John Maynard Keynes ✆ Cummings |
Come di consueto, ciò è avvenuto in modo generico e acritico, all’interno di una troppo confusa ripresa di Keynes. Essendo stato tra quelli che la socializzazione degli investimenti la avevano, per così dire, nel proprio codice genetico da decenni, ma in un senso non poco diverso dalla lettera dell’economista cantabrigense, ciò che proporrò qui è un percorso di lettura (spesso costituito da pure e semplici citazioni, parafrasi), che aiutino ad orientarsi. Seguirà un breve richiamo agli usi che ne ho proposto in passato, ben prima della nuova vulgata in formazione, e qualche considerazione più strettamente teorica e politica.
Keynes
L’ultimo capitolo del libro del 1936 si apre con la
affermazione, comprensibile ma limitata e discutibile, che i limiti principali
della società economica in cui viviamo son costituiti dall’incapacità di dar
vita al pieno impiego (senza l’intervento attivo dello Stato) e da una
distribuzione inegualitaria della ricchezza e del reddito (se non vi sono
interventi correttivi). Va da sé che questi limiti esistono davvero e sono
gravi: abbiamo però qui un esempio di un modo di ragionare che mette al centro del
proprio discorso il plesso domanda-distribuzione, invece di partire, come
sarebbe necessario, da moneta e produzione. Questa ultima è una lezione che, in
fondo, discende da Marx, e che Kalecki (l’economista polacco che prima di
Keynes raggiunse alcuni dei contributi analitici della Teoria generale)
non aveva affatto scordato.
Qualche pagina più oltre, Keynes afferma che lo Stato deve
esercitare una influenza determinante sulla propensione a consumare (per
esempio grazie alla tassazione) e sull’investimento privato (attraverso una
politica monetaria che conduca al ribasso il tasso di interesse di lungo
termine, e conduca all’eutanasia del rentier). Ciò non sarà
sufficiente: Keynes era per varie ragioni convinto di una tendenza al ristagno
nel capitalismo sviluppato, una previsione su cui fu smentito, e su cui
pesavano errori significativi contenuti nella sua costruzione teorica. Ne
traeva perciò la conclusione che fosse opportuna una significativa
‘socializzazione dell’investimento’, unico strumento in grado di condurci nella
zona della piena occupazione delle risorse produttive, incluso il lavoro.
Keynes qualificava però subito il suo discorso. Erano da
approvare tutti i ‘compromessi’ e gli strumenti grazie ai quali l’autorità
pubblica potesse cooperare con l’iniziativa provata (privata). La
‘socializzazione’ che proponeva andava non solo distinta dalla
nazionalizzazione (la proprietà dei mezzi di produzione non era così
importante, sosteneva). Essa era in contrasto netto con il socialismo di Stato.
Per questo definiva la teoria esposta nel libro come moderatamente
conservatrice nelle sue implicazioni. Certo, alcuni ‘controlli’ andavano
stabiliti: ma ‘bastava’ che lo Stato, gradualmente e senza alcuna ‘rottura’
nelle tradizioni della società, muovesse le sue leve tanto quanto era
necessario a indurre una piena utilizzazione di capitale e lavoro. A quel punto
la teoria tradizionale, neoclassica, tornava ad essere del tutto accettabile, e
non si poteva obiettare alle sue tesi sul come gli interessi privati guidassero
l’allocazione ottimale delle risorse.
Non vi è ragione alcuna per supporre che il presente sistema
determini una cattiva distribuzione delle risorse, sostiene Keynes. Se 10
milioni di lavoratori potrebbero essere occupati, e solo 9 lo sono, il problema
è trovare occupazione al milione rimanente, non destinare ad altri lavori i 9
milioni di occupati dalle forze del mercato. E’ nel determinare il
volume, e non la direzione, dell’occupazione effettiva che il sistema attuale
fallisce. Un discorso che non si può certo accusare di oscurità.
Michał Kalecki
Michał Kalecki
Michal Kalecki ✆ Manuel García |
Se lo Stato fosse intervenuto con una spesa pubblica in
disavanzo (magari finanziata con nuova moneta: o direttamente via istituto di
emissione, o indirettamente via banche commerciali), ciò avrebbe avuto lo stesso
effetto che la Luxemburg aveva attribuito alle esportazioni (nette) in aree non
capitalistiche: per questo le aveva definite esportazioni ‘interne’ o
‘domestiche’. D’altronde, la stessa Luxemburg, aveva in qualche misura
anticipato conclusioni keynesiane nel caso in cui la spesa pubblica fosse stata
di sostegno al militarismo. E questa era, in qualche misura, la conclusione di
Kalecki. Il capitalismo ‘keynesiano’ a venire sarebbe stato incentrato sulla
spesa militare. Un capitalismo di pieno impiego era possibile, ma non su base
permanente. Se raggiunto, uno stato di piena occupazione avrebbe ridotto, sia
il controllo capitalistico sulla composizione della spesa (e dunque della
produzione), sia il controllo sulla classe operaia interno ai processi di lavoro
(favorendo episodi di insubordinazione operaia), con conseguente richiesta di
migliori condizioni per i lavoratori dentro e fuori la produzione. Più che la
lotta sul salario, era questo conflitto (o forse antagonismo) che poteva
garantire risultati, nella logica kaleckiana. L’ostilità della classe
capitalistica al pieno impiego si traduceva in un ‘ciclo economico-politico’:
quando ci si avvicinava al pieno impiego le politiche keynesiane sarebbero
state usate all’incontrario, per ricostituire l’esercito industriale di
riserva.
