Nel primo l’accento sarà posto sulla critica dell’opposizione scienza/ideologia che prende le mosse da una problematizzazione interna alla storia delle scienze e al progetto foucaultiano di un’archeologia del sapere che non potrà essere compiutamente analizzata, ma fornirà lo sfondo per comprendere come questo tipo di critica dello schema binario scienza/ideologia verrà riproposta all’interno di un quadro tematico segnato dall’inizio degli anni ’70 da preoccupazioni genealogiche. Nel secondo gruppo si prenderà in esame il dialogo sotterraneo con le tesi di Althusser sugli apparati ideologici di Stato che viene criticato alla luce delle ricerche foucaultiane sull’emergere della società punitiva e lo strutturarsi di un potere psichiatrico. La terza tipologia di critiche raggrupperà i Corsi della seconda metà degli anni ’70 in cui l’ideologia come rappresentazione della realtà data dal posizionamento di classe è opposta alla produzione di un sapere che risulta co-implicato genealogicamente in un contesto fatto di lotte e di esigenze governamentali. Infine, la quarta tipologia si occuperà di sottolineare come un’analisi in termini ideologici possa essere criticata e sostituita da un’altra questione, ovvero in che modo del governo degli uomini si interseca con le modalità di manifestazione della verità nella forma della soggettività.
1. La critica dello schema scienza/ideologia tra archeologia e genealogia
Prima di inoltrarci in questa analisi bisogna tuttavia
innanzitutto soffermarsi una precisazione preliminare: le occorrenze della
nozione di ideologia negli scritti di Foucault mostrano come si abbia a che
fare con un concetto “scivoloso” nella misura in cui esso non è solo oggetto di
tematizzazione e di critica. Infatti, soprattutto in occasione di interviste o
di seminari, il riferimento all’ideologia appare in forme e modalità non
problematizzate. Accade così che Foucault per esporre le proprie posizioni
faccia riferimento a un significato corrente del termine che si riveli di
immediata comprensione per un certo tipo di interlocutore o un certo tipo di
pubblico2.
Se questo uso ordinario del termine ideologia non rientra nella nostra
ricostruzione, nondimeno esso non costituisce neppure l’unica limitazione di
campo a cui è sottomessa la presente analisi. Infatti, non potendo per evidenti
ragioni di spazio condurre una trattazione esaustiva della questione
dell’ideologia nell’intera opera di Foucault, la decisione di soffermarsi suoi
Corsi al Collège de France implica di tralasciare, da una parte, un esame
sistematico degli interventi, degli scritti d’occasione e delle interviste
contenuti principalmente nei Dits et écrits. D’altra parte, questa scelta
impone anche di mettere da parte una fase comunque molto importante per
l’elaborazione critica di questo concetto che è comunque presente in alcuni
rilevanti passaggi dei suoi libri degli anni ’60 come Le parole e le cose e
L’archeologia del sapere, ma che richiederebbe un lavoro specifico che in
questa sede non è possibile svolgere3.
L’angolo di attacco alla questione dell’ideologia è costituito dalla questione
della storia delle scienze, e la sua critica presuppone come sfondo, da un
lato, la tradizione della cosiddetta epistemologia storica francese4 (soprattutto
in relazione a Bachelard e Canguilhem5 )
e, dall’altro, le elaborazioni del rapporto scienza/ideologia sviluppate
all’interno di un quadro di analisi marxista da Althusser6.
La scelta di limitarsi ai Corsi ha però il merito di
soffermarsi su materiali ancora poco analizzati rispetto ai libri degli anni
’60 e restituisce senza dubbio un respiro più ampio alla problematizzazione
complessiva che Foucault ha fornito della nozione di ideologia. In ogni caso,
pur mettendo da parte la dimensione archeologica entro cui l’ideologia viene
messa in questione dalle opere degli anni ’60, il riferimento ad Althusser
resta nondimeno centrale anche per comprendere come Foucault continui a
elaborare tutta una molteplicità di prospettive critiche su questo concetto
all’interno delle sue lezioni al Collège de France. Non sembra infatti casuale
che l’unico riferimento bibliografico puntuale presente nell’introduzione
de L’archeologia del sapere, quando Foucault passa in rassegna i vari
fenomeni di rottura epistemologica prodottisi recentemente in un gran numero di
discipline (storia, filosofie, scienze), sia proprio Per Marx di
Althusser, menzionando il «lavoro di trasformazione teorica quando esso “fonda
una scienza staccandola dall’ideologia del suo passato e rivelando questo
passato come ideologico”»7.
La trasformazione teorica che per Althusser la scienza
assicura producendo delle conoscenze vere non agisce solo retrospettivamente,
verso il passato, configurando le teorie che precedono l’affermarsi di una
scienza come la propria «preistoria», ma opera anche nel presente,
trasformando «in “conoscenze” (verità scientifiche) il prodotto ideologico
delle pratiche “empiriche” (l’attività concreta degli uomini) esistenti»8.
La scienza diventa quindi la condizione di possibilità di accesso alla
conoscenza intesa come verità scientifica, configurando uno schema binario in
cui da una parte sta la scienza/conoscenza/verità e, dall’altra,
l’ideologia/errore/illusione. Questo schema binario “scienza vs ideologia” non
costituisce soltanto il punto di partenza della critica foucaultiana
dell’ideologia all’interno del progetto archeologico degli anni ’60. A partire
dall’inizio degli anni ’70 e, più in particolare, dal primo Corso tenuto da
Foucault al Collège de France, pubblicato col titolo di Lezioni sulla
volontà di sapere, tale schema viene messo in discussione anche secondo una
prospettiva genealogica9.
Nell’interpretazione della filosofia Nietzsche che Foucault
fornisce in questo corso viene infatti proposto un rovesciamento polemico,
dagli esiti all’apparenza paradossali, di questo schema binario. Attraverso una
rivisitazione in chiave anti-heideggeriana dei rapporti tra sapere, verità e
conoscenza, Foucault colloca Nietzsche non già al culmine della tradizione
filosofica occidentale secondo un asse che congiungeva idealmente Aristotele,
Cartesio e Kant (come aveva fatto Heidegger), ma su una linea di sviluppo
alternativa in cui Nietzsche giungerebbe invece a mostrare la disimplicazione
fondamentale tra verità e conoscenza10,
sottolineando come, dietro questo legame che appariva inscindibile, operi
invece il desiderio, l’istinto e la violenza. In questo senso, la verità cui
giunge la conoscenza si mostra paradossalmente come il suo contrario, come
menzogna. Pertanto, questa conoscenza non è più legata alla verità ma a un anonimo
voler conoscere tramato di violenza.
