La recente evoluzione delle discussioni circa Internet e la
rivoluzione numerica – che queste discussioni siano giornalistiche, di saggisti
o di accademici – costituisce il fenomeno culturale maggiore della nostra
epoca. All’inizio, negli anni 2000, queste discussioni avevano
maggiormente seguito le intuizioni che derivano dal cyber-libertarismo degli hacker e dall’anarchismo dei teorici del
software libero1. Diversi nel tono così come nel
contenuto, essi avevano senza dubbio la loro espressione più compiuta dal punto
di vista teorico nei lavori di Lawrence Lessig et di Yochai Benkler.
Promotore della licenza “Creative commons”, Lessig 2 vedeva nell’esplosione di
Internet il principio di una estensione straordinaria del tema liberale del free speech che incita la
comunicazione peer to peer. Essa farebbe scoppiare, egli spiegava,
l’alleanza oggettiva, fino a quel momento dominante, dello Stato autoritario e
dell’impresa capitalistica; alleanza sigillata da un’organizzazione della
proprietà che sacralizza abusivamente il possesso privato ed esclusivo, grazie
soprattutto al diritto della proprietà intellettuale. Benkler 3, da parte sua, partiva più
direttamente dall’economia.
L’abbassamento drastico del costo dell’informazione, egli affermava, è portatore di un modo di produzione caratterizzato dalla partecipazione in rete. Implicherebbe una decentralizzazione che potrebbe liberare radicalmente la diffusione e l’innovazione, reinventando l’impresa nel senso di una radicale apertura. Così, in sintesi, all’inizio del primo decennio del nostro secolo, si era diffuso un discorso influente sull’universo numerico che, più o meno esplicitamente, vedeva nello sviluppo di Internet il principio di un promettente superamento di quella modernità bloccata che noi abbiamo conosciuto finora a causa dell’influenza di due istituzioni – lo Stato e la grande impresa privata – le quali riposavano su (o almeno convalidavano in un secondo tempo) una concentrazione considerevole e insaziabile del potere sociale, due istituzioni che hanno del resto da lunga data l’abitudine di lavorare mano nella mano e di imitarsi.
L’abbassamento drastico del costo dell’informazione, egli affermava, è portatore di un modo di produzione caratterizzato dalla partecipazione in rete. Implicherebbe una decentralizzazione che potrebbe liberare radicalmente la diffusione e l’innovazione, reinventando l’impresa nel senso di una radicale apertura. Così, in sintesi, all’inizio del primo decennio del nostro secolo, si era diffuso un discorso influente sull’universo numerico che, più o meno esplicitamente, vedeva nello sviluppo di Internet il principio di un promettente superamento di quella modernità bloccata che noi abbiamo conosciuto finora a causa dell’influenza di due istituzioni – lo Stato e la grande impresa privata – le quali riposavano su (o almeno convalidavano in un secondo tempo) una concentrazione considerevole e insaziabile del potere sociale, due istituzioni che hanno del resto da lunga data l’abitudine di lavorare mano nella mano e di imitarsi.
È facile identificare a cose fatte i limiti e le fragilità
di queste posizioni. Sopravvalutando l’autonomia del mondo numerico sulla base
di un certo determinismo tecnico, Benkler e Lessig si sono certamente mostrati
imprudenti annunciando il prosciugamento tendenziale delle risorse
che permettono alle grandi potenze costituite, essenzialmente lo Stato e le mega
aziende capitalistemassimizzatrici, di mantenere la loro forza ed
influenza. Quali lezioni bisogna trarre da questa imprudenza?
1. L’assorbimento
capitalista della rivoluzione numerica
Constatiamo innanzitutto che esiste oggi una forte corrente
scettica che intende liberarsi dalle suggestioni tipiche delle utopie liberali
e libertarie.
Ad esempio, in L’ingenuità
della Rete, un’opera che ha beneficiato di una larga audience
internazionale in questi ultimi anni, E. Morovoz insiste sul fatto che il
secondo decennio del secolo presente sia segnato da una disillusione sulla
portata effettiva della rivoluzione numerica4. Per Morozov, la visione
intellettualista di Internet, condivisa da Lessig e Benkler, partiva da cattive
basi. Essa non resiste alla constatazione evidente secondo cui gli usi
ricreativi, ludici e commerciali di Internet (con, al centro di questa costellazione,
l’alleanza di business e consumismo), erano e restano ancora
predominanti, come è stato del resto il caso dei grandi media del XX secolo, a
cominciare dalla televisione. Anche quando l’utilizzo di Internet si conforma
più o meno all’immagine seducente di uno strumento democratico, la sua
importanza oggettiva resta limitata. Morozov insiste, ad esempio, sul fatto che
Facebook e Twitter, contrariamente alla legenda, non hanno giocato che un ruolo
marginale nel corso delle rivoluzioni che hanno scosso il mondo arabo nel 2012.