Joan Robinson
L’attacco più violento al keynesismo ‘realmente esistente’
viene nel 1972 da Joan Robinson, una keynesiana di sinistra (oggi verrebbe
definita una postkeynesiana, versante inglese). Le sue parole non lasciano
dubbi sul fatto che è lo stesso Keynes del capitolo finale della Teoria
generale ad essere, almeno in parte, direttamente coinvolto nella critica.
Un articolo che ho ben presente, perché è stato uno dei primissimi che ho
letto, poco dopo la sua pubblicazione, all’inizio dei miei studi di economia.
Robinson sostiene che nei primi anni Settanta si era nel bel
mezzo di una ‘seconda’ crisi della teoria economica. La ‘prima’ è quella da cui
emerge, negli anni Trenta, la ‘rivoluzione keynesiana’ (titolo di un libro allora
famoso di Lawrence Klein, del 1947, tratto dalla sua tesi di Ph.D. al MIT, nel
1944: quando prese il dottorato Klein, Premio Nobel nel 1980, era iscritto al
partito comunista, il che spiega il capitolo del suo libro in cui compara
Keynes e Marx). La prima crisi ruotava attorno al nodo del livello
dell’occupazione, il fallimento del laisser faire per insufficienza
di domanda effettiva. La seconda crisi era tutta diversa, e investiva di petto
le carenze della teoria dominante nel trattare il nodo del contenuto
dell’occupazione. Era una crisi sul terreno anche della distribuzione. Per chi
leggeva l’articolo della Robinson nella Torino dei primi anni Settanta - a
contatto con i lavoratori che contestavano ormai apertamente non soltanto il
‘per chi’ ma anche il ‘cosa’ si produceva, oltre che il ‘come’; e che in verità
già da qualche anno, a partire dalle lotte sulla salute, iniziavano ad aver ben
chiaro il nodo del ‘quanto’ produrre – non era difficile vedere che il discorso
della economista di Cambridge parlava anche alle lotte sulla produzione.
Cosa c’entrava Keynes? Per portare a casa la sua critica
alla teoria neoclassica sul livello dell’occupazione, Keynes aveva dovuto
dimostrare che lo Stato può aumentare l’occupazione, che gli investimenti
(anche pubblici) inducono una spesa derivata di consumi, e che questa seconda
ondata è del tutto indipendente dalla natura dell’impulso iniziale di spesa.
Per questo scriveva che scavare buche per poi riempirle andava altrettanto
bene, dal punto di vista del suo ‘modello’, di una spesa pubblica che
producesse valori d’uso per la società. Possiamo dar per scontato che lui
preferisse il secondo tipo di spesa, non è questo il punto. E’ il medesimo
Keynes che, preoccupato dalla disoccupazione di massa degli anni Trenta, può
scrivere nella prefazione alla traduzione tedesca pubblicata in Germania nello
stesso 1936 che un paese totalitario come il nazismo costituisce uno sfondo
istituzionale dove meglio che nelle democrazie la sua teoria potrebbe essere
messa all’opera.
Bene: quando i ‘keynesiani’ diventano la nuova ortodossia, e
il pieno impiego assurge a obiettivo dichiarato e praticato dai governi
capitalistici dei trent’anni successivi alla guerra, tanto conservatori quanto
progressisti, si guardano bene dal cambiare la domanda, e passare dalla
questione del livello a quella del contenuto dell’occupazione, come secondo
Robinson sarebbe stato opportuno. La Guerra, scrive, era stata una grandiosa
lezione di ‘keynesismo’. Se in astratto qualsiasi spesa andava bene, il ruolo trainante
lo ebbe però la spesa per armamenti, costruendo il complesso
militare-industriale, e guadagnandosi il consenso non solo di capitalisti e
lavoratori ma anche degli ‘economisti’ che la consigliavano come profilassi
contro la stagnazione e la disoccupazione, infischiandosene della ‘finanza
sana’. La spesa in disavanzo favorita dai consiglieri keynesiani e la
conseguente centralità del sistema militare-industriale trasformarono il sogno
ad occhi aperti di Keynes in un incubo di terrore. Le nuove forme della povertà
in mezzo all’abbondanza e l’emergere drammatico dell’inquinamento, nel mondo
‘keynesiano’ di allora (ricordate: i ‘trenta gloriosi’, il compromesso
capitale-lavoro, l’era aurea del fordismo di cui ci racconta la sinistra;
assieme all’idolatria del PIL), ne furono l’esito necessario.
