è una «chiave», «una
chiave che, usata dalla mano maestra di Marx, ha portato ad una scoperta e
descrizione del congegno dell’economia capitalistica di cui finora nessuno ha
uguagliato la profondità, la coerenza e la lucidità». Ivi pp. 81-83.
9 Ivi, p. 189.
10 Ivi, pp. 246-247.
11 Il «Manifesto» di Bad Godesberg, in Per una ripresa
del riformismo, a cura di P. Sylos Labini e A. Roncaglia, Roma, l’Unità,
2002, pp. 87-94. Le cit. alle pp. 90-91.
12 F. Mehring, Storia della socialdemocrazia tedesca,
(Stuttgart, 1897-1898) Roma, Editori Riuniti, 1961, vol. II, pp. 684 e 701.
13 S. Veca, Non c’ è alternativa. Falso!, Bari,
Laterza, 2014.
14 F. Mehring, Storia della socialdemocrazia tedesca,
cit., p. 684.
15 Colloquio con Antony Giddens di Annalisa Piras, L’Espresso,
2 novembre 2006.
16 «The business community will applaud this step and
consider it highly courageous», By Craig Whitlock and Peter Finn. Washington Post Foreign Service
Saturday, December 10, 2005.
17 D.
Sassoon, Intervista immaginaria con Karl Marx, Roma, Castelvecchi, 2014.
18 Citazione tra virgolette in Corriere della Sera, 2
dicembre 2007.
http://www.alternativeperilsocialismo.it/ |