A suo parere, conviene ammettere serenamente il fatto che il mondo di Internet
resti nel migliore dei casi neutro rispetto ad alcuni mali classici
della vita delle società, come l’autoritarismo e l’estremismo, o, più
semplicemente, la stupidità, la menzogna e la manipolazione di massa. Morozov
lo esprime dicendo che noi abbiamo appreso in questi ultimi anni che, in fin
dei conti, Internet e il mondo numerico in generale non si trovino in una
situazione totalmente estranea in rapporto alla natura umana e alla vita
sociale come esse esistono realmente, e cioè in modo molto imperfetto5. L’emergenza di un nuovo medium di
comunicazione non è mai in se stesso la garanzia di trasformazioni sociali
univoche.
Certo, a pensarci bene, l’enorme questione di sapere se lo
sviluppo dello spazio pubblico numerico abbia avuto, o avrà degli effetti
tangibili in termini di addomesticamento del dominio sociale, di limitazione
delle ineguaglianze, o, più semplicemente, di miglioramento delle condizioni di
vita, noninvoca nessuna risposta semplice. Eppure, esistono degli elementi
chiari che vanno nel senso di un disincanto alla Morozov. Così, è possibile
chiedersi se, a lato del ruolo persistente degli Stati come dimostrato dallo
sviluppo costante della censura numerica, la velocità stupefacente con la quale
icolossi di Internet (ciò che si raggruppa alla buona sotto l’acronimo
GAFA – Google, Apple, Facebook, Amazon) sono arrivati a costituire dei
quasi-monopoli di scala mondiale non costituisca il segno, nella sfera
economica, di un’incapacità, forse ontologicamente costitutiva, propria
all’universo numerico: l’incapacità di emanciparsi da una logica di
concentrazione/intensificazione gerarchica della potenza che è stata al cuore
della modernità e di cui i promotori di Internet sentivano tuttavia bene
l’assurdità. Naturalmente, l’avvenire non è scritto da nessuna parte, e il
destino futuro di questi grandi monopoli attuali resta difficile da prevedere.
Sembra però che la maledizione moderna non sia stata del tutto scongiurata, e,
rispetto a tali rapporti di forza, è possibile pensare che essa non possa
esserlo indubbiamente.
Ma per quale ragione?
Il caso di Google ci fornisce qualche indicazione6. L’impresa Google non fabbrica
niente e non «accumula» neppure, almeno nel senso dell’economia politica
classica. Google mette semplicemente in atto i mezzi per appropriarsi e
diffondere alcune espressioni dell’intelligenza umana presente (i contenuti e i
comportamenti degli internauti in quanto essi possono migliorare le prestazioni
del motore di ricerca), ma anche, in modo complementare, alcune espressioni
dell’intelligenza umana passata (via Google Books) per metterle al
servizio di una serie indeterminata di fini redditizi possibili (la pubblicità
rimane la principale). Queste risorse sono poi, in sostanza, impiegate da altre
imprese. Stando al gioco in questa maniera, queste inoltre accrescono a volte
l’influenza della forma imprenditoriale sulla società, così come l’influenza
dell’éthos che vi si collega: esse naturalizzano e dunque stabiliscono la
situazione nella quale l’innovazione e lo scambio sono condizionati dal
profitto. Globalmente, il modello è pertanto quello, per niente inedito e anche
molto prosaico, della vendita dei servizi alle imprese, ma si diffonde e
si ramifica a partire da questa funzione fondamentale, benché in direzioni
diverse e nuove – fra le quali, il motore di ricerca non ne rappresenta
che la più conosciuta. È l’insieme delle prestazioni che si compiono seguendo
queste differenti direzioni (e di cui alcune implicano dei servizi gratuiti
offerti ai consumatori) che il mercato dei valori stimava, all’inizio del 2014,
della somma astronomica di 400 miliardi di dollari. In fondo, dal punto di
vista filosofico, è a questo prezzo che il mondo finanziario globale valuta ciò
che ha realizzato storicamente e ciò che realizza attualmente Google: riuscire
fondamentalmente a mettere al servizio delle imprese massimizzatrici, cioè
della logica del profitto, i risultati di una rivoluzione numerica che alcuni
intellettuali avevano creduto, del resto per buone ragioni, di orientamento
piuttosto anarchico, distributivo, quasi anti-capitalistico. Questo prezzo è
quello di un recupero tanto inatteso e rapido quanto perfettamente riuscito. In
qualche modo, è l’ammontare di una ricompensa.