Hyman P. Minsky
Hyman P. Minsky
E’ qui che si inserisce a proposito la ripresa, tre anni
dopo (1975), del tema della ‘socializzazione degli investimenti’ nel primo e
negli ultimi due capitoli del primo libro di Minsky (John Maynard Keynes,
tradotto in italiano con il titolo, per una volta più perspicuo, Keynes e
l’instabilità del capitalismo: ristampati entrambi, sull’onda del ritorno della
grande crisi nel capitalismo, sia negli Stati Uniti che in Italia,
rispettivamente nel 2008 e nel 2009). E’ un libro che Minsky andava scrivendo
dai primi anni Settanta, in parte nella stessa Cambridge, dove ebbe senz’altro
modo di discuterne con Joan Robinson. Certo, basta leggere quelle pagine per
trovarsi gettati nello stesso ordine di idee della Robinson, persino
radicalizzato, mille volte lontano dalla timida ripresa del keynesismo che
predomina a sinistra.
Keynes proponeva un controllo sociale sull’investimento e
sognava una società più egualitaria; e certamente questo messaggio è stato imbastardito
da quella Sintesi Neoclassica che aveva puntato sullo stimolo all’investimento
privato per conseguire alti profitti, facendone discendere elevata occupazione
e aumento del reddito anche dei ceti più poveri grazie allo ‘sgocciolamento’ in
basso (trickle down) della maggiore ricchezza e del maggior reddito dei ceti
abbienti. Così la diseguaglianza (relativa) cresceva e il problema
dell’impoverimento non era affrontato per la via di una migliore (oltre che più
piena) occupazione ma per il tramite di sussidi monetari e ‘assistenza’.
Il problema, insiste Minsky, è che non solo le novità di
Keynes erano imprecise e confuse, ma che la stessa ‘vecchia’ teoria era in
buona misura ancora lì – e proprio nei punti chiavi della teoria degli
investimenti, del tasso di interesse, della determinazione dei prezzi delle
attività-capitale (assets). In parte ciò era voluto, per rendere più
accettabile il messaggio ritenuto più urgente sulla politica economica
anti-ciclica; in parte era involontario, per l’incapacità di sfuggire al peso
della teoria tradizionale in cui era stato educato. I keynesiani hanno finito
con il cancellare lo stesso problema dinamico del ciclo economico, da cui
l’opera di Keynes nasceva, per ridurlo ad un orizzonte statico di equilibrio.
D’altra parte, tra i Quaranta e i Sessanta, non era forse scomparso il problema
del ciclo, sostituito dalla regolazione fine del meccanismo economico? Lo
sgonfiamento prima, e la repressione poi (almeno per un po’, sino ai primi
Sessanta), della finanza speculativa, facilitavano l’illusione ottica di una
stabilità permanente. Se Kalecki, in anticipo di trent’anni, ne aveva smontato
le basi ingannevoli per quel che riguardava i rapporti tra le classi sociali,
Minsky, in anticipo di almeno un decennio, faceva lo stesso per quel che
riguardava il rapporto tra finanza e investimento.
Qui Minsky innestava la sua critica non solo al keynesismo
ma allo stesso Keynes. Non era vero quello che diceva la nuova ortodossia, che
bastavano cambiamenti al margine alle istituzioni del capitalismo per garantire
che crisi e depressioni fossero roba del passato. Al contrario, era tutto da
discutere se le politiche anti-congiunturali potessero sostenersi nel tempo
senza creare altre contraddizioni, ed era fallace pensare di poter ricacciare
sotto il tappeto le domande del ‘per chi’ si dovesse produrre, di ‘che tipo’ di
occupazione dovesse essere stimolata, di quale natura dovesse avere il pieno
impiego. Il limite risaliva dritto dritto a Keynes, il Keynes che aveva
accantonato con troppa facilità le questioni gemelle di una radical
reformulation, di una ricostruzione radicale della società, e di un diverso
insieme di criteri per valutare l’evoluzione di quella stessa società.
Il lettore vede subito che siamo di fronte a una messa in stato
d’accusa dell’ultimo capitolo della Teoria generale. E questo stato
d’accusa viene da un economista che non si vergogna di essere stato socialista
(l’American Socialist Party: sua madre era attiva nel movimento sindacale, il
padre nel partito socialista di Chicago, e si incontrarono sul tram andando a
una celebrazione della nascita di Marx). Anzi, che lo è ancora. Certo, un
socialismo rigorosamente antileninista, oltre che antistalinista. Ciò,
evidentemente, poteva fare problema. Pochi anni dopo, quando Minsky iniziò a
collaborare stabilmente al Centro Studi Confindustria, diretto da Guido Carli
(è grosso modo da quegli anni che iniziò ad abitare a Bergamo, ed ebbi la
fortuna di conoscerlo), vi fu ancora chi, come Karl Brunner, si infuriò,
con Paolo Savona, per aver loro “portato in casa un comunista” (l’episodio è
riportato dallo stesso Savona in “Guido Carli in Confindustria: maestro di
pensiero e statista”, in Carli G., Savona P., Guido Carli Presidente di
Confindustria 1976-1980, Bollati Boringhieri, 2008). Non a Minsky stesso,
almeno a quell’epoca. E gli ultimi capitoli del suo libro del 1975
esplicitamente propongono uno tra i 57 tipi di capitalismo, dai tratti però
marcatamente ed esplicitamente socialisti (il riferimento di Minsky alle 57
varietà possibili del capitalismo rimandava alle 57 varietà pubblicizzate dalla
ditta Heinz).