Questa disimplicazione di conoscenza e verità pone così la
questione del rapporto tra la verità e la volontà. In effetti, seguendo
Heidegger, Foucault ricorda che nella tradizione filosofica occidentale, la
volontà non può che consistere nel lasciar valere la verità. In altri termini,
perché ci sia conoscenza la volontà deve annullarsi, fargli posto, non
predeterminando in quanto volontà nessun oggetto di conoscenza. La verità
risulta quindi libera rispetto alla volontà non ricevendo da essa alcuna
determinazione, così come, specularmente, anche la volontà deve essere libera
per poter far posto alla verità e deve pertanto rinunciare al desiderio che le
è implicito11:
la libertà sarebbe così al cuore della verità (sarebbe l’essere della verità12. Questa
libertà articolerebbe così volontà e verità: 1) nell’hòmoiosis tò theò in
Platone; 2) nel carattere intellegibile di Kant; 3) nell’apertura dell’Essere
in Heidegger (L’Essenza della verità).))) e costituirebbe al tempo stesso il
dovere della volontà. Secondo Foucault per Nietzsche questo rapporto tra volontà
e verità potrebbe invece articolarsi solo all’insegna della costrizione e della
dominazione, così al posto della libertà si troverebbe piuttosto la violenza.
La critica nietzschiana renderebbe allora impossibile «tutta un’“ideologia” del
sapere come effetto della libertà e ricompensa della virtù»13.
Il rapporto tra volontà e verità garantito dalla libertà dovrebbe al contrario
essere considerato come il regno della menzogna, dell’illusione,
dell’ideologia, in quanto l’effettiva l’articolazione della volontà e della
verità è data dalla violenza. Attraverso questa interpretazione di Nietzsche,
Foucault cerca pertanto di rovesciare le coppie verità/errore, verità/illusione
e verità/menzogna, in modo che la verità che si vuole come il prodotto, il fine
e il compito “naturale” della conoscenza, si rivela invece il suo contrario,
ovvero l’ideologia. Inoltre, questo vuol dire che non solamente la conoscenza
non è ritenuta capace di liberare la verità dall’errore, dall’illusione, ma che
la sua co-implicazione con la volontà, fa sì che la produzione di verità che
essa rende possibile, in realtà, si avvolga sempre di più nell’errore,
nell’illusione, nell’ideologia.
2. La critica degli apparati ideologici di Stato
Nei successivi Corsi al Collège de France nella prima metà
degli anni ’70 , il dialogo con Althusser continua a restare sotteso alla
problematizzazione della nozione di ideologia. Tuttavia, tale dialogo non si
svolge più all’insegna della critica allo schema binario verità/ideologia, ma a
partire da una concezione del potere che fa ricorso all’ideologia all’interno
di una prospettiva basata sulla centralità dello Stato e dei suoi apparati, e
in cui, peraltro, è possibile riconoscere alcune importanti argomentazioni del
celebre e influente saggio di Althusser pubblicato nel 1970 col titolo
di Ideologia ed apparati ideologici di Stato14.
In questo contesto ritroviamo la critica della nozione di ideologia il 28 marzo
1973, nell’ultima lezione del Corso su La société punitive15. In questa sede Foucault, si interroga su come
l’istituzione della prigione e con essa la pratica della reclusione come forma
prevalente di punizione si siano entrambe affermate all’inizio del XIX secolo.
Non potendo dedurle né dalle teorie penali formulate nel secolo precedente, né
da una sociologia storica della delinquenza (dal momento che i crimini con
l’istituzione della prigione non diminuiscono, anzi si innalza semmai il tasso
di recidività), Foucault si chiede in quale sistema di potere possa funzionare
la prigione. Per rispondere a tale questione “per esclusione”, vengono scartati
ben quattro schemi teorici per pensare il potere nella misura in cui essi si
rivelano inadeguati per spiegare la diffusione dell’istituzione carceraria.
È proprio in ognuno di questi schemi che si può ritrovare
una critica a quella linea di continuità sviluppatasi nella tradizione marxista
che va da Lenin all’Althusser diIdeologia ed apparati ideologici di Stato. In effetti,
il primo di questi schemi da rigettare è quello «teorico dell’appropriazione
del potere», per cui il potere – inteso come qualcosa che si possiede e che può
esser “preso” – sarebbe da pensarsi o come appannaggio di una classe (la
borghesia) o come l’esito di un contratto sociale. Per Foucault questo schema è
da rigettare in quanto il potere non è localizzabile in un punto ma è invece
diffuso in tutta la superficie del campo sociale, passa attraverso delle reti e
si esercita su (e da) tutta una molteplicità di punti. È per tale ragione che
esso non può essere preso o posseduto. Nel secondo schema preso in esame
l’obiettivo polemico costituito dalle analisi althusseriane comincia a farsi
sempre più evidente16,
dal momento che il potere sarebbe concepito come essenzialmente localizzato
nello Stato e nei suoi apparati. Rispetto a questa prospettiva Foucault ricorda
come lo Stato è tutt’al più una forma concentrata, o una struttura d’appoggio
per il potere, ma che non esaurisce di certo il campo entro cui questo viene
concretamente a esercitarsi. Il terzo schema a essere analizzato è quello della
subordinazione, secondo cui il potere sarebbe subordinato a «una certa maniera
di mantenere o di riprodurre un modo di produzione»17. Ma anche in
questo caso, secondo Foucault, l’esercizio effettivo del potere va molto più in
là di questa semplice funzione: «Il potere non può dunque più essere compreso
soltanto come ciò che garantisce un modo di produzione, come ciò che permette
di costituire un modo di produzione. Il potere in pratica è uno degli elementi
costitutivi del modo di produzione e funziona al cuore di quest’ultimo»18. Su questo
punto cfr. anche P. Macherey, Il soggetto produttivo. Da Foucault
a Marx, Ombre Corte, Verona 2013.)) . Nel quarto schema, troviamo
finalmente lo schema dell’ideologia per cui o il potere funzionerebbe in modo
manifesto senza essere accompagnato da alcun discorso nella sua forma violenta
e repressiva, oppure si eserciterebbe in maniera discorsiva, nascondendosi e,
attraverso lo stesso gesto, facendosi accettare tramite la produzione di
un’ideologia19. A
questo schema Foucault oppone il fatto che ovunque il potere si eserciti esso
non produce un’ideologia che lo dissimulerebbe, quanto piuttosto un sapere che
con il potere intrattiene dei rapporti positivi e complessi che permettono al
potere di intensificare la sua forza strategica e la sua pervasività mediante
un aumento della sua razionalità calcolatrice20.
