quale ha sempre interessato di più i filosofi (Lev Šestov, Theodor Adorno) e gli psicanalisti (Jacques Lacan) piuttosto che i sacerdoti e i teologi, vi è infatti l’esercizio di un modo nuovo di far filosofia (peraltro sviluppato con una scrittura quasi cinematografica), rigorosamente fenomenologico e critico, in linea con quelle esperienze culturali materializzatesi all’indomani del tramonto dell’illuminismo e dell’idealismo.
Il periodo storico nel quale Kierkegaard ha vissuto e
operato era, infatti, come lui stesso ebbe a definirlo, un’epoca di
dissoluzione in cui emergeva in tutta la sua urgenza l’assenza di un principio
creatore capace di stabilire valori e norme universali, in cui già germinava
quella crisi dei valori del mondo borghese e liberale, delle sue ambizioni
intellettuali e delle sue istituzioni, le cui ultime trasformazioni investono
la nostra stessa esistenza quotidiana. In questo stato di cose, Kierkegaard riteneva
che fosse possibile superare l’angoscia derivante da questa realtà, e quindi di
pervenire a Dio, all’Assoluto, attraverso un percorso individuale, intimo,
sofferto: un percorsosolipsistico come quello di Abramo, autentico
«cavaliere della fede». Nel senso che la pulsione spirituale del patriarca,
così irrazionale da oscillare tra gli abissi disumani della crudeltà e le
altezze transumane della sublimità mistica, simbolizza in maniera perfetta la
situazione esistenziale dell’uomo «la sua libertà, cioè la sua possibilità di
scegliere e di perdere il suo rapporto con Dio»1.
Tale problematica ha ispirato grandi capolavori della
settima arte quali Il settimo sigillo (Det sjunde inseglet, 1957) e
la nota “Trilogia del Silenzio di Dio” (Come in uno specchio [Såsom i en
spegel, 1961], Luci d’inverno [Nattvardsgästerna, 1963] e Il
silenzio [Tystnaden, 1963]) di Ingmar Bergman,Ordet – La Parola (Ordet,
1955) e Gertrud (1964) di Carl Theodor Dreyer, Le onde del
destino (Breaking the Waves, 1996) di Lars von Trier, opere in cui riecheggia
l’idea di Kierkegaard della fede intesa come rischio, azzardo, terapia 2 (nonché
la modalità cinematografica con cui l’ha espressa 3); pellicole in cui coloro
che decidono di rinunciare a Dio sprofondano nella più cupa disperazione (si pensi
a personaggi come Karin, Tomas, Ester protagonisti della citata trilogia e
particolarmente al finale di Luci d’inverno, in cui Marta, unica
spettatrice della messa celebrata da Tomas in una chiesa vuota afferma «Ah se
potessi credere in una qualunque cosa; se solo potessimo credere!»).
Influenzati dal celebre filosofo, anche altri autori “nordici” come Victor
Sjöström, Mauritz Stiller, Gabriel Axel o Nicolas Winding Refn, nuovo enfant sauvage del cinema danese,
hanno creato dei personaggi che constatando ogni giorno la caducità e la
contraddittorietà dei loro riferimenti, conducono le loro vite nella
convinzione che non vi sia alcuna verità assoluta (in senso hegeliano), nessuna
ragione da esibire.
Soprattutto, se pensiamo ad esempio ai piccoli criminali Frank, Tonny e Milo protagonisti della trilogia refniana di The Pusher, quasi incapaci di operare un qualsiasi cambiamento nonostante un fallimento esistenziale di cui acquisiscono una sempre maggiore consapevolezza (quindi perfettamente collocati nel salto della vita che, sulla scia degli stadi esistenziali della filosofia kierkegaardiana, va dalla fase estetica a quella etica), costoro mostrano come l’inquietante «modernità senza illusioni» in cui siamo immersi coincida in buona parte con la demolizione di qualsiasi superiore principio spirituale, con un indurimento materialistico che annichilisce.
Soprattutto, se pensiamo ad esempio ai piccoli criminali Frank, Tonny e Milo protagonisti della trilogia refniana di The Pusher, quasi incapaci di operare un qualsiasi cambiamento nonostante un fallimento esistenziale di cui acquisiscono una sempre maggiore consapevolezza (quindi perfettamente collocati nel salto della vita che, sulla scia degli stadi esistenziali della filosofia kierkegaardiana, va dalla fase estetica a quella etica), costoro mostrano come l’inquietante «modernità senza illusioni» in cui siamo immersi coincida in buona parte con la demolizione di qualsiasi superiore principio spirituale, con un indurimento materialistico che annichilisce.
Persino alcune pellicole di cineasti dallo stile
comico-grottesco come l’americano Woody Allen o l’italiano Paolo Sorrentino,
sembrano essere state realizzate a partire da influssi kierkegaardiani: sia la
borghesia del primo che tende a ridurre le relazioni sentimentali a una
dimensione quasi esclusivamente estetica (benestanti manager, docenti
universitari, artisti, poeti e scrittori, ossessionati dalla brevità della
vita, consumano, spesso con la medesima disinvoltura, realtà gradevoli ma
dissimili come il sesso, il cibo, la musica e l’arte), che quella rappresentata
dal cineasta campano ne La grande bellezza (2013), la quale,
orgogliosa della propria chiusura e abiezione da «ultimo uomo» si raduna in
ville e terrazze romane alla ricerca del lusso più sfrenato e della libido più
estrema, si muovono (si dibattono?) in modo prevedibile4 in un orizzonte
bloccato, evocando quella nostalgia della verità cristiana5 di cui parla
il pensatore danese.
Sempre a proposito de La grande bellezza (tematicamente
assimilabile a La Dolce Vita di Federico Fellini), se si analizza in
profondità la lunga odissea del giornalista Geppino “Jep” Gambardella (Toni
Servillo), caratterizzata appunto da squallide e volgari feste mondane, dalla
decisione di entrare definitivamente nel ruolo sociale del middle-class senza
destino per esorcizzare quel sentimento di angoscia («Siamo tutti sull’orlo
della disperazione» afferma ad un certo punto Jep), ben simbolizzato dai
personaggi della defunta Elisa De Santis, primo e unico amore del protagonista,
e del suo triste vedovo Alfredo, abbandonato alle sorti di un lutto più
lacrimato che sofferto (l’akmè della pellicola è invece rappresentata dal
personaggio della Santa, la quale non concedendo interviste e vivendo in modo
assai spartano ricorda come la liberazione dell’uomo dalla schiavitù degli
istinti primitivi e delle pulsioni indotte possa concretizzarsi solo amando il
proprio dolore, unica pacificazione possibile per chi si trova gettato
cristianamente nel mondo), si potrebbe addirittura affermare che in pochi altri
film pare ergersi in modo così chiaro l’esoscheletro della filosofia
esistenzialista di Kierkegaard.
Il quale, per la semplicità delle espressioni formali, per
la ricchezza delle suggestioni religiose ed esistenziali che è stato in grado
di diffondere con dovizia di particolari e, soprattutto, per idee e pensieri
filosofici che vengono personificati in modo che compaiono e si muovono come
degli individui in azione (in ciò simile a Dostoevskij), ha ispirato come pochi
altri intellettuali una settima arte che sin dalle sue origini si è proposta di
trattare nella maniera più originale possibile un antico, decisivo tema:
l’esistere.