John Maynard Keynes ✆ Cummings |
Recentemente Sandro Mezzadra e Toni Negri hanno
aperto, per il collettivo Euronomade,
una riflessione sulla concatenazione dell’imminente appuntamento elettorale in
Grecia e su quello successivo, che si terrà in Spagna verso la fine dell’anno.
La posta in gioco di questo doppio passaggio elettorale, senza nessuna retorica
e senza alcuna particolare ingenua illusione, resta elevata. Non è in
discussione né la rottura lineare del regime neoliberale europeo, né, nel tempo
immediato, la definizione di un progetto compiutamente post-liberista su scala continentale.
Ma si potrebbe trattare pur sempre di una rilevante rottura politica, qualora
le più rosee previsioni elettorali per le due “nuove formazioni di sinistra” –
Syriza e Podemos – dovessero essere confermate. Per cui, come scrivono gli
autori: «questo non ci impedisce di cogliere la rilevanza che specifiche
elezioni possono avere dal punto di vista della lotta di classe». Per noi, che
pratichiamo la politica a partire dalla centralità delle lotte sociali, è in
discussione innanzitutto la relazione tra queste lotte e la “verticalità” del
soggetto politico. O, ancor più in là, il rapporto tra queste ultime due
dimensioni dell’azione politica, quella istituzionale del governo e l’apertura
di un terreno costituente per l’auto-organizzazione del Comune.
La rilevanza e l’urgenza di questo dibattito, è data dalle condizioni materiali che si sono concretamente determinate in questi due paesi. Il punto non è quello di discutere su un piano di trascendenza se le relazioni poc’anzi accennate possono essere in assoluto pensate o agite. Qui, si tratta di comprendere che in questi due paesi, nella violenza dell’attuale crisi, le lotte sociali in qualche caso hanno spinto, in altri hanno direttamente assunto su di sé, questo nuovo e inedito piano dell’agire politico. Eludere queste questioni sarebbe come giocare a mosca cieca. Al contempo, eludere il rischio di un “riassorbimento” delle stesse lotte sul piano istituzionale sarebbe da stupidi.
Syriza e Podemos sono due diverse forze politiche. Diverso è
il rapporto con i movimenti. Diverso è il modello organizzativo interno.
Altrettanto diverso è il loro richiamo alla “tradizione” politica e culturale
della sinistra socialista (o comunista). La prima organizzazione rivendica un
terreno di internità e di maggiore continuità con la storia. La seconda opera
una rottura, aprendosi al populismo nella accezione di Laclau. In entrambi i
casi, però, tali organizzazioni sembrano lavorare per un rinnovamento del “laboratorio
socialdemocratico” in Europa ed è questo il nodo insieme rilevante e
problematico su voglio concentrarmi.
Dal programma di Syriza, si legge della volontà (trovate le
condizioni per l’eventuale formazione del governo) di riaprire una contesa con
le istituzioni europee ed internazionali (Commissione, BCE e FMI) per la
«rinegoziazione del debito pubblico» e, contestualmente, per la rottura della
spirale dell’austerity attraverso un programma espansivo di politica fiscale.
Lo scopo è minare alla base alcuni dei principi ordoliberali contenuti nei
regolamenti e nella disciplina di bilancio dell’unione monetaria. Benché non
esaustive, dal punto di vista della fine – o solo dell’ammorbidimento – degli
effetti sociali della crisi, le due questioni sono certamente rilevanti, in sé
e nel porre il problema sulla scala europea, aprendo alla possibilità di
rompere gli equilibri interni al management della crisi, senza
necessariamente chiudere ai movimenti la possibilità di riarticolare uno spazio
di azione nella geografia dell’Europa. In più, cosa di non poco conto nella
fase attuale, si tratta di un piano discorsivo che sembra sottrarsi all’ordine del
discorso “uscita dall’euro vs sostegno alla moneta unica così com’è”.
Lasciando, invece, aperta la possibilità ad una critica radicale dell’attuale
sistema istituzionale del “circuito della moneta” europeo.
A ben vedere, così come è stato già sottolineato da altri,
si tratta di un programma che punta a recuperare (o almeno si mostra coerente
con) un piano di politica economica post-keynesiano. Centralità della domanda
effettiva, rottura dell’indipendenza della BCE dal Tesoro, coordinamento con la
politica fiscale, (presunto) recupero dello Stato come agente capace di
“programmare” indipendentemente dalla razionalità del mercato. Ma come spesso
accade all’interno dello stesso dibattito teorico post-keynesiano, i due
corni dell’economia politica finiscono per perdere forza e la dimensione
politica finisce per non mordere. Riemerge quell’incrollabile «naturalismo»
politico dei post-keynesiani, che magari pensando che il neoliberismo sia
stato nient’altro che una riedizione del laissez-faire tendono a
pensare che sia sufficiente, come si fa per i morti, riesumare dall’oltretomba
lo Stato liberale keynesiano.