Seguiamo il filo di ragionamento di Minsky. Keynes negli
anni Venti era un uomo della sinistra. Non più negli anni Trenta, e ciò
sicuramente era dovuto anche a quello che era la Russia comunista,
centralizzata e autoritaria. La Teoria generale avrebbe reso
finalmente obsoleta e inutile la teoria marxiana, con tutte le sue confusioni.
Negli anni Venti, in fondo, Keynes flirtava ancora con un socialismo decentralizzato
e ‘umano’. Negli anni Trenta ritiene che il mercato risolva in modo
soddisfacente il problema di una allocazione efficiente; che le politiche di
pieno impiego che suggerisce facciano un bel tratto di strada per risolvere il
problema della giustizia sociale, e che vadano solo affiancate dalla eutanasia
del rentier (politiche che riducano il tasso di interesse), da una adeguata
tassazione diretta, e da una incisiva imposta di successione. Il capitalismo
come regno della libertà e dell’iniziativa individuale andava ‘salvato’.
Ovviamente, commenta Minsky, l’idea di Keynes che il
capitale potesse divenire ‘scarso’ era l’altra faccia della sua ingenua teoria
dei bisogni assoluti come ‘saziabili’ (una generalizzazione indebita delle
proprie preferenze), mentre al contrario ciò che è avvenuto dopo è
l’esplosione, indotta dal sistema stesso, dei bisogni relativi. In ciò hanno
svolto un ruolo importante il modo del sostegno statale all’economia come
domanda di beni e servizi, il privilegio fiscale dei redditi da capitale rispetto
a quelli disponibili per il consumo, la politica di trasferimenti meramente
monetari, di cui è stato intessuto il keynesismo. Il disciplinamento dei
bisogni che con tutta evidenza sarebbe opportuno non lo si può affidare, come
crede Keynes, al mercato, con solo un piccolo aiuto da parte del sistema della
tassazione e dei sussidi. Il vantaggio della spesa militare è che distrugge
continuamente il suo stesso prodotto, non rientra in circolo (è una politica di
investimento adeguata al capitale proprio perché non è utile), e in più
favorisce un sistema produttivo ad alta intensità di capitale.
A dover esser messa sul banco degli imputati, secondo
Minsky, è la contraddizione palese in Keynes tra l’idea della ‘socializzazione
degli investimenti’ e quella secondo cui il mercato svolgerebbe bene il suo
ruolo di allocatore delle risorse. Esisteva, ed esiste, una alternativa: un
‘socialismo di mercato’ che controlli i centri di comando (towering heights) e
promuova il consumo collettivo (communal consumption); a cui potremmo
aggiungere nello stesso spirito il controllo diretto del movimento dei
capitali. Ciò che i ‘keynesiani’ hanno perseguito, non del tutto tradendo la
lettera di Keynes, è stato il Big Government, uno Stato grande a
sufficienza da stabilizzare l’economia e sussidiare il consumo. Un modello di
alti profitti-alti investimenti, ma dunque anche elevato ‘spreco’ (non siamo
lontani, con tutta evidenza dal mondo di Sweezy (con Baran), citato
in JMK, oltre che di Kalecki, anche se Minsky non aveva ancora recepito il
contributo di quest’ultimo, e non lo cita ancora). Un modello, insomma, che è
predicato proprio sulla esplosione dei bisogni relativi, e che sostenendo
rendite, interessi e profitti nutre nel suo seno il risorgere della finanza
speculativa e di una instabilità sempre più accentuata. Un universo destinato
ad una necessaria implosione, e a cui non si può rispondere con la nostalgia di
un keynesismo ‘buono’ (che peraltro mai si è dato); e che intanto destina il
pianeta al degrado sociale e naturale.
E’ a questo che deve rispondere la ‘socializzazione degli
investimenti’, in un senso ben più profondo di quello inevitabilmente aporetico
di Keynes. Basta confrontare le frasi di Minsky con quelle di Keynes: occorre,
scrive l’economista di Chicago, una economia in cui i settori chiave siano
socializzati; dove il consumo in comune [dunque non monetario, ma per così dire
provveduto ‘in natura’] soddisfi la parte maggiore dei bisogni privati; dove la
tassazione del reddito e della ricchezza sia disegnata per abbattere la
diseguaglianza; dove la speculazione nella struttura delle passività sia
regolata da leggi che ne definiscano rigidamente l’ammissibilità. Un
‘capitalismo’ del genere può rendere raggiungibile il pieno impiego con meno
tensioni e instabilità di quelli emersi nel capitalismo degli anni Sessanta e
Settanta.
Su questa strada i fini socialisti, propri di un socialismo
libertario, possono essere riconciliati con il capitalismo. Ma per giungere a
una analisi adeguata di come funziona una economia capitalistica, e di come
intervenire lungo le linee di una teoria ad un tempo razionale e radicale, è
necessario comprendere non soltanto che il capitalismo ha difetti costitutivi,
non risolvibili per la via di una tiepida regolamentazione, ma anche che si
deve tornare ai problemi degli anni Trenta. E qui, con tutta evidenza, Minsky
ha in mente il New Deal. Quel New Deal che non era keynesiano:
per certi versi, negativamente (Roosevelt, prima della Seconda Guerra Mondiale,
non apprezzava affatto i disavanzi nel bilancio dello Stato); ma anche, per
altri versi, positivamente (Roosevelt, sulla spinta del conflitto sociale,
aveva promosso una spesa che aveva inciso potentemente sulla composizione della
produzione, e che dunque aveva coniugato sostegno alla domanda e ridefinizione
dell’offerta; e dove lo Stato si faceva occupatore diretto di manodopera).