Foucault si mantiene nel solco di questo tipo di critica
dell’ideologia, nella cui filigrana si intravedono le pagine di Ideologia
ed apparati ideologici di Stato di Althusser, anche nell’autunno dello
stesso anno, durante la lezione del 7 novembre che inaugura il suo Corso
successivo al Collège de France su Il potere psichiatrico. Quello che cambia
è il quadro tematico, che è stavolta costituito dalla pratica manicomiale e il
potere psichiatrico. Anche se il termine “ideologia” non è esplicitamente
menzionato, Foucault si sofferma sul rifiuto di impiegare tre nozioni, quella
di violenza, quella di istituzione e quella di famiglia intesa tuttavia come
apparato ideologico, nella misura in cui egli afferma che sarebbe «falso
sostenere, come spesso invece accade, che la pratica manicomiale e il potere
psichiatrico altro non facciano se non riprodurre la famiglia nell’interesse, o
in forza della richiesta, di un determinato controllo pubblico, organizzato da
un apparato di Stato. Non è l’apparato statale a poter servire da fondamento,
né la famiglia a poter fungere da modello». In questa sede Foucault ribadisce
che la nozione di apparato di Stato è eccessivamente ampia ed astratta per
designare «questi poteri immediati, minuscoli, capillari, che si esercitano sul
corpo, sul comportamento, sui gesti, sul tempo degli individui. L’apparato di
Stato non può rendere conto di questa microfisica del potere». Per tale ragione
al posto della violenza Foucault propone di sostituire una microfisica del
potere, al posto dell’istituzione le tattiche messe in opera dalle forze che si
affrontano, e al posto della famiglia o dell’apparato statale ci sono invece le
strategie dei rapporti di potere e gli scontri all’interno della pratica
psichiatrica21.
In questo senso è da leggere anche un breve richiamo presente nel manoscritto
relativo alla lezione del 21 novembre 1973, in cui Foucault sostiene che il
potere disciplinare che agisce alla stregua di un «contatto sinaptico
corpi-potere», lasciando da parte «il problema dello Stato, degli apparati di
Stato, e [facendo] a meno della nozione psicosociologica di autorità»22, in cui è ravvisabile un
riferimento a una matrice freudo-lacaniana alla base della celebre concezione
althusseriana dell’ideologia come “interpellazione” che trasforma l’individuo
in soggetto23.
3. L’ideologia come rappresentazione falsata e il sapere/potere
Nei Corsi della seconda metà degli anni ’70, Foucault sembra
considerare la nozione di ideologia non più in riferimento agli apparati
ideologici di Stato di Althusser, bensì in un senso più neutro e meno
caratterizzato, come visione del mondo, come rappresentazione o come idea più o
meno falsata e menzognera, prodotta da una posizione di classe all’interno di
un contesto dinamico segnato genealogicamente dal conflitto e dalle sue
esigenze di tattica e di strategia. Si tratta di una concezione dell’ideologia
che, in ultima analisi, Foucault critica opponendola al sapere (e alla sua
coimplicazione col potere). A partire da questa prospettiva leggermente
diversa, ritroviamo la critica dell’ideologia nel Corso “Bisogna difendere
la società”, durante la lezione del 14 gennaio 1976. In questo frangente,
Foucault si pone il problema di approntare una griglia per l’analisi del potere
che eviti “la trappola” della teoria giuridico-politica della sovranità al fine
di far apparire, nel cuore della problematizzazione genealogica del diritto,
non già la sovranità, ma una particolare modalità di dominazione e di
assoggettamento, ovvero il potere disciplinare. Ma una tale griglia analitica
richiede un certo numero di precauzioni, Foucault ne elenca cinque di cui,
l’ultima di queste, fa riferimento ancora una volta alla questione
dell’ideologia. Più in particolare, Foucault si chiede se «i grandi macchinari
del potere siano stati accompagnati da produzioni ideologiche». Ovviamente
anche in questo caso la risposta è negativa: «non credo che quel che si forma
alla base, nel punto terminale dei reticoli di potere, siano delle ideologie
[…] Sono degli strumenti effettivi di formazione e di accumulazione del sapere,
sono dei metodi di osservazione, delle tecniche di registrazione, delle
procedure di indagine e di ricerca, degli apparati di verifica. Tutto questo
vuol dire che il potere, quando si esercita nei suoi meccanismi sottili, non
può farlo senza formare, organizzare e mettere in circolazione un sapere o
piuttosto degli apparati di sapere che non sono semplici accompagnamenti o
edifici ideologici»24.
Durante lo stesso Corso, all’inizio della lezione del 3 marzo del 1976, Foucault ricorda invece come l’emergere del discorso storico-politico proprio della reazione nobiliare contro la monarchie a ridosso della Rivoluzione «non deve essere considerato come l’ideologia o il prodotto ideologico della nobiltà e della sua posizione di classe. Difatti, non si tratta qui tanto di ideologia, ma di qualcos’altro […] la tattica discorsiva, un dispositivo di sapere e di potere che, proprio in quanto tattica, può risultare trasferibile e quindi diventa la legge di formazione di un sapere, e nello stesso tempo, la forma comune alla battaglia politica»25. Pertanto anziché di ideologia per Foucault si tratterebbe semmai di una generalizzazione tattica del sapere storico, del discorso sulla storia. Infine, nell’ultima celebre lezione, quella del 17 marzo 1976 in cui Foucault affronta la questione del razzismo di Stato, viene sostenuto che la specificità di questa forma di razzismo non è legata né alla mentalità, né all’ideologia, né alle menzogne del potere, bensì a una specifica tecnologia di potere che è la biopolitica che si interseca con la disciplina all’interno delle società di normalizzazione26.