Seguendo ciò che suggerisce questo esempio, vediamo quel che
non andava in Benkler o in Lessig. Essi hanno largamente sottovalutato la
capacità delle forme moderne di captazione della potenza (che si trovano al
cuore del capitalismo cieco, per esempio di tipo neoliberista, come sanno molto
bene sia l’uno che l’altro) di rinnovarsi e di rigenerarsi a contatto con le
innovazioni della rivoluzione numerica; forme che, così facendo, si sono
emancipate dai modelli caratteristici (ad esempio, i modelli legati all’impresa
industriale moderna) che implicano il predominio di alcune modalità determinate
di appropriazione e di creazione di ricchezza e potenza. Inoltre ciò che
potremmo dire seguendoMorozov, è che è probabile che le promesse di
Internet non siano state agevolmente sciupate dall’infelice intervento di forze
esteriori, ben conosciute e costituite già da prima, che avrebbero cominciato
per interesse a limitarne la portata rivoluzionaria7. Non esiste un’epoca d’oro di
Internet da rimpiangere. Ciò che è in gioco, è forse piuttosto una mutazione
dell’esercizio del potere e della potenza in generale, di cui l’arrivo di
Internet è, sin dall’inizio, allo stesso tempo l’elemento rivelatore e
acceleratore. Questa mutazione si manifesta per il fatto che, invece di
comprimere le forme emergenti, a volte promettenti, di produzione e di scambio,
come avevano fatto prima lo Stato e le grandi aziende, i nuovi attori economici
le liberano e ne incrementano alcune modalità per gestirle al meglio; essi non
sono in ogni caso perfettamente solidali. Una tale constatazione conferma
un’ipotesi euristica oggi largamente accettata dagli autori che cercano di
sviluppare le idee di Foucault: le forme post-disciplinari del potere hanno via
via la tendenza a specializzarsi nella definizione dei quadri, delle regole che
permettono il controllo dei flussi8. Esse definiscono i limiti di uno
spazio di gioco, anziché impegnarsi nel modellamento diretto (costoso in
energia e aleatorio nei suoi risultati) delle azioni e delle soggettività. In
breve, ciò che non hanno compreso Benkler et Lessig, è che l’intuizione
dualista e vitalista che guidava i loro sviluppi (da un lato, la stupidità
conservatrice dello Stato e dell’Impresa capitalista come noi li abbiamo
conosciuti, dall’altro, l’autonomia dinamica, anarchica, di una società civile
sveglia, connessa e critica) si trovava progressivamente invalidata dai fatti –
principalmente a profitto, possiamo dire, dell’impresa neoliberista di cui
Google fornisce una illustrazione parossistica.
La nostra tesi sarà che una tale situazione può essere colta
in gran parte richiamando insieme due grandi categorie classiche della teoria
sociale critica: lo sfruttamento (il fenomeno dell’appropriazione del
lavoro) e l‘alienazione (la situazione nella quale la vita sociale si
trova oppressa da forze separate e autonome, che esprimono qualcosa
dell’intelligenza e dell’energia umane).
2. Rivoluzione
numerica e metamorfosi del lavoro
La rivoluzione numerica ha accompagnato la reinvenzione
dello sfruttamento.
L’idea secondo cui la fase “neoliberista” del capitalismo si
caratterizzi per la rottura delle frontiere tra il lavoro e il non-lavoro è
comunemente ammessa. Può essere mostrata da numerosi fenomeni, tra i quali
l’allungamento del tempo di lavoro non costituisce che una modalità fra le
altre. Ad esempio, per l’imprenditore o per il manager, possedere un
telefono cellulare o un personal computer connesso significa già che le
occasioni di essere richiesto e sollecitato si moltiplicano indefinitamente,
oltre la durata del lavoro regolata dal diritto o dal costume. Viceversa, al di
là di questo dato socio-tecnico ben noto, la ridefinizione dell’impiegabilità
in termini di capitale umano implica che le competenze e le qualità trasversali
delle persone, quelle che si sono sviluppate fuori dal lavoro, divengano delle
carte vincenti indispensabili in un mondo del lavoro via via sottomesso alla
pressione concorrenziale. Tutto ciò ci invita a parlare a tal proposito delle
nuove forme di sfruttamento, in una maniera che si conforma assai chiaramente
alle ipotesi marxiane.
Ma non è solo questo.
Alcuni autori statunitensi parlano così di «lavoro clinico»,
designando con ciò un continuum di fenomeni in cui si raggruppano la
gestazione altrui, il dono di organi, il dono di cellule riproduttrici, la
partecipazione ai protocolli dei test per l’industria farmaceutica9. A loro avviso, è esemplare la
messa in servizio per contratto di se stessi a profitto delle imprese al di
fuori della classica relazione salariale; espressione, questa, di un
approfondimento dello sfruttamento che ormai sussume i cicli biologici e la stessa
corporeità vivente. Dello stesso parere, altri autori, come Trebor Scholz,
accennano oggi al «lavoro digitale»10. Questo sarebbe caratteristico del
Web interattivo (il Web 2.0), dominato da reti sociali e dal commercio
partecipativo. Acquistando su Amazon, cliccando “Mi piace” su
Facebook, navigando sotto la sorveglianza dei pedinatori automatici di Google e
di altri dispositivi panottici analoghi, l’internauta partecipa all’attività
redditizia di queste differenti imprese. Ad esempio, rende più efficace la
pubblicità mirata che costituisce il loro centro di gravità. Contribuisce senza
saperlo – indubbiamente meglio che il consumatore ingenuo, dipinto in modo
sarcastico dall’anticonsumismo degli intellettuali del XX secolo – a rafforzare
la loro posizione commerciale sul mercato dell’offerta dei servizi numerici.