Da questo punto di vista aveva di nuovo torto Keynes quando
nella sua lettera aperta a Roosevelt pubblicata nel New York
Times del 31 dicembre del 1933, se giustamente lo invitava a spingere
sull’acceleratore della recovery, della ripresa, discutibilmente gli
suggeriva una politica dei due tempi, rimandando a tempi migliori
la reform, la riforma radicale dell’economia e della società. Il punto di Minsky
è evidentemente che le due gambe debbano camminare insieme. Sul New Deal,
e su quel Piano del Lavoro o sull’ispirazione liberalsocialista di Ernesto
Rossi o Sylos Labini, ho scritto a più riprese (da solo o con Joseph Halevi)
dal 2008, anzi in verità da prima. Un punto che ritorna negli anni più recenti
anche nelle riflessioni di Luciano Gallino e Laura Pennacchi.
Federico Caffè, Augusto Graziani, e Claudio Napoleoni
Federico Caffè, Augusto Graziani, e Claudio Napoleoni
Criticando i keynesiani Paul M. Sweezy, a ragione sosteneva
che parlare di riformare il capitalismo significava peccare di ingenuità o di
doppiezza. Il capitalismo difenderà fino in fondo i suoi privilegi, consentendo
soltanto quelle riforme e quel margine di libertà ai riformatori che non
tocchino i loro interessi.
Federico Caffè era sicuramente un riformista, pur a un certo
punto disilluso e disperato. Ma certo non ingenuo. Cita il Franco Fortini che
sul Corriere della sera scrive che “lo sviluppo capitalistico, grazie
alle sue crisi e ai suoi ritorni, drena sempre nuovi strati sociali, produce anzi
sempre nuovi colonizzati interni, almeno da noi, da usare come deterrente nei
confronti del lavoro comunque privilegiato”. La alternativa che propone è una
economia di piena occupazione, ma è chiaro – aggiunge - che ciò dipende da una
riforma fondamentale del contesto istituzionale. Di questa riforma fanno parte
controlli sul commercio con l’estero, controlli sui prezzi, controlli sulla
localizzazione delle industrie, estensione dell’azione dello Stato anche ai
fini della regolamentazione complessiva dell’investimento privato.
Forse alludendo a Abba P. Lerner, la definisce una vera e
propria ‘economia dei controlli’. Di più, si tratterebbe di una autentica
‘amministrazione globale della offerta’. Siamo chiaramente nello stesso
orizzonte di Minsky, quello di una socializzazione industriale e della
struttura produttiva, della banca e della finanza, dell’occupazione. Di fatto,
e di nuovo, della rimessa in questione del ‘che cosa’, ‘quanto’ e ‘per chi
produrre’ – qualcosa a cui una sinistra autentica non può non aggiungere una
rimessa in questione anche del ‘come’ produrre. Caffè qualifica questa
prospettiva come ‘riformismo gradualistico’, ma non si vede (almeno, io non
vedo) proprio cosa vi sia di moderato in tutto ciò. Tant’è che lui stesso
rimanda a Gramsci che scrive che si tratta di proporre fini discreti,
raggiungibili pur nell’intento di approfondirli ed estenderli.
Se cerchiamo da noi l’esempio massimo di un keynesismo
‘strutturale’, mille miglia lontano dal keynesismo corrente e un po’ facile
degli economisti alternativi dei nostri giorni, l’autore a cui penserei per
primo è però Augusto Graziani: non a caso un autore che ha costruito il suo
pensiero più originale sulla critica al Keynes della Teoria generale, e
sul recupero semmai del Keynes del Trattato sulla moneta. Per quel
Keynes - come per Wicksell, Schumpeter, e prima ancora Marx - l’accesso
privilegiato alla moneta è ‘comando’ sulle decisioni attinenti alla produzione
e alla occupazione. Quell’accesso è, certo, prerogativa anche dei governi: ma
Graziani non ha mai ceduto a illusioni ‘sovraniste’; né gli si fa un gran
servizio nel ridurlo a un postkeynesiano, ad un ‘eterodosso’ tra i tanti,
fautore di politiche espansive della domanda effettiva, e magari di una qualche
svalutazione corretta ‘da sinistra’. Graziani ha sempre ben chiara la natura di
classe delle decisioni politiche; e ha sempre rigorosamente distinto tra
governo e Banca Centrale. Per lui, il conflitto sociale – che si svolge fuori
dall’arena del mercato è di natura, in senso lato, politica: come per Kalecki,
il riferimento è non tanto alle lotte sul salario, piuttosto alle lotte nella
produzione, che può (e deve) imporre i contenuti della spesa pubblica.