Queste analisi incentrate sulla biopolitica sono, del resto,
ulteriormente sviluppate anche nel Corso successivo, Sicurezza,
territorio, popolazione, il cui tema generale è la storia della
governamentalità, della razionalità e delle tecnologie di governo. Più in
particolare, l’esigenza di smarcarsi da un’analisi in termini di ideologia
appare quando viene trattata l’apparizione dei dispositivi di sicurezza nella
seconda metà del XVIII secolo. Così, alla fine della lezione del 18 gennaio
1978 Foucault si interroga sullo statuto che assume la libertà sia in quanto
elemento fondamentale delle politiche liberali, sia come condizione storica di
possibilità della diffusione dei dispositivi di sicurezza. In questo contesto
viene rilevato come non si abbia più a che fare con una disciplina che deve
correggere una presunta natura malvagia dell’uomo, rendendo quest’ultimo
conforme a un modello prestabilito, che infine lo limiterebbe nell’esercizio
della propria libertà. Quello che invece viene messo al centro è l’idea che da
un punto di vista governamentale liberale risulterebbe troppo costoso
costringere tutta una serie di fenomeni d’insieme, siano essi naturali o
sociali, all’interno di un modello rigidamente disciplinare. Pertanto è meglio
che tali fenomeni siano lasciati liberi di operare al fine di consentire un
dispiegamento più ottimale delle forze economiche del mercato. Per questa
concezione della governamentalità è quindi preferibile far giocare ciascuna
forza o ciascun fenomeno uno contro l’altro senza porsi l’obiettivo primario di
modellare ognuno di essi. La metafora del dar libero corso a delle forze che
agiscono come quelle della fisica si traduce, ad esempio sul piano sociale, in
una libertà di circolazione (degli uomini, della forza-lavoro, delle merci,
ecc.) che deve essere esente da regolazioni se non quando essa dà luogo a
qualcosa che è ritenuto negativo, sbagliato, poiché supera certi valori
statistici che giocano il ruolo di norma: è qui che entrano in gioco i
dispositivi di sicurezza. Nelle politiche liberali tutto questo processo si
accompagna a una rivendicazione generale della libertà con tutta una retorica i
cui effetti sono ancora oggi chiaramente percepibili. Rispetto a questa
invocazione di libertà Foucault si chiede se non sia il caso di considerare
quest’ultima alla stregua di un’ideologia, visto che il governo liberale degli
uomini sarebbe «incapace di operare senza trovare nella libertà di ognuno il
proprio sostegno»27.
Ma proprio in virtù di queste analisi sul funzionamento delle tecnologie di
potere del liberalismo e sulla loro economia interna fatta di pratiche che
Foucault dirà «consumatrici di libertà», si torna a ribadire: «Non si tratta
essenzialmente di un’ideologia in senso proprio; direi che si potrebbe leggere
in primo luogo come una tecnologia di potere»28. In altri
termini, al massimo, si può parlare di ideologia della libertà solo nella
misura in cui essa risulta correlata a delle tecnologie di governo e alle sue
modalità di funzionamento.
Proseguendo l’esame del liberalismo anche nel corso
dell’anno successivo, Nascita della biopolitica, nella lezione del 17
gennaio 1979, Foucault propone di studiare il mercato come un regime di
veridizione. Quest’ultimo, viene rilevato, «non coincide con una certa legge
della verità, [ma] con l’insieme delle regole che consentono, a proposito di un
discorso dato, di stabilire quali sono gli enunciati che potranno esservi
caratterizzati come veri o falsi»29.
Intendere il mercato come un regime di veridizione significa inserirlo a sua
volta in una genealogia di regimi veridizionali in cui si intrecciano verità e
diritto e in cui appare storicamente un diritto alla verità che autorizza a
«enunciare quel che può essere vero o falso». Questa impresa genealogica viene
distinta dall’ideologia, e dall’opposizione verità/ideologia, in quanto è «una
storia della verità che non va intesa, ovviamente, come ricostruzione della
genesi del vero attraverso la serie degli errori eliminati o rettificati, né
come analisi della costituzione di un certo numero di razionalità storicamente
successive, il cui ordine e la cui coerenza sarebbero assicurate dalla
rettifica o dall’eliminazione delle ideologie», quindi nessuna «storia
dell’errore, o la storia delle ideologie»30. Foucault si propone quindi di
fare a meno di quella «critica della razionalità europea», ripresa dal
romanticismo fino alla Scuola di Francoforte, che denuncerebbe quel che di
oppressivo si troverebbe sotto il dominio della ragione, mettendo a nudo la
presunzione di potere implicita in ogni verità riconosciuta. La prospettiva di
Foucault, al contrario, intende dare a questa genealogia della verità una
«portata politica», e «consiste, invece, nel determinare a quali condizioni e
con quali effetti si esercita una veridizione, vale a dire, ancora una volta,
un tipo di formulazione che dipende da determinate regole di verificazione e
falsificazione»31. Foucault fa quindi l’esempio della follia: «guardate come è
oppressiva la psichiatria, dato che è falsa; e neppure nel dire, con una
formulazione più sofisticata; guardate com’è oppressiva dato che è vera. Si
tratterebbe, piuttosto, di riconoscere che il problema e rendere visibili le
condizioni che si sono dovute osservare per poter tenere sulla follia – ma
sarebbe lo stesso per la delinquenza, per il sesso ecc. – dei discorsi la cui
eventuale verità o falsità dipende dalle regole, di volta in volta, delle
medicina, della confessione, della psicologia, della
psicoanalisi», Ibidem, pp. 37-38 (trad. it. p. 43). Foucault si concentra
allora su un regime di veridizione e non sulla genesi della verità o sulla
memoria degli errori al fine di approntare un tipo di analisi che abbia una
effettiva portata politica.)). Dunque in questo passaggio la critica
dell’ideologia è ripresa all’interno del rifiuto delle opposizioni tra verità e
ideologia, verità ed errore, verità ed illusione che si erano già incontrate nei
Corsi precedenti, ma in riferimento a un quadro problematico diverso, ovvero
l’emergere della razionalità governamentale del liberalismo.
4. L’ideologia e la manifestazione della verità nella forma della soggettività
Nel Corso del 1980, Del governo dei viventi, il rifiuto
di un’analisi in termini di ideologia è articolato a partire da un nuovo angolo
di attacco, centrato sui rapporti tra verità e soggettività. Si tratta qui di
un passaggio fondamentale per comprendere l’orizzonte tematico in cui il cosiddetto
“ultimo Foucault” affronta la questione della verità durante gli anni ’80.
