Michel Foucault ✆ David Levine |
Jacques Derrida ✆ David Levine |
1.
Pierre Bourdieu ✆ Marina Rust |
1. La modalità più immediata e forse più
logora di porre la domanda sullo statuto della filosofia, quella che in mille
varianti continua a riemergere per tutto il Novecento, è la modalità che si
situa ben all’interno del perimetro della filosofia stessa: lo specifico di
quest’ultima risiederebbe proprio nella sua capacità di interrogarsi
criticamente sulla propria definizione e insieme nell’impossibilità di
formulare una risposta definitiva a tale domanda. In altre parole, la
specificità di un approccio propriamente filosofico – che lo distinguerebbe
generalmente dai “saperi positivi” – sarebbe quello di non dare per scontato il
proprio oggetto e il proprio campo, ma di doverlo sempre ripensare da capo, in
modo che in tale lavoro di interrogazione e di definizione sarebbe da vedere in
fondo la sua occupazione principale. Poiché l’interrogazione filosofica, per
essere tale, deve mostrare la propria insaturabilità rispetto a ogni possibile
risposta che è stata data nel corso della storia, la domanda sullo statuto
della filosofia si accompagna usualmente a una decostruzione o critica dei
concetti filosofici sedimentati nella tradizione (per es. come critica della
metafisica, dell’ontologia e così via). Il gesto autenticamente filosofico, insomma,
sarebbe da riconoscere in quell’attitudine del pensiero che intende rilanciare
continuamente l’ulteriorità della filosofia rispetto a ogni sua
cristallizzazione, a ogni sua riduzione a un campo determinato, a un oggetto
specifico, a un’organizzazione discorsiva e concettuale. Il punto suona ormai
da lungo tempo come un frusto luogo comune: se un fisico si chiede «che cos’è
la fisica?», si starebbe ponendo una domanda estranea al suo oggetto di studio,
mentre un filosofo che si chieda «che cos’è la filosofia?» starebbe facendo
proprio il suo lavoro.
Questo tema, che pone filosoficamente la
domanda sullo statuto della filosofia e che ritiene anzi di trovare nella
necessità di porsela il segno specifico dell’approccio filosofico, il suo
contenuto più proprio e la sua destinazione ultima, è molto sfuggente: da un
lato sembra che volerlo circoscrivere e riconoscere come dotato di una sua
unità conduca inevitabilmente a delle semplificazioni e banalizzazioni, per la
multiforme varietà dei contesti di pensiero in cui appare; dall’altro lato è
difficile sottrarsi all’idea che, dietro a tale multiformità, esista qualcosa
di unitario, come una sorta di condizione generale di possibilità per il darsi
di molta produzione filosofica novecentesca[3].
Un’esemplificazione concreta, di livello
molto alto, di questo tema può essere trovata nella riflessione di Jacques
Derrida. Nel già nominato saggio del 1967 dedicato a Storia della follia, egli
critica il libro di Foucault perché gli sembra voler scrivere la storia della
partizione originaria fra ragione e sragione, ovvero proprio di quel che
necessariamente si sottraeal linguaggio
e alla storia. Infatti «ogni storia non è in ultima istanza se non la storia
del senso, cioè della Ragione in generale» e allo stesso
modo la scrittura, in quanto costringe a porsi all’interno dell’orizzonte
linguistico, implica già l’essere caduti dal lato del campo razionale:
«l’ordine è allora denunciato nell’ordine»[4].