L’estensione dello statuto di prosumer cambia la situazione11.
L’idea generale che emerge da queste ricerche sociologiche è
dunque che il lavoro, nel senso marxiano dell’utilizzo della forza lavoro nel
quadro di rapporti di classe che sono anche rapporti di forza, ha recentemente
imboccato molte vie al fine di liberarsi dal peso del
salario regolato, forma tipica del XX secolo, almeno nei paesi del vecchio
capitalismo. Innanzitutto, l’informalizzazione e il precariato, certamente. Ma
anche uno spazio di larga diffusione della subordinazione soft che ha
finito per invadere le pratiche quotidiane relative tradizionalmente al tempo
libero così come, alla base del mondo della vita, la stessa auto-riproduzione
biologica12. Nell’epoca di Internet, ci siamo
messi a lavorare gratuitamente (e docilmente) per alcune imprese, e questo
genere di lavoro si è esteso alla gran parte dei momenti della nostra vita. Con
una tale liquefazione generalizzata, ci si allontana del resto ancora di più
dalla violenza aperta, faccia a faccia, che Marx già sottolineava come si
celasse nel salario: qui le tracce della modernità disciplinare e carceraria,
ancora illustrata in maniera limpida dalla fabbrica fordista, sembrano
cancellarsi completamente. E ciò allorquando, peraltro, la mutilazione del
corpo, motivo ricorrente di famose analisi de Il Capitale, può ormai
esprimersi a volte molto apertamente, come quando, nel Sud del mondo, la
miseria obbliga la gente a vendere uno dei loro reni o a diventare delle cavie
da laboratorio per Big Pharma, senza alcuna rete di
protezione. Lo sfruttamento in Rete, più discreto che mai nelle sue
manifestazioni immediate, si connette in maniera indiretta al dominio di una
brutalità senza limiti.
Il nostro argomento può essere riassunto brevemente. Nel
recente universo numerico, proliferano delle pratiche che si intersecano o sono
molto vicine (almeno attraverso un legame di analogia) con ciò che promette,
nella sfera sempre determinante del lavoro, un neocapitalismo fluido, insidioso
e invasivo, ostile alle separazioni tracciate e alle delimitazioni protettrici.
Diremo che questi fenomeni segnano una metamorfosi parziale (poiché
possono sussistere le forme classiche) di ciò che Marx chiamava lo
sfruttamento. Così, sul piano epistemologico, la critica del lavoro sfruttato
(diciamo innanzitutto: del lavoro reso indebitamente appropriato di forza da
una classe dominante, e quindi incapace di farsi riconoscere socialmente nella
sua dignità e nella sua centralità) resta pertinente, anche indipendentemente
da quell’eccessiva esaltazione ontologica del lavoro in generale che il
marxismo ha a volte incoraggiato e che, di fatto, ha ostacolato numerosi
filosofi nel corso del XX secolo.
3. Alienazione
oggettiva
La critica dello sfruttamento può però, da un punto di vista
epistemologico, funzionare da sé? È poco probabile. Perché in realtà, nel
capitalismo, l’ingiustizia dello sfruttamento si associa spesso con l’irrazionalità
sociale dell’alienazione oggettiva. Non beneficiare del riconoscimento
(compresa la remunerazione) al quale il lavoro dovrebbe condurre, da una parte,
ed essere sottomessi a delle potenze estranee che, esprimendo qualcosa di noi,
fanno male le cose13 prosperando a nostre spese,
dall’altra, costituiscono due aspetti di una stessa organizzazione sociale.
Insistendo sul fatto che il capitalismo non privi soltanto il lavoratore di un
reddito legittimo, ma privi tutti (a cominciare dalla classe operaia) della
capacità di agire, di sviluppare le abilità, il sapere e la sociabilità
cooperativa, il marxismo “critico” del XX secolo, basato sul tema
dell’autonomia, vedeva perfettamente giusto14. Non è che l’impressionante
reinvenzione dello sfruttamento (come modalità dell’ingiustizia di
ripartizione), di cui il mondo numerico è stato il teatro di questi ultimi
anni, occulti una simile feconda articolazione. Però è questo il timore che si
prova nel leggere alcuni interpreti del digital labor, i quali, pur
soffocando la ricchezza delle antiche discussioni interne al marxismo,
sembrano comunque aver bisogno, in materia di teoria sociale, della categoria
dello sfruttamento15.
La nozione di alienazione oggettiva, quanto ad essa,
riassume una maniera particolare di concepire il mondo sociale che si è
affermata per la prima volta nelle opere del giovane Marx (i Manoscritti
economico-filosofici del 1844 e L’Ideologia tedesca). Quando qualcosa
del sociale si trova interrogata in funzione dell’idea o dell’immagine di una
obiettività che prende corpo, che prende consistenza, quindi si emancipa a
partire da un’attività primaria o anche da una vitalità iniziale, il modello
dell’alienazione oggettiva è all’opera: grazie ad esso, vediamo come le potenze
che si separano dalla vita e da un certo livello primordiale della pratica
sociale si formino e prosperino.