Innanzitutto bisogna premettere che in questo Corso, con uno scarto che è
tipico della sua maniera di procedere nelle sue ricerche, Foucault sostiene che
per studiare come il potere si esercita (all’interno del regime di verità del
cristianesimo) bisogna prendere in considerazione anche il modo in cui la
verità si produce e si manifesta. Più esattamente risulta fondamentale che
questa verità sia studiata per come si manifesta, dice Foucault, «nella forma
della soggettività» – in cui cioè la soggettività figura come l’operatore,
spettatore (o testimone) e l’oggetto di questa manifestazione32,
mostrando così come il modo in cui la verità si manifesta nella forma della
soggettività – che Foucault chiama “aleturgia” – produce degli effetti che
vanno ben al di là della semplice conoscenza, essendo dell’ordine della
salvezza o, secondo un lessico concettuale più secolarizzato, della
liberazione. Per tale ragione Foucault si chiede come si possano studiare le
configurazioni storiche che nella nostra civiltà occidentale hanno assunto i
rapporti tra il governo degli uomini, la manifestazione della verità nella
forma della soggettività e la questione della salvezza33.
Questi rapporti tra governo, verità, soggettività e
salvezza, ricorda Foucault, sono stati già indagati attraverso la nozione di
ideologia, nel senso che il governo degli uomini sarebbe possibile attraverso
ciò che essi manifestano senza alcuna costrizione nella forma immaginaria della
salvezza, ovvero proprio nella misura in cui ritengono verità quello che
sarebbe soltanto opera della loro immaginazione e pertanto vi si
sottomettono spontaneamente, rendendosi così governabili in virtù di questa
stessa sottomissione alla verità34. Ma questo modo di mettere
le cose appare insufficiente agli occhi di Foucault viste le discrepanze
registrate da numerose ricerche storiche sui rapporti tra rivoluzione e
religione. Inoltre, questo modo di vedere le cose, inscrive tale analisi in
termini di ideologia entro una questione più ampia e generale che Foucault
chiama “filosofico-politica”, ovvero:
«quando il soggetto si sottomette volontariamente al legame con la verità, in un rapporto di conoscenza, quando cioè pretende, dopo essersi dato i fondamenti, gli strumenti, le giustificazioni, di fare un discorso di verità – a partire da qui, che cosa può dire a proposito, a favore o contro il potere che lo assoggetta senza che lui lo voglia? In altre parole, il legame volontario con la verità che cosa può dire sul legame involontario che ci fa aderire e ci piega al potere?»35.
Insoddisfatto dai termini in cui è posta tale questione
Foucault cerca quindi di capovolgerla: non si tratta di partire dalla garanzia
di un diritto all’accesso alla verità, né di presupporre prima di ogni altra
cosa la sussistenza di un legame volontario e contrattuale con la verità, bensì
di chiedersi innanzitutto:
«che cosa ha da dire la messa in questione sistematica, volontaria, teorica e pratica del potere riguardo al soggetto di conoscenza e al legame con la verità con cui egli si trova involontariamente annodato? Non si tratta più di dirsi: essendo dato il legame che mi lega volontariamente alla verità, che cosa posso dire del potere? Ma: essendo dati la mia volontà, decisione e sforzo di sciogliere il legame che mi lega al potere, che ne è allora del soggetto di conoscenza e della verità? Non è la critica delle rappresentazioni in termini di verità o di errore, in termini di verità o di falsità, in termini di ideologia o di scienza, di razionalità o di irrazionalità, che deve servire da indicatore per definire la legittimità del potere o per denunciare la sua illegittimità. È il movimento per liberarsi dal potere che deve fare da rivelatore delle trasformazioni del soggetto e del rapporto che questi mantiene con la verità»36.
Si tratta di un passaggio molto rilevante che meriterebbe di
certo delle analisi più approfondite che non possiamo tuttavia svolgere in
questa sede. Quello che ci limitiamo a notare è che qui la soggettività viene
messa in relazione a un atteggiamento critico che individua, nello stesso
processo di assoggettamento a una verità, uno spazio di un intervento di sé su
sé, una possibilità di trasformazione della soggettività attraverso questa
soggettività stessa. Si tratta insomma di quel che, del resto, sarà al centro
delle preoccupazioni etico-politiche delle ultime ricerche di Foucault. Da
questa nuova prospettiva, a un’analisi in termini di ideologia, Foucault oppone
lo studio dei regimi di trasformazione del rapporto che la soggettività
intrattiene con la verità, e che è operato dalla stessa soggettività. La
possibilità di questo governo di sé non è tuttavia ancorata a una dimensione solitaria
della soggettività, ma ha luogo sempre in relazione a un universo sociale di
riferimento in cui prendono senso tutti gli sforzi di elaborazione del sé.
Dopo il passaggio appena riportato, Foucault adduce degli
esempi per mostrare come un’analisi ideologica parte sempre da qualcosa che si
dà come già costituito, originario, quasi naturale, ovvero che si dà come un
universale (la follia, l’uomo), per poi domandarsi «a quali motivazioni e a
quali condizioni obbedisce il sistema di rappresentazione che ha condotto a una
pratica», come ad esempio quella della reclusione da Foucault ampiamente
investigata37. Al contrario, un’analisi
centrata sulla convinzione che il potere non sia necessario – una prospettiva
che Foucault chiama «anarcheologia» – parte dalle pratiche e dal sapere messi
storicamente in atto dal governo degli uomini e le considera nella loro
contingenza e nella loro costitutiva fragilità, al di là di ogni universale che
si potrebbe ideologicamente supporre alla base. Si tratta quindi di comprendere
l’intelligibilità di questo potere a partire da ciò che a questo potere sfugge,
da quel che Foucault chiama i suoi «punti di non-accettazione», per reperire
infine delle tecnologie di potere piuttosto che un programma ideale e
ideologico di riforma38.
Al di là di questi esempi, l’attenzione alla trasformazione
del rapporto con la verità che una soggettività può divenire in grado di
produrre su stessa attraverso se stessa, costituisce il nuovo asse lungo il
quale si assesta questa nuova formulazione della critica dell’ideologia anche
nel Corso dell’anno successivo, intitolato non casualmenteSubjectivité et
vérité39.