Il tema della partizione ragione-sragione, ovvero il tema dell’origine del
Senso in generale, non potrà mai trovare uno svolgimento storico o archeologico
adeguato, ma implica un approccio filosofico, il quale deve avere però, a
differenza della “metafisica”, la capacità di farsi carico della sua originaria
aporeticità, che investe la stessa filosofia nella misura in cui è anch’essa
discorso. Il proprium della filosofia, in altre parole,
è quel «fondamento non storico della storia», quella différance fra senso
e non senso, fra storia e storicità, che non può essere in alcun modo
oggettivato in un evento storico o in un ordine discorsivo (sia pure quello
della stessa filosofia), poiché è proprio ciò che sta “al di qua” e “al di là”
di ogni storia e di ogni discorso: «Definire la filosofia come voler-dire
l’iperbole, significa confessare – e la filosofia, forse, è questa gigantesca
confessione – che nel dettato storico in cui la filosofia si rasserena ed
esclude la follia, essa si tradisce da sé (o si tradisce come pensiero), essa
entra in una crisi e in una dimenticanza di sé che sono un periodo essenziale e
necessario del suo movimento»[5].
Di qui anche il fastidio mostrato da Derrida per la lettura che Foucault compie
delleMeditazioni di Cartesio: relegandole, secondo
lui, a espressione di un “momento storico” (l’età classica), egli
fraintenderebbe la vera posta in gioco del testo, che apparirebbe invece solo
«attraverso l’analisi interna ed autonoma del contenuto filosofico del discorso
filosofico»[6].
Nei libri successivi a La scrittura e la differenza, pur dando
al suo pensiero una sempre maggiore articolazione e complessità, Derrida non
sembra modificare nella sostanza questa impostazione complessiva. Il suo
progetto si costruisce attorno all’idea di una decostruzione dei
concetti filosofici sedimentati nella tradizione metafisica, fonocentrica e
logocentrica, in modo da far riapparire l’atto propriamente filosofico che in
quelle cristallizzazioni necessariamente veniva oscurato[7].
Nel libro del 1990 Du droit à la philosophie, interamente
dedicato allo statuto della filosofia (ci tornerò in seguito), appare
chiaramente il permanere predominante di questo tema. Nella lunga introduzione
Derrida scrive: «Una delle strutture rimarchevoli e paradossali del titolo filosofico, come di
tutto ciò che legittima un contratto e autorizza un’istituzione sedicente filosofica, è
che per una volta niente dovrebbe essere presupposto da tale alleanza o
convenzione: nessun oggetto o campo di oggetti, nessun tema, nessuna certezza,
nessuna disciplina, neppure il sedicente filosofo che si auto-intitolerebbe a
partire da qualche formazione, identità di ricerca, orizzonte di
interrogazione. La filosofia non ha orizzonte, se
l’orizzonte è, come indica il nome, un limite, se “orizzonte” significa una
linea che accerchia o delimita una prospettiva. Non è questo il caso, di
diritto, per altre discipline o regioni del sapere»[8].
Se «il nome della filosofia si trova sottoposto a una sorta di torsione che lo
ripiega verso un luogo eccessivo, debordante, inesauribile»[9],
la decostruzione intende nominare proprio questa torsione, questa perpetua
eccedenza della filosofia su se stessa, che prende per Derrida la forma di un
compito o, come egli anche scrive, di una «promessa»[10].
2.
Una modalità alternativa alla
rivendicazione – filosofica – dell’internità alla filosofia della questione
relativa al suo statuto è la prospettiva che intende piuttosto guardare la
filosofia da fuori. Questo sguardo esterno intende far
emergere per così dire la scena o il campo della filosofia: le strutture
istituzionali di cui si dota o in cui è implicata, i meccanismi sociali e
politici che la governano così come i conflitti che la attraversano. Un’analisi
di questo tipo è stata svolta ampiamente – e polemicamente – in forma
sociologica da Pierre Bourdieu; non è un caso, poiché quest’ultimo, come
ricorda Macherey, è «un filosofo (è alla filosofia che deve la sua formazione e
i suoi primi riconoscimenti) che si è “convertito” alla sociologia, abbandonando
le proprie iniziali convinzioni per entrare nel santuario della scienza»[11].