Beninteso, questo modello comporta un certo numero di difficoltà e di limiti. Ad esempio, non è concepito per tracciare un percorso verso i settori in cui la vita sociale è più segnata dal dominio e/o dalla violenza. Semplicemente, si impongono in questo caso altri strumenti teorici. Ugualmente, è certo che, nella sua stessa costituzione, esso oscilli tra un diabolico divenire altro delle «potenze indipendenti» dell’essenza alienante (esse sono ormai fuori portata, pure fonti dell’oppressione e della costrizione, lasciate al proprio dinamismo autistico) e una forma di indulgenza persistente nei loro confronti (dopo tutto, esse non sono completamente irrazionali; sono continuamente lo stesso tese ad esprimere il meglio dell’essere umano). Questa eredità dell’hegelismo non è indubbiamente debole. In ogni caso, è lontana dal poter chiarire tutto. Eppure, dal punto di vista filosofico, uno dei suoi vantaggi proviene ancora dal fatto che faciliti ampiamente il compito consistente nel rispondere alla difficile questione dei «fondamenti della critica». Parlando di una «potenza indipendente», alienata, detto altrimenti di una distanza presa in rapporto all’azione e alla vita primarie, indichiamo di colpo che la critica è possibile e in che modo lo è: essa si radica nell’intuizione secondo la quale l’emancipazione di alcune oggettività sociali, benché necessaria per certi aspetti, ha anche delle possibilità di degenerare, dando allora luogo a dei processi e a dei fenomeni problematici (nel senso in cui sbagliamo a riconoscerli). Ad esempio perché nefasti o semplicemente incontrollati. Perché portatori, comunque, di costrizioni evitabili e di spossessamenti imprevisti. La nostra tesi sarà che, nel mondo di Internet, a lato di altre esperienze, siamo confrontati in maniera particolarmente netta con l’esistenza di potenze autonome di questo genere che assorbono e sconvolgono l’intelligenza e l’energia umana, fissando le loro espressioni a nostra distanza, in più sensi (metaforici e non) di questo termine. Se un simile fenomeno può connettersi con lo sfruttamento del lavoro, questo legame non appare tuttavia né costante né necessario. Anche se resta centrale, il sentimento di spossessamento può nascere in occasione di altre esperienze rispetto a quella del lavoro monopolizzato da un gruppo sociale o da un’istituzione dominante.
Queste esperienze sono innanzitutto legate all’enorme
crescita del ruolo delle grandi imprese massimizzatrici dentro la vita sociale.
Sappiamo che la rivoluzione numerica ha conferito una certa
verosimiglianza al motivo, ricorrente da tempo nella letteratura e nel cinema
di fantascienza, di una rete universale che ingloba tutto, che sviluppa tutto,
condizionando i movimenti più intimi. Ma, con il Web così come si è evoluto
dall’epoca dei pionieri californiani e dei teorici libertari, questo scenario
si è realizzato sotto una forma molto singolare, che non implica del resto il
totalitarismo, nello stile dei regimi iper-dittatoriali del secolo scorso né
l’emancipazione assoluta della Tecnica. In sostanza, alcune imprese private si
sono prese l’onere di accumulare il sapere e la potenza (compresa la ricchezza)
che è loro legata. Queste hanno così preso in conto il compito di gestire a
loro profitto l’infittirsi degli scambi e la moltiplicazione delle possibilità
d’azione e di pensiero inerenti alla mondializzazione e agli avanzamenti
tecnici che vi si connettono. Ancora una volta, l’irruzione dei «giganti di
Internet», che si tratti di siti commerciali come Amazon, di siti di scambio e
di condivisione (eBay, Airbnb, …), di reti sociali come Twitter o Facebook,
fornisce degli indicatori molto chiari. Il loro successo riposa sempre su delle
varianti di un medesimo meccanismo che la categoria di «capitalismo cognitivo»,
troppo larga, non permette di cogliere. Ci si trova direttamente al centro
dell’iniziativa, della creazione, dello scambio e della comunicazione.
Più precisamente, ci si trova in un angolo strategico, laddove il traffico
è già o può diventare più denso, quindi, da questa posizione favorevole,
vengono sollecitate, canalizzate e organizzate le emergenze e i flussi nella
prospettiva della concentrazione imprenditoriale massimale di ricchezza e di
potere. Recentemente, sono certamente le startups dell’economia della
condivisione (ad esempio nell’ambito del carpooling) che hanno perseguito
l’esplorazione di questo terreno (i beni comuni emergenti, il centro della
comunicazione e dello scambio). Ma esse lo hanno fatto seguendo il movimento iniziato
dalle grandi aziende. In breve, non è la rivoluzione numerica in quanto tale –
la quale comporta molteplici dimensioni che nessun giudizio di valore è capace
di apprendere – che costituisce un fattore di alienazione sociale, privandoci
delle espressioni dell’intelligenza e dell’attività collettiva, ma la grande
azienda capitalista nella sua configurazione neoliberista, la quale investe
attivamente, ed efficacemente, gli strumenti e i risultati di questa
rivoluzione. Qui non è più la dimensione gerarchica e autoritaria
dell’organizzazione che pone il problema, ma la sua dimensione di cattura.