Qui l’interesse di Foucault verso una storia della soggettività occidentale si
sofferma su quello che viene considerato un punto di svolta decisivo. Si tratta
dell’epoca dello stoicismo romano, quando si verifica una diffusione della
pratiche matrimoniali e una fissazione di norme giuridiche molto rigorose
relative alla vita di coppia (le spose acquisivano dei nuovi diritti e
l’adulterio veniva pesantemente condannato). In questo quadro Foucault si
interroga su quale rapporto sussista tra i discorsi filosofici che
prescrivevano l’osservanza di un determinato codice di comportamento se la
realtà delle pratiche matrimoniali a cui queste prescrizioni si riferivano
avevano già effettivamente luogo nella società. In altri termini, questo
discorso prescrittivo non era forse «di troppo»?40Alla
luce di questa coincidenza tra prescrizione ed effettivo andamento della
realtà, in che cosa consisterebbe il supplemento che il discorso apporta al
reale attraverso il puro fatto della sua enunciazione?
Nella lezione del 18 marzo 1981 Foucault passa in rassegna
tre modalità di concepire questo rapporto tra i discorsi e le pratiche reali:
«il raddoppiamento della rappresentazione», «la denegazione ideologica» e
infine «la razionalizzazione universalizzante». Secondo la modalità della
denegazione ideologica, il discorso filosofico sul matrimonio costituisce
«l’elemento attraverso cui il reale non viene detto»41, e la sua
natura prescrittiva serve solo da giustificazione ideologica che occulta, che
impedisce di cogliere, che «schiva», una realtà materiale sottostante.
Quest’ultima sarebbe infine costituita dalla scomparsa delle strutture
economico-politiche della polis e delle sue istituzioni familiari,
per cui la perdita di potere e la mancanza di sicurezza che ne derivavano in
seguito all’affermazione dell’Impero, avevano fatto sì che la vita coniugale si
fosse costituita come l’unico rifugio possibile. Questa processo subirebbe nel
discorso filosofico uno «spostamento verso l’idealità»42,
trasformando una pratica reale già esistente e causata
da altri processi in un obbligo morale da prescrivere. Nondimeno,
Foucault giunge a respingere questa prospettiva perché in fondo il reale che
verrebbe occultato, taciuto, dal discorso non è il reale di cui il discorso
filosofico intende effettivamente parlare, ma «la causa che l’analisi
ideologica attribuisce, retrospettivamente e ipoteticamente al reale». In
questo senso, si presuppone che «sotto una forma capovolta, l’idea che
l’esistenza di un discorso è sempre funzione del rapporto del discorso alla
verità […], in rapporto a quel che sarebbe l’essenza, la funzione, la natura in
qualche maniera originaria, autentica, del discorso fedele al suo essere, che è
il discorso che dice il vero»43.
Al posto di questo rinvio ideologico a una dimensione della
realtà altra rispetto al discorso (per spiegarne a sua volta il
rapporto che esso intrattiene con la realtà) Foucault mantiene che «il reale
non contiene in esso stesso la ragione d’essere del discorso»44, ovvero il fatto che tale realtà non ha per forza
bisogno di un gioco di veridizione che si articoli con essa, che la determini secondo
il gioco del vero e del falso. La verità si afferma come un evento, non
sopraggiunge necessariamente per giustificare l’adeguamento di un discorso vero
alla realtà. Da questo punto di vista la verità è sempre oggetto di ciò che
Foucault chiama «una sorpresa epistemica»45.
Per intraprendere quella che usando, un’altra espressione di Foucault, egli
chiama «una storia politica della verità», ci si deve chiedere non se questo
gioco di veridizione, questo discorso vero sia adeguato al, e necessitato dal,
reale, bensì «quali effetti di obbligo, di costrizione, di incitazione, di
limitazione sono stati suscitati dalla connessione di pratiche determinate con
un gioco vero/falso, un regime di veridizione anch’esso specifico»? Bisogna
infine chiedersi «a quali obblighi si trova legato il soggetto di questa
pratica dal momento che la separazione (partage) del vero e del falso vi svolge
un ruolo? A quale obbligo vero/falso si trova legato il soggetto di un discorso
vero dal momento che si tratta di una pratica definita?»46.
In un quadro più ampio, relativo alle lezioni finali di
questo Corso, le tre modalità di concepire il rapporto tra discorsi e pratiche
(di cui fa parte la «denegazione ideologica») sono opposte da Foucault al
particolare statuto pratico-discorsivo che storicamente avevano assunto in
epoca imperiale i cosiddetti aphrodisia rispetto alla condotta
matrimoniale e sessuale. Ovvero si tratta delle technai peri ton bion,
delle arti di vivere, ovvero quelle “tecniche” che prendono ad oggetto la vita,
l’esistenza47. Tali tecniche sono pensate da Foucault
come procedure regolate e riflesse volte a operare su un oggetto determinato un
certo numero di trasformazioni in funzione di alcuni fini da raggiungere. Nella
fattispecie esse si esercitano sul bios, ovvero sulla vita in quanto
soggettività, esistenza irriducibile tanto alle proprie determinazioni
biologiche, quanto a un qualsivoglia statuto sociale, a una professione o a un
mestiere. Rispetto a una prospettiva ideologica e al modo di porre la questione
“filosofico-politica” che abbiamo visto nel Corso del 1980, la prospettiva del
modello antico di soggettivazione è invece animato da una ricerca continua e
indefinita che mira alla padronanza di sé nelle mutevoli circostanze
dell’esistenza individuale e collettiva. Di conseguenza, la sfera delle
attività sessuali, nell’Antichità greco-romana, è inserita da Foucault in un
campo di problematizzazione più ampio, nel quale la padronanza e il governo di
sé diventano condizione impre-scindibile per l’esercizio del potere sugli
altri, acquisendo dunque un valore politico48.
D’altronde, prendendo le mosse da queste analisi è possibile
leggere in filigrana anche uno spostamento relativo alla nozione stessa di
verità e ai suoi rapporti con la soggettività rispetto a quello che era
implicito in un’analisi in termini ideologici. La verità legata alle tecniche
di sé antiche non era infatti definita né da una corrispondenza con la realtà,
né da qualcosa che si troverebbe nelle profondità della coscienza, in
un’interiorità psicologica da decifrare incessantemente. La verità in questione
riguardava piuttosto la forza e la radicalità grazie alle quali certi discorsi
danno forma all’esistenza particolare di ciascuno49.
Il bios greco si presentava così come la superficie su cui la verità si
manifesta (ed è chiamata a manifestarsi) secondo un rapporto tutto da costruire
ed inventare, ma che costituiva nondimeno la cifra essenziale della
stilizzazione etica e politica dell’esistenza nell’Antichità greco-romana che
costituirà l’oggetto di analisi privilegiato negli ultimi tre Corsi di Foucault
al Collège de France, in cui tuttavia la nozione ideologia non verrà più
menzionata.