Abbiamo imparato che la questione del “keynesismo storico”
(o “reale”), sul piano politico, è stata una vicenda assai più complessa di
quanto ce la raccontano per lo più, ancora oggi, gli stessi post-keynesiani.
Per sir John Maynard Keynes i fatti erano strettamente integrati tra loro, o
almeno così lo sono stati nel “keynesismo reale”. Lo Stato-piano controllava
attraverso la domanda effettiva la stabilità del ciclo economico,
programmando l’apertura di mercati. Definendo talvoltacosa e come produrre.
Contestualmente il controllo della domanda effettiva rifletteva, sul piano
politico, il tentativo di «democratizzazione del ciclo economico». Al centro di
questa costruzione figurava il partito-massa, innestato saldamente nella
struttura istituzionale della rappresentanza. E ancora più a fondo, la forza
del movimento operaio, che attraverso le lotte salariali è stato capace di
imprimere una dinamica espansiva tenendo insieme crescita economica,
occupazione, miglioramento delle condizioni riproduttive e democrazia. Fino a
minacciare, nei punti alti delle lotte, la compatibilità interna di questa
costruzione, aprendo inediti spazi di liberazione. Ma la storia del keynesismo,
le sue profonde contraddizioni, le sue forme di comando sulla forza-lavoro, sui
corpi, le abbiamo più volte discusse, e non vale la pena di continuare a farlo
qui.
Abbiamo anche imparato da Foucault che nel tempo presente le
molteplici forme-Stato del neoliberalismo, oltre ad introiettare dentro di sé
la razionalità del mercato – facendo quindi dello Stato un agente che opera per il
mercato – hanno prodotto una separazione sempre più rilevante tra intervento
statuale e democrazia. E’ lo Stato, non certamente scomparso nel lungo ciclo
neoliberale, che ha continuato e continua a governare insieme alle altre
istituzioni i violenti meccanismi “estrattivi” del capitale finanziario. La
democrazia, quindi, ha perso la sua forza espansiva e della crisi della
rappresentanza istituzionale mi sembra che oramai neppure più l’establishment ne
faccia mistero.
Per giunta, se si svolgesse fino in fondo il discorso post-keynesiano,
così come viene fuori dai suoi laboratori accademici più intelligenti, come il Levy
Economics Institute di New York, si troverebbe la loro quasi costante
insistenza sul recupero della “sovranità nazionale”. E’ l’altra faccia del
discorso che “in una certa sinistra” si fa sulla rottura della moneta unica, e
principalmente sul ritorno alle monete nazionali. Come si fa a non capire che
“sovranità nazionale”, in assenza dei contropoteri a cui prima facevamo
riferimento, oggi sarebbe solo una terribile tragedia? Come fare a non
vedere, per esempio dopo i tragici fatti di Parigi, che il tema della sovranità
nazionale è già tutto occupato dalle “consorterie neoconservatrici” e dai
fascismi?
Uso un’espressione ancora provvisoria, ma che mi aiuta a
puntare i piedi dritti su una questione. E’ possibile, alla luce dell’azzardo
di Syriza e di Podemos, «rompere il dispositivo politico keynesiano»? O, se
preferite: è possibile fare un «uso politico non-keynesiano del keynesismo»?
Si tratta di immaginare e di praticare nuove forme di
congiunzione tra lotta economica e lotta politica, capaci di riaprire spazi di
democrazia.
E’ stato correttamente osservato da Christian Marazzi che
nel passato la relazione salariale, e quindi la lotta sul salario, ha avuto la
forza di «comprendere la vita nella sua interezza». Perché oltre a riguardare
il momento diretto della produzione (quindi il potere interno ai luoghi di
produzione), gli aumenti salariali, attraverso il welfare beveridgiano,
assicuravano la formazione, il pensionamento e così diversi altri momenti della
vita. La rottura di questi legami, di queste «consequenzialità», deve suggerire
una nuova articolazione delle lotte.
La riapertura di un programma di politica fiscale espansivo,
dicevamo, deve incontrare la pressione della lotta sociale sul terreno del
reddito di base incondizionato, allo scopo di favorire nello spazio sociale
riproduttivo quanto c’è di comune nelle relazioni sociali. Allo stesso tempo,
questa rottura dall’alto relativa alla spesa pubblica deve incontrare la
sperimentazione di modelli di auto-organizzazione di servizi mutualistici nel
campo del welfare del comune. Sarebbe, quest’ultimo, un terreno concreto
di espansione e consolidamento di nuove istituzioni sociali, capaci di riaprire
contropoteri diffusi ed esperienze di democrazia diretta. E potrebbe, per
giunta, fare leva su prototipi che già si stanno dando in Grecia come quelli
della rete Solidarity for all, oppure in Spagna, nelle diverse esperienze
mutualistiche germinate dal 15-M. E’ in questo senso che intendo,
provvisoriamente, «rottura del dispositivo politico keynesiano». E se non fosse
ancora chiaro, la questione è quella di affinare nella concretezza di questa
fase storica le armi della critica dell’economia politica.
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