4. Per un
rinnovamento della nozione di alienazione oggettiva
Al contrario, la rivoluzione digitale fornisce l’occasione
di rinnovare il tema filosofico-sociologico dell’alienazione. Non si tratta di
limitarsi a riaffermare perentoriamente la sua validità. Perché a partire da
Marx, esso era rimasto dipendente da una semantica troppo semplice, se non
addirittura un può piatta. Vi è dapprima l’azione, l’intelligenza,
l’abilità e successivamente il sequestro delle espressioni di tutte
queste facoltà nei prodotti oggettivati. E questi prodotti, queste “opere”
rapprese (dai dispositivi inglobanti, dalle istituzioni, dalle norme, dalle
abitudini, dalle collettività, …), a volte, limitano e opprimono le facoltà in
questione. È così che, per i marxisti, l’azienda tipica del corporate
capitalismcostituisce una maniera deformata di organizzare il lavoro e la
cooperazione. Al peggio, queste “opere” si inscrivono nella dinamica
irrazionalmente espansiva delle entità (di cui lo Stato e la grande impresa
massimizzatrice hanno dato un’immagine paradigmatica in seno alla teoria
sociale critica) che muove il desiderio di perseverare nel proprio essere e di
ampliarsi a spese del loro comportamento per meglio affermare la propria
autonomia. Lo spettacolo che offre il capitalismo digitale così come è messo in
opera dalle grandi firme che dominano oggi Internet conferma l’esattezza del
motivo dell’Entfremdung.Ma invita anche a rivederne in parte il contenuto.
Filosoficamente non è in effetti indifferente che si abbia a che fare con una
caricatura e con una captazione stimolante della vitalità, piuttosto
che con una negazione repressiva. E non è neppure indifferente che ad
essere alienato sia un potere di agire che comporta delle
potenzialità tendenti verso delle modalità non-capitaliste dell’organizzazione
sociale ed economica. Apparentemente, la ricerca della traiettoria
capitalistica non implica dunque soltanto il parassitare delle forme sociali
tradizionali e precapitalistiche (la diagnosi di Rosa Luxemburg), ma anche
quello delle forme emergenti, atipiche, forme che sono parzialmente legate, in
alcuni attori, all’obiettivo riflessivo di una correzione, se non addirittura
di un superamento del capitalismo realmente esistente. C’è, in qualche modo,
cattura del possibile futuro, e non più soltanto di un passato sedimentato
nelle abitudini e nelle istituzioni.
Più concretamente, la forma di alienazione oggettiva inerente
al capitalismo numerico si caratterizza per un certo numero di aspetti
storicamente originali che possiamo raggruppare sotto quattro rubriche:
velocità, complicità, complessità, ambiguità.
-Velocità. Ciò che colpisce innanzitutto, è la grandezza e
la velocità stupefacenti del processo attraverso cui si pone, all’interno dello
spazio numerico, il terreno favorevole all’espansione delle «potenze
indipendenti» e attraverso cui queste ultime si installano e si sviluppano.
Tutte le cifre che riguardano Internet da vent’anni (l’aumento del numero di
internauti, l’aumento del volume del traffico, del numero dei siti, ecc.) danno
la vertigine: si tratta di fenomeni a livello storico assolutamente
incredibili. Tuttavia, non è solo questo. Così, possiamo sorridere davanti
all’arroganza ingenua del tale dirigente di Google (Larry Page, in questo caso)
che sentiamo strombazzare che ciò a cui mira la sua impresa sia rendere
universalmente accessibile tutto il sapere umano nel suo più intimo
dettaglio. Possiamo vederci la manifestazione di un fatto ben noto ai lettori e
alle lettrici di Marx: dietro l’apparenza di una “crescita” tranquilla, il
capitalismo ha per natura il bisogno di rilancipermanenti, di cambiamenti
di scala spettacolari, di fughe in avanti auto-rinforzanti. È comprensibile che
questa costrizione incontri presso alcuni lo spirito dell’eccessività, anche
quando questo non si è specializzato nell’avidità egoistica. Semplicemente,
diventa più chiaro ormai che una tale tendenza esercita anche un effetto di attrazione
irrefrenabile su dei settori via via numerosi della vita sociale: essa coopta,
mette sotto la sua orbita, dei fenomeni che, al primo approccio, sembrano
situarsi lontano dal mondo del profitto. Nella sociologia e nella filosofia
sociale contemporanea, questa constatazione dà luogo a delle orchestrazioni
teoriche ben note circa il tema dell’«accelerazione» e dell’«urgenza». Ma il
lato folgorante della dinamica espansiva inerente alla rivoluzione numerica in
corso cambia soprattutto la situazione per il pensiero dell’alienazione
oggettiva. Perché al cuore del mondo economico, quella dinamica, alla quale
partecipano i giganti della Rete, naturalizza il regime di accrescimento
esponenziale, che per Malthus, ad esempio, non apparteneva ancora che all’ordine
di una natura sregolata. Normalizza la collusione tra la potenza in generale e
l’espansione immediata, assoluta e irresistibile, un tempo probabilmente
limitata all’universo molto particolare della conquista militare. Rimodella
l’idea stessa di una forza indipendente che travolge dall’esterno, attraverso
la sola forza del suo successo, la società e le persone. Si produce pertanto
una saldatura tra l’alienazione oggettiva e la tendenza espansionista sfrenata.