Note
1. M.
Foucault, Du gouvernement des
vivants. Cours au Collè-ge de France. 1979-1980, a cura di M.
Senellart, EHESS-Gallimard-Seuil, Paris 2012, pp. 74-75; trad. it. Del
governo dei viventi. Corso al Collège de France (1979-1980), a cura di D.
Borca e P.A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 2014, p. 83-84. ↩
2. Cfr. solo a titolo di esempi: M. Foucault, «Le grand enfermement» (1972)
in Dits et écrits, Gallimard, Paris (1994), 2001, vol. I, pp. 1164-1174
(p. 1171); trad. it. «Il grande internamento», in M. Foucault, La società
disciplinare, a cura di S. Vaccaro, Mimesis, Milano 2010, pp. 27-38 (p. 34);
Id. «Sur la justice populaire. Débat avec les maos» (1972), in Dits et
écrits, op. cit., vol. I, pp. 1208-1237 (p. 1226 et passim) ; trad.
it., «Sulla giustizia popolare. Dibattito con i maoisti» in M. Foucault, Microfisica
del potere. Interventi politici, a cura di A. Fontana & P. Pasquino, pp.
71-106 (p. 93 et passim); Id. «Le jeu de Michel Foucault» (1977), inDits
et écrits, op. cit., vol. I, pp. 298-329 (p. 324); trad. it., «Il gioco di
Michel Foucault», in M. Foucault, Follia e psichiatria. Detti e scritti
(1957-1984), a cura di D. Borca e V. Zini, Raffaello Cortina Editore, Milano
2006; Id. The Subject and the Power, in H. Dreyfus & P.
Rabinow, Michel Foucault: Beyond Structuralism and Hermeneutics,
University of Chicago Press, Chicago 1982, ora in M. Foucault, Dits et
écrits, op. cit., vol. II, pp. 1041-1062 (p. 1046); trad. it. Il soggetto
e il potere, in H. Dreyfus & P. Rabinow, La ricerca di Michel
Foucault. Analitica della verità e storia del presente, a cura di D. Benati, M.
Bertani, I. Levrini, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, p. 240. ↩
3. Cfr. M. Foucault, Les mots et les choses. Une archéologie des sciences humaines,
Gallimard, Paris 1966; trad. it. a cura di E. Panaitescu, Le parole e le
cose.Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano 1967, p. 391 ;
Id.L’archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969, p. 12 e pp. 240-243; trad.
it. di G. Bogliolo, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1980, p. 8 e
pp. 240-243. ↩
4. Cfr. D. Lecourt, Pour
une critique de l’épistémologie: Bachelard, Canguilhem, Foucault, Maspero,
Paris 1974; J.-F. Braunstein, «Bachelard, Canguilhem, Foucault. Le “style
français” en épistémologie», in P. Wagner (a cura di), Lesphilosophes et
la science, Gallimard, Paris 2002, pp. 920-963; P. Cassous-Noguès & P.
Gillot (a cura di), Le concept, le sujet, la science. Cavaillès,
Canguilhem, Foucault, Vrin, Paris 2009; L. Paltrinieri, L’expérience du
concept. Michel Foucault entre épistémologie et histoire, Publications de la
Sorbonne, Paris 2012. Per una panoramica generale sull’epistemologia storica
francese si consultino i vari articoli che compongono il numero della
rivista Discipline Filosofiche(2006/2) a cura di A. Cavazzini & A.
Gualandi dedicato a «L’epistemologia storica e il trascendentale
storico». ↩
5. A questo riguardo si consideri anche la ripresa che
Georges Canguilhem fece del concetto di ideologia, coniando il termine
“ideologia scientifica”. Cfr. G. Canguilhem, «Qu’est-ce qu’une idéologie
scientifique?» (1970) in Idéologie et rationalité dans l’histoire des
sciences de la vie, (1977), Vrin 2009, pp. 39-55; P. Macherey, «Canguilhem
et le concept d’idéologie scientifique», Groupe d’étude La philosophie au sens
large (14/05/2008), consultabile online
(http://stl.recherche.univ-lille3.fr/seminaires/philosophie/macherey/macherey20072008/macherey14052008.html). ↩
6. Cfr. L. Althusser, «Sur la dialectique matérialiste» ,
in Pour Marx (1965), La Découverte , Paris 1996, pp. 161-205. ↩
7. M.
Foucault, L’archéologie du savoir, op. cit., p. 12 (trad. it., p.
8). ↩
8. L.
Althusser, Pour Marx, op. cit., p. 168 (trad. it., p. 146). ↩
9. M. Foucault, Leçons sur la volonté de savoir. Cours au Collège de
France. 1970-1971, a cura di D. Defert, Seuil/Gallimard, Paris
2011. In questo volume facciamo riferimento soprattutto alla «Leçon sur
Nietzsche», tenuta alla McGill University di Montréal nell’aprile del 1971.
Vista la difficile ricostruzione del Corso del 1970-71, di cui non esistono
registrazioni, ma solo manoscritti talvolta schematici e lacunosi, nella
ricostruzione che dà D. Defert si suppone che il materiale di questa lezione
sia stato utilizzato anche per il Corso al Collège de France. ↩
10. Ibidem, pp. 206-207 e p. 213. Su tale questione si
vedano anche le celebri conferenze pronunciate a Rio de Janeiro nel maggio del
1973: M. Foucault, «La vérité et les formes juridiques», in Dits et
écrits, op. cit., vol. I, pp. 1406-1514 (in part. pp. 1420-21); trad. it. «La
verità e le forme giuridiche», in Archivio Foucault 2. Poteri, saperi,
strategie, a cura di A. Dal Lago, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 83-165. ↩
11. Cfr. M. Foucault, Leçons sur la volonté de savoir,
op. cit, p. 206. Foucault sostiene che si dovrebbe inoltre presupporre che vi
sia una soggetto puro, libero da ogni determinazione che sia pronto ad
accogliere, senza deformarla, la presenza dell’oggetto – sarebbe questa la
forma dell’attenzione, che ritroviamo da Platone a Cartesio come evidenza.