Graziani si è inoltre ben guardato dal farsi fautore di un
aumento generico della domanda. I fallimenti del sistema privato sono profondi,
e i bisogni collettivi sono insoddisfatti: proprio per questo, sostiene, ogni
spesa va accuratamente valutata e indirizzata ad una composizione del prodotto
che sia socialmente utile. Lo Stato deve inoltre assicurare ai cittadini, per
così dire ‘in natura’, la disponibilità reale di beni e servizi, andando al di
là di una politica di meri sussidi monetari o di riduzioni fiscali. Per ultimo
ma non da ultimo, lo Stato ha la responsabilità di aprire la strada ad un
investimento che migliori la qualità strutturale dell’economia in un orizzonte
di lungo periodo che solo lui può garantire. Di nuovo, siamo nell’orizzonte
della ‘socializzazione degli investimenti’ intesa in un senso complessivo e
radicale.
E’ indubitabile che troppe siano le differenze tra Graziani
e Claudio Napoleoni per accomunarli in modo generico sotto un’unica
prospettiva. Pure, è altrettanto indiscutibile che esista una convergenza,
almeno sul problema. In un intervento al CESPE del 1987, poi raccolto in un
volumetto dal titolo: “Quali risposte alle politiche neo-conservatrici?”,
Napoleoni ribadisce l’importanza di ripristinare il vincolo ‘interno’, cioè di
una spinta sociale sul terreno distributivo, che può incarnarsi in un aumento
dei salari ma anche in una riduzione dell’orario di lavoro. L’economista
abruzzese non è contrario ad una politica prudente del cambio, che reputa (se
accoppiata alla riproposizione del vincolo ‘interno’) in grado di ripristinare
una dialettica di classe, e di costringere le imprese a un cambiamento
strutturale. Che ne è in questa prospettiva del ‘risanamento’ del bilancio
pubblico? Sostiene questo Napoleoni che dell’intervento sul bilancio pubblico
se ne può fare una bandiera solo dentro un’operazione più complessiva che non
solo agisca sulla distribuzione del reddito ma che intervenga anche sulle
determinanti strutturali dell’economia e della società. Una politica che riduca
la dipendenza dall’estero, che investa in grandi infrastrutture, che governi il
mutamento tecnologico in maniera da indirizzare l’aumento di produttività verso
un aumento della quota del nuovo valore che va al lavoro, di un minor tempo di
lavoro nella sfera della produzione, di una più equilibrata ripartizione del
lavoro di riproduzione, di un maggior rispetto della natura. Cosa è questa se
non ‘socializzazione degli investimenti’?
Alain Parguez
Alain Parguez
In questo orizzonte di discorso un contributo di rilevo è
quello che viene da Alain Parguez. Lo Stato deve farsi ‘ancora’ di uno sviluppo
che generi un pieno impiego autentico. Per definizione, il passivo del bilancio
dello Stato, qualora il conto corrente con l’estero sia nullo, equivale ad un
attivo del settore privato, dunque a un suo risparmio netto. Inevitabilmente,
politiche che mirino ad un pareggio o un attivo del bilancio pubblico (le
politiche di ‘austerità’) non possono che rivelarsi controproducenti,
determinando l’opposto di quel che dichiarano. Deprimendo produzione,
occupazione, aspettative, fanno crollare investimenti e consumi. A questo
conducono le varie terapie shock, come quella imposta alla Grecia, o le
politiche recessive e deflazionistiche in corso. E’ chiaro che i disavanzi
dello Stato, invece di ridursi, si riprodurranno e aumenteranno, in un circolo
vizioso, che si riproduce in una caduta libera pregna di drammi sociali e
individuali. Sono, questi, dei ‘cattivi’ disavanzi, a cui non corrisponde come
contropartita alcuna infrastruttura materiale o sociale. E’ questo invece ciò
che caratterizza i ‘buoni’ disavanzi.
I ‘buoni’ disavanzi sono infatti disavanzi voluti ex ante,
pianificati, che si collocano per così dire ‘naturalmente’ in una politica di
lungo termine. Essi hanno quale scopo dichiarato il contrario di quel che
afferma Keynes al termine dellaTeoria generale. Risultano nella produzione di
uno stock di risorse tangibili e intangibili, non solo infrastrutture concrete,
ma anche investimenti nella ricerca, nell’istruzione, nella salute. Di
rimbalzo, possono creare un clima favorevole migliorando le aspettative, e potrebbero
così favorire una spesa per investimenti privati, che rimane comunque trainata
dal big push del settore pubblico. Tale produzione di valori d’uso
sociali va effettuata in disavanzo ma, in realtà, al termine degli effetti che
ha indotto, finisce con l’autofinanziarsi – sempre, nelle economie
capitalistiche e dunque monetarie, il reddito segue alla spesa, come il
risparmio all’investimento, e ancora come le imposte alla spesa pubblica.
Lucio Magri
Lucio Magri
Potrà sorprendere il prossimo autore preso in considerazione:
Lucio Magri, segretario del Partito di Unità Proletaria. Il documento è la
relazione su “Difesa rigida o offensiva manovrata?”, pubblicato su il
manifesto quotidiano, gennaio 1974. Magri si pone il problema di un
‘programma minimo’ di gestione della crisi. I temi che costituiscono l’asse del
discorso, e che qui cito per lo più direttamente senza virgolette, sono quelli
che seguono.