-Complicità. Una delle difficoltà classiche che incontra
ogni filosofia sociale critica è quel che suscita l’adesione delle masse alle
situazioni che essa intende svelare: come si può sopportare e a volte
approvare, ossia far esistere, ciò che è oggettivamente nocivo? Nel XX secolo,
la risposta data a questa questione ha spesso riposato su una psicologia
segnata dalla prospettiva coerentista e da quella determinista. Se possiamo
amare, o almeno tollerare, ciò che e coloro che opprimono, se possiamo far
funzionare il Sistema contro i suoi propri interessi, si diceva, è perché la
personalità degli oppressi ne fa l’oggetto di una sorta di riprogrammazione
tale da ridefinirla interamente: abbiamo «interiorizzato» il dominio. Però, da
un lato, la rivoluzione numerica ha accompagnato un allargamento e un approfondimento
senza precedenti degli effetti di coinvolgimento, di complicità e di
connivenza: su Internet, accade molto spesso e molto esplicitamente che si
domandi alla gente di partecipare al funzionamento di quei dispositivi
oggettivamente alienanti che noi abbiamo menzionato ricordando l’azione dei
giganti del capitalismo numerico, al fine di alimentarli coinvolgendosi
coscientemente in questo compito e trovando quest’ultimo allo stesso tempo
razionale ed eccitante, inevitabile ed appassionante. I due fenomeni che
possiamo rilevare – al limite, i siti diventano le piattaforme destinate a
gestire i contributi volontari degli internauti; le imprese e le loro merci
riescono a farsi amare – risultano profondamente legati. Ma, dall’altro lato,
la rivoluzione numerica ha considerevolmente abbassato i costi di adesione
all’alienazione e ai dispositivi alienanti. Essa ha così permesso la
moltiplicazione, sotto l’egida della gratuità, e per mezzo di un sistema di
gratificazioni sofisticato, di incitazioni ad identificarsi con il medium che
li rende possibili e con gli attori che lo popolano. Ed essa ha fatto in modo
che il movimento di adesione divenga tanto semplice quanto immediato, senza
profondità psicologica. Se, per Adorno, bisognava essere una «personalità autoritaria»
molto pesante per stare al gioco dei regimi fascisti, far esistere e ingrandire
i colossi più o meno inquietanti di Internet è divenuta la cosa più semplice
del mondo, la più indolore. Qualche clic occasionale, qualche manipolazione
divertente sul computer, sono già sufficienti. E gli algoritmi fanno il resto.
-Complessità. Classicamente, la critica dell’alienazione
oggettiva sosteneva un programma teorico preciso: si trattava di svelare la
maniera in cui alcune oggettività sociali (se non addirittura un «Sistema»
tutt’intero) funzionassero mobilitando e al contempo reprimendo l’energia e
l’intelligenza umane. Se realizzare questo programma è diventato difficile
nell’epoca della rivoluzione numerica, è, tra le altre cause, perché il modo di
esistenza e di azione di queste obiettività è in corso di mutazione e di
sofisticazione permanenti. Si tratta inoltre probabilmente del cuore della
forma attuale della «razionalizzazione». Sempre più sapere e intelligenza si
trovano utilizzati dagli universi economici da cui dipendono le grandi aziende
di Internet – che si tratti di algoritmi, di management, di strategie di
marketing. Lungi dall’essere abbandonati ad una dinamica naturale di crescita e
di influenza, esse si sviluppano in maniera iper-riflessiva. L’alienazione non
è più sinonimo di vittoria dell’inerzia e di accecamento sull’iniziativa
intelligente e sul movimento.
-Ambiguità. In Morozov o in altri autori, lo scetticismo
davanti alla rivoluzione numerica si riferisce ad una serie di fenomeni impressionanti:
essa ha aperto immensi campi alla criminalità (fra cui la corruzione), allo
sfruttamento brutale, alla manipolazione di massa. Ma al di là di ciò che
implica l’allargamento di uno spazio pubblico critico, è facile vedere come
Internet formi anche un sostegno, così come uno spazio di sperimentazione e di
diffusione, simbolicamente denso, per delle esperienze di sottrazione alle
logiche capitalistiche centrali, favorendo un’innovazione sociale portatrice di
uno spirito di riflessività e di responsabilità contraria all’accecamento
neoliberista. Eppure, questo spazio critico è omogeneo, per molti aspetti, al
mondo inventato dalle grandi aziende massimizzatrici che noi abbiamo
identificato come le manifestazioni contemporanee più evidenti del principio di
alienazione sociale. Google e Facebook (o altri siti simili, di rivolta e di
ricerca di alternative etico-politiche) sono inoltre diventati indispensabili
all’esercizio e alla diffusione della riflessione critica. Questo fatto
aneddotico illustra bene l’idea che l’universo numerico veda la moltiplicazione
sconcertante di ambiguità e zone grigie, in cui l’affermazione trionfante
dell’alienazione e della sua contestazione si inseguono incessantemente,
mutuandosi l’una l’altra, e a volte si assomigliano e si sviluppano su uno
stesso terreno.