Analogamente, nello sviluppo che lega entrambi apparirebbe pure, sotto la forma
della saggezza, l’esigenza pedagogica legata alla limitazione della volontà per
far posto alla verità. ↩
12. Ivi. ↩
13. Ibidem,
p. 207. ↩
14. L.
Althusser, «Idéologie et appareils idéologiques d’État» (1970), in Positions,
Éd. Sociales, Paris 1976, pp. 67-125; trad. it., «Ideologie e apparati
ideologici di Stato», in Critica marxista, settembre-ottobre 1970, pp.
23-65. ↩
15. M.
Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France. 1972-1973,
a cura di B.E. Harcourt, Seuil/Gallimard, Paris 2013, pp. 231-237. ↩
16. Cfr. B. E. Harcourt, «Situation du cours», in M.
Foucault, La société punitive, op. cit., pp. 281-282 e pp. 300-302. ↩
17. M. Foucault, La société punitive, op. cit., p.
234. ↩
18. Ivi. ↩
19. Cfr. M. Foucault, La société punitive, op. cit.,
pp. 236-237. ↩
20. Rispetto a questo corso tralasciamo la discussione
sull’apparizione del criminale in quanto nemico della società, che appare nei
celebri articoli che il giovane Marx pubblica nel 1842 sulla Gazzetta renana
sulla legge relativa al furto di legna nella Slesia e per cui questa legge
sarebbe un prodotto «dell’ideologia giuridica borghese», in quanto vedremo come
questo aspetto fa riferimento a una concezione di ideologa più simile a una
“visione del mondo”, che Foucault criticherà più ampiamente nei suoi Corsi
successivi. Su questo punto si veda la nota 5 a p. 76 di La société
punitive a opera di Bernard Harcourt, così come la correlazione
dell’«effetto teorico-politico» di cui parla Foucault con le analisi di
Althusser di questi stessi scritti del giovane Marx svolte in termini di «lotta
ideologico-politica», correlazione che Harcourt ricostruisce nella «Situation
du cours», (pp. 296-298). ↩
21. M. Foucault, Le pouvoir psychiatrique. Cours au
Collège de France. 1973-1974, a cura di J. Lagrange, Seuil/Gallimard,
Paris 2003, pp. 17-18; trad. it. Il potere psichiatrico. Corso al Collège
de France (1973-1974), a cura di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2004, p.
28. ↩
22. Ibidem,
p. 42 (trad. it. p. 48). ↩
23. Cfr. L.
Althusser, «Idéologie et appareils idéologiques d’État», op. cit., p. 110 et
sgg. (trad. it., p. 54 et sgg.). In questo senso, negli stessi anni,
Foucault fa riferimento anche al super-io freudiano. Cfr. M. Foucault, «Asiles.
Sexualité. Prisons» (1975), in Dits et écrits, op. cit., vol. I, pp.
1639-1650 (in part. p. 1640) ; trad. it. «Asili. Sessualità. Prigioni»,
in Archivio Foucault 2, op. cit., pp. 174-186 (p. 175). ↩
24. M. Foucault, «Il faut défendre la société». Cours
au Collège de France. 1976, a cura di M. Bertani & A. Fontana, Paris,
Seuil/Gallimard, 1997, p. 30 ; trad. it.,“Bisogna difendere la società”, a cura
di M. Bertani & A. Fontana, Feltrinelli, Milano 1998, p. 36. ↩
25. Ibidem,
p. 169 (trad. it. p. 164). ↩
26. Ibidem,
p. 230 (trad. it. p. 223). ↩
27. M.
Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de
France. 1977-1978, a cura di M. Senellart, Seuil/Gallimard, Paris
2004, pp. 49-50; trad. it.,Sicurezza, territorio, popolazione.Corso al Collège
de France (1977-1978), a cura di P. Napoli, Feltrinelli, Milano 2005, p.
48. ↩
28. Ivi. ↩
29. M. Foucault, Naissance de la biopolitique. Cours au
Collège de France. 1978-1979, a cura di M. Senellart, Seuil/Gallimard,
Paris 2004, p. 37; trad. it., La nascita della biopolitica. Corso al
Collège de France (1978-1979), a cura di M. Bertani & V. Zini, Feltrinelli,
Milano 2005, p. 42. ↩
30. Ibidem,
p. 37 (trad. it. p. 43). ↩
31. Ivi. ↩
32. M.
Foucault, Du gouvernement des vivants, op. cit., p. 79 (trad. it. p.
89). ↩
33. Cfr. Ibidem,
pp. 73-74 (trad. it. p. 83). ↩
34. Cfr. Ibidem,
p. 74 (trad. it. p. 83). ↩
35. Ibidem,
p. 75 (trad. it. p. 84). ↩
36. Ibidem,
pp. 75-76 (trad. it. pp. 85). ↩
37. Cfr. Ibidem,
p. 78 (trad. it. p. 87). ↩
38. Cfr. Ivi. ↩
39. Cfr. M.
Foucault, Subjectivité et vérité. Cours au Collège de France. 1980-1981, a
cura di F. Gros, EHESS/Seuil/Gallimard, Paris 2014. ↩
40. Su questo punto cfr. anche F. Gros, «Soggetto morale e
sé etico in Foucault», inFoucault e la genealogia del dir-vero, a cura di L.
Cremonesi, O. Irrera, D. Lorenzini, M. Tazzioli, Napoli, Cronopio 2014, pp.
17-31. ↩
41. M.
Foucault, Subjectivité et vérité, op. cit., p. 242 ↩
42. Ibidem,
p. 243. ↩
43. Ibidem,
p. 244. ↩
44. Ibidem,
p. 237. ↩
45. Ibidem,
p. 238. ↩
46. Ibidem,
p. 239. ↩
47. Cfr. Ibidem,
p. 253. ↩
48. Cfr. Ibidem,
pp. 280-293. ↩
49. Su questo punto cfr. L. Cremonesi, A. I. Davidson, O.
Irrera, D. Lorenzini, M. Tazzioli «Da dove viene il sé? La forza del dir-vero e l’origine
dell’ermeneutica del sé», in aut aut, n. 362, aprile-giugno 2014, pp.
116-133; O. Irrera, «La verità come forza. Dir-vero, potere e soggettività
nell’ultimo Foucault», in Foucault e la genealogia del dir-vero, op. cit.,
pp. 33-57. ↩
Questo saggio
è stato pubblicato in Michel Foucault. Genealogie
del presente (a cura di Paolo B.
Vernaglione), manifestolibri, 2015, pp. 55-85.
http://www.euronomade.info/ |