Il primo tema è la questione della distribuzione del
reddito, o più semplicemente del chi paga la fase di stagnazione e di
riconversione produttiva. Il livello di vita delle masse come quello
dell’occupazione, in una fase recessiva, non sono difendibili senza un
massiccio programma di spesa pubblica per finanziare consumi collettivi, beni
primari a basso costo, programmi di sostegno dell’occupazione nei settori a
bassa produttività e di riconversione in altri settori. Qui il limite del
discorso di Magri è quello di dare per scontato che dalla considerazione,
corretta, che la crisi non era allora causata da insufficienza di domanda, si
potrebbe derivare una più generale critica al finanziamento in disavanzo della
spesa pubblica. Fa di conseguenza cadere l’intero peso della manovra
sull’aumento delle imposte. Discutibile allora, senz’altro errato oggi. Come
discutibile era una certa sopravvalutazione della natura ‘finale’ della crisi,
di cui sottovalutava la natura di (lunga) crisi di ristrutturazione.
Il secondo tema era quello dei consumi collettivi. Che essi
non possano funzionare da elemento di rilancio del meccanismo capitalistico non
toglie nulla, per Magri, al fatto che una massiccia spesa e una razionale
pianificazione nel settore dei consumi sociali potessero rappresentare un passo
avanti decisivo per le condizioni di vita delle masse e per il livello civile
di tutta la società. Lo spostamento di significative risorse da consumi
individuali inessenziali a consumi sociali poteva garantire sia una migliore
soddisfazione dei bisogni, anche senza sostanziali incrementi produttivi, sia,
almeno nel breve periodo, maggiori occasioni di lavoro. Da una impostazione del
genere Magri derivava scelte concrete e una linea di classe. Sia per ciò che
riguardava quali beni collettivi produrre, sia per ciò che riguardava la loro
distribuzione. La linea di classe si riduceva a tre discriminanti. Una
impostazione accentuatamente egualitaria nella produzione e nella distribuzione
del bene collettivo. Una chiara autonomia del consumo collettivo da un diretto
obiettivo produttivistico (ritenuto il solo modo di garantire una vera produttività).
Una lotta a fondo contro l’annidarsi del parassitismo nella spesa pubblica,
contro la borghesia di stato e la paralisi burocratica.
Per quel che riguarda il problema dell’occupazione, pareva a
Magri del tutto illusoria – et pour cause - la prospettiva, sostenuta
dai ‘riformisti’ di allora, di risolvere il problema della occupazione
intensificando gli investimenti e rilanciando il meccanismo di sviluppo
capitalistico. Non era peraltro proponibile una pura e semplice lotta per la
difesa dei posti di lavoro esistenti. Si doveva riuscire ad aprire lotte per
nuovi posti di lavoro, per una politica dell’occupazione. La scelta che andava
fatta era di puntare (anche, ma in modo significativo) su settori a bassa
produttività, su tecnologie ad alto contenuto di lavoro. Una politica che
andava ancorata a priorità socialmente riconosciute. A questo si poteva
accoppiare una ondata di grossi investimenti nella ricerca, e di stimoli
economici in direzione di una riconversione di settori industriali per
l’esportazione di beni e di tecniche verso paesi in via di sviluppo.
Aggiungeva Magri che pensare a questa serie di scelte di
politica economica come a un ‘programma di governo’, a un insieme di leggi di
riforma o di decisioni di spesa, frutto di un accordo di vertice, sia pure
sotto la pressione di una spinta di massa, sarebbe stato puramente illusorio.
Esse non potevano configurarsi se non come il frutto di un permanente e
articolato movimento di massa, capace di funzionare in ogni momento e in ogni
settore, oltre che come forza di pressione, come controparte del potere
pubblico in precise ‘vertenze’, come elemento di controllo permanente, e anche
di gestione attiva delle conquiste ottenute. Gestione diretta e di massa di un
programma di lotta che via via si impone e si controlla e il cui procedere non
risolve ma approfondisce la crisi del sistema (siamo, a me sembra, ancora
nell’orizzonte del Gramsci delle Tesi di Lione, con una insospettabile
convergenza con Federico Caffè).
Concludeva: non si tratta di imporre dal basso in modo
diverso la linea riformista, ma di portare avanti in modo differente dal
riformismo un programma che è intrinsecamente diverso, perché parte dalla
demistificazione dell’illusione del ‘nuovo modello capitalistico’ (oggi
diremmo: della ‘via alta’ allo sviluppo capitalistico). Se non si riesce, nella
articolazione degli obiettivi e delle esperienze, a far avanzare il discorso
sulla redistribuzione del reddito, sui consumi sociali, sull’occupazione, come
strumento di lotta reale di massa, come crescita di potere prima e più che di
singoli obiettivi, ogni discriminante di impostazione e di contenuto diventa
formale. Non era un modello alternativo, stabile, di capitalismo, ma di
gestione della crisi.
Ho scritto con le parole stesse di Magri, ma non ho potuto
fargli giustizia. Troppo – di condivisible, ma anche di non condivisibile – ho
dovuto tralasciare. Ma certo, in questo che Magri chiama provocatoriamente
‘modello alternativo di stagnazione’, condizione per poter porre un domani sul
tappeto la questione di un (comunista) ‘modello alternativo di sviluppo’,
troppe sono le somiglianze nei confronti di una radicale ‘socializzazione degli
investimenti’, per non chiedersi in che misura le due analisi debbano
reciprocamente essere confrontate, e interrogarsi vicendevolmente.