Conclusione
Da quando Feuerbach ha interpretato la credenza teologica
come il risultato di una proiezione fittizia delle migliori possibilità umane,
da quando il giovane Marx ha definito la «proprietà privata», e poi le «forze
produttive», come delle condensazioni illegittimamente rese autonome, e
automatizzate, dei risultati dell’attività umana creativa e intersoggettiva, il
modello dell’«alienazione», a lato di altri modelli, ha brillantemente
accompagnato la coscienza critica della modernità. Ha giocato, in particolare,
un ruolo cruciale nella messa in questione delle forme di organizzazione
razionale-gerarchica che si sono schiuse nel quadro dello Stato-nazione e
dell’Impresa massimizzatrice. La nostra conclusione è che tale concetto possa
continuare a farlo. In un certo modo, non è mai stato tanto fecondo quanto
oggi: senza rimpiazzare i più antichi, i fenomeni nuovi che vengono formandosi
gli danno assolutamente ragione. È ciò che noi comprendiamo, paradossalmente,
provando a trarre le conseguenze dalle novità tecno-sociali sbalorditive di cui
noi siamo contemporanei. Per certi loro aspetti, esse esprimono in effetti
niente di meno che una reinvenzione completa dell’alienazione oggettiva,
contribuendo a tracciare i contorni di un capitalismo di nuovo genere, che fa anche
emergere delle tensioni nuove.
Note
1Sulla storia di queste discussioni, vedi Fred Turner, From
Counterculture to Cyberculture, University of Chicago Press, 2008.
2L. Lessig, Il futuro delle idee (2001),
trad. it. di L. Clausi, Feltrinelli, Milano 2006.
3Y. Benkler, La ricchezza della
Rete (2006), trad. it. Università Bocconi editore, Milano 2007.
4E. Morozov, L’ingenuità della
Rete. Il lato oscuro della libertà di Internet (2011), trad. it. di M.
Renda e F. Ardizzoia, Codice edizioni, Torino 2011.
5F. Martel, Smart. Enquête
sur les Internets, Stock, Parigi 2014.
6Sull’analisi del fenomeno Google,
vedere soprattutto S. Vaidhyanathan, La grande G. Come Google domina il
mondo e perché dovremmo preoccuparci (2011), trad. it. a cura di I. Katerinov,
Rizzoli, Milano 2012.
7Questo grande racconto della
decadenza – dapprima lo stato di natura di un Internet libero, seguito
dall’intervento di potenze politiche ed economiche captatitrici – è stato
elaborato dai teorici dell’Internet libero. Lo si ritrova presso gli autori che
si allacciano al tema del capitalismo cognitivo. In realtà, vi erano
ambivalenze sin dall’inizio.
8S. Legrand, Les Normes chez
Foucault, PUF, Parigi 2007; F. Gros, Le Principe Sécurité, Gallimard,
Parigi 2012.
9M. Cooper, C. Waldby, Clinical
labor. Tissue Donors and Resarech Subjects in the Global Bioeconomy, Duke
University Press, 2014.
10Vedi T. Scholz (a cura di), Digital
Labor, Routledge, Londra 2012.
11Su queste questioni, vedere la
sintesi molto ricca di Anne-Marie Dujarier, Il lavoro del consumatore.
Come coproduciamo ciò che compriamo (2008), trad. it. di G. Tallarico e G.
Gerevini, pref. di G. Fabris, Egea, Milano 2009.
12Evidentemente, nel contesto post-Snowden,
sappiamo inoltre fino a che punto queste nuove forme di lavoro siano contigue
in rapporto alla costituzione di gigantesche database tanto che il minore dei
nostri gesti, ormai spesso legato ad un’apparecchiatura tecnica qualunque, può
contribuire ad alimentarlo.
13Per esempio privilegiando sempre il
gigantismo.
14Vedi ad esempio H. Braverman, Lavoro
e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel XX secolo (1974),
trad. it., Einaudi, Torino 1978.
15Come, ad esempio, Christian Fuchs.
Vedi Digital Labor and Karl Marx, Routledge, Londra 2014. Jaron Lanier,
informatico e saggista molto conosciuto negli Stati Uniti, fa ormai convergere
i differenti elementi della sua critica del web 2.0 e della sua mistica
caratteristica (la libertà, la condivisione, la simmetria, l’apertura, …) nella
rivendicazione di una giusta retribuzione del lavoro digitale. Vedi Who
Owns the Future?, Simon and Schuster, San José 2013.
Traduzione dal francese: Giovanni
Campailla
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