Conclusioni
Conclusioni
La gran parte degli autori che ho citato ha scritto quanto
ho riportato negli anni Settanta. Quale l’attualità in ciò che hanno sostenuto
allora? Enorme, a mio parere. La svolta neoliberista, se ha spiazzato per lungo
tempo le questioni che si ponevano in quel decennio, non le ha affatto
cancellate. Le ha viste semmai eclissarsi per tornare allo scoperto con maggior
forza ed evidenza, ma in un contesto di rapporti di forza sociali ben più
degradato.
Per mio conto, mi sono trovato a coordinare, per
Rifondazione Comunista e assieme a Emiliano Brancaccio (quello che scrivo
impegna, sia chiaro, soltanto me), una commissione sulla politica economica.
Eravamo tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila. La mia
convinzione – potrei dire, da sempre: dall’inizio degli anni Settanta – è che
la crisi italiana non soltanto fosse paradigmatica, pur nella sua
eccezionalità, delle dinamiche del capitalismo europeo e globale, ma anche che
essa avesse una natura ‘strutturale’. Non era, come non è, riducibile alla
questione della diseguaglianza (i ‘bassi salari’). Né era, o è, risolvibile con
un più acceso (e benvenuto) conflittualismo, con una (auspicata) migliore
distribuzione: un po’ più di reddito qui, un po’ meno di orario di lavoro lì.
Il mio tentativo nella commissione fu quello di organizzare
discussioni che portassero gli economisti italiani ‘di sinistra’ – una
categoria purtroppo sempre più affetta dalla tara di agognare una presenza
mediatica la più pronunciata possibile (tra un appello, una lettera, un monito,
una comparsata in televisione); come anche dal desiderio profondo di divenire
consiglieri di un qualche nuovo Principe - alla cognizione che il capitalismo
che si era costituito negli anni Ottanta e Novanta, non era per niente un
ritorno del ‘liberismo’, un trionfo di una generica ‘globalizzazione’, un
misterioso e novissimo ‘postfordismo’, né tanto meno la vittoria di un
introvabile ‘pensiero unico’. Insomma, le vuote sigle della sinistra
alternativa e radicale. Era invece un ‘nuovo’ capitalismo nel pieno di un
intervento politico attivo, che aveva trasformato e incluso i lavoratori dentro
un meccanismo infernale, che gestiva internamente la domanda effettiva, e che
dava vita a nuove forme del vecchio sfuttamento.
Da studiare era il nuovo mondo della produzione e della
finanza, prima ancora di porre in questione domanda e distribuzio
ne: perché
appunto reform e recovery vanno insieme. Un capitalismo per
cui era prevedibile l’avvicinarsi di una grande crisi (tanto che sovrastimai la
gravità della crisi scoppiata nel 2000, e con Joseph Halevi mi trovai pronto a
quella del 2007; gli economisti della nostra sinistra se ne accorsero, male, a
fine 2008). Con pazienza bisognava attrezzarsi sul piano ‘strutturale’ del modo
di produzione: tanto per quel che riguardava l’approfondimento della
conoscenza, quanto per quel che riguardava l’abbozzo di costruzione di un
programma minimo. Muovendosi verso una politica economica attenta, ebbene sì,
alle questioni legate alla ‘socializzazione degli investimenti’. Basta andarsi
a rileggere quello che scrivevo allora.
Se devo essere sincero, non ho mai capito bene quale e
quanto fosse l’investimento della dirigenza del Partito su quella
sotto-commissione. Non molto, sospetto. Ci veniva detto di rimanere ‘sulle
generali’, perché erano ‘ovviamente’ i politici a dover dettare la linea
programmatica. E però quando le elezioni si avvicinavano ci si chiedeva con
urgenza di scrivere le righe da mettere fianco a fianco agli altri mattoni approntati,
separatamente, dagli ‘ecologisti’, dalle ‘femministe’, e così via (io, devo
dire, mi sottrassi). Una cosa deve essere chiara. Una socializzazione degli
investimenti, per essere proposta da sinistra (figuriamoci da partiti o
movimenti comunisti), non si improvvisa. Richiede un lavoro. Non individuale,
ma collettivo. Di lunga lena, che si costruisce nel tempo: basti pensare a che
tipo di scuola e di università presuppone.
Bisognerebbe cominciare, un giorno o l’altro, con pazienza,
a farlo, scontando i tempi della costruzione inevitabilmente lenta. Se no
sarebbe meglio, di queste cose, non parlarne nemmeno. Non è tema né di articoli
né di interventi ai convegni, se non si vuole essere superficiali. Pure, potete
contare sul fatto che la dura realtà dei fatti (che hanno la testa dura, e non
badano agli equilibri dei politici o delle comunità intellettuali) ci
costringerà a parlarne sempre di più, seppur male, nei tempi a venire. Speriamo
solo di sfuggire alla massa di banalità, e di vere e proprie insensatezze, che
ci affligge sulla questione dell’euro, dove un tragitto simile è stato già
percorso, in modo probabilmente irreparabile, sino a che non si sa veramente
cosa dica la politica della sinistra (al singolare).
N° 30, marzo-abril, 2014, p. 77-90 |