Nel post-scriptum al suo libro del 1979 La distinzione. Critica sociale del
gusto, Bourdieu si scaglia contro le modalità
usata dalla filosofia per definirsi, in quanto «il modo filosofico di parlare
della filosofia derealizza tutto quello che si può dire della filosofia»[12]. Per Bourdieu il paradigma di questo
atteggiamento, che impone a tutto ciò che si può dire della filosofia la forma
di un enunciato filosofico, è proprio Jacques Derrida, la cui decostruzione,
per quanto radicale voglia essere, «non si ritira mai dal gioco filosofico, di
cui rispetta le convenzioni, financo nelle trasgressioni rituali, che possono
scandalizzare soltanto gli intellettuali»[13].
Lo «smontaggio del dispositivo filosofico» operato da Derrida, così come il suo
«sguardo deliberatamente sbieco, decentrato, liberato, se non addirittura
sovversivo» nei confronti delle letture ortodosse del canone filosofico (in Meditazioni pascaliane Bourdieu
parlerà a tal proposito di «accademismo anti-accademico»[14]),
non sono in grado di dire nulla sulla verità in gioco nella filosofia, perché
non sono altro che il modo che quel dispositivo ha trovato per poter continuare
a riprodursi.
Questo esito appare a Bourdieu da un
certo punto di vista inevitabile, in quanto dal filosofo non ci si può certo
aspettare che esca dal gioco che lo legittima e che prevede il suo posto:
«L’oggettivazione filosofica della verità del discorso filosofico trova i suoi
limiti nelle condizioni oggettive della propria esistenza in quanto attività
che aspira alla legittimità filosofica, cioè nell’esistenza di un campo
filosofico che esige il riconoscimento dei principi che stanno alla base della
sua stessa esistenza»[15].
La filosofia è costretta, pena la perdita di sé, a non vedere, anzi a
disconoscere, il reale che costituisce il proprio campo, ciò che lo governa e
che lo articola socialmente, politicamente e istituzionalmente. Questo lavoro
può essere fatto invece, secondo Bourdieu, dalla sociologia, come lui stesso ha
voluto dimostrare nei suoi libri, per esempio in Homo academicus, in cui
ricostruisce (fra le altre cose) il posto della filosofia nel «campo accademico»
francese, o in Meditazioni pascaliane, in cui
mostra la stretta connessione fra riproduzione filosofica e «ragione
scolastica».
La ricostruzione di Bourdieu, tuttavia,
non è mai neutra, ma sempre fortemente colorata di tinte polemiche e quasi
rancorose[16],
perché c’è in gioco molto più che la descrizione di un gioco simbolico fra gli
altri: la filosofia è il vero “nemico” delle scienze sociali poiché aspira a
occuparne il posto senza esserne in grado, in quanto trasforma la scienza in
«sterile speculazione» che «sistematicamente ignora i problemi della realtà
concreta»[17].
Guardare la filosofia da fuori, ovvero determinare sociologicamente le regole
(spesso meschine) della sua istituzione e della sua riproduzione, significa non
solo mostrare il reale della filosofia, che essa stessa strutturalmente non può
vedere, ma anche, più generalmente, svelare la sua incapacità a entrare in
rapporto con la realtà, il suo ridursi a gioco accademico interessato solo a
difendere il potere simbolico che si è riuscito ad accaparrare.
Ci si può chiedere se l’analisi di
Bourdieu sia in grado fino in fondo di produrre insieme una definizione
esaustiva dello statuto della filosofia, cioè una sua piena oggettivazione, e
la definitiva vittoria delle scienze sociali su di essa e sulle sue pretese. Se
per esempio si prende in esame il libro di Derrida Du droit à la philosophie, successivo
all’attacco di Bourdieu contenuto in La distinzione e che vale anche
esplicitamente come risposta ad esso, sembra che la cosa non sia così semplice.
Derrida sostiene di non essersi mai voluto limitare «a un contenuto teorico,
culturale o ideologico»; se così fosse, allora – sembra dire Derrida – Bourdieu
avrebbe ragione: «Se la decostruzione si fosse attenuta, cosa che non ha mai
fatto […], a una semplice decostituzione semantica o concettuale, essa avrebbe
formato soltanto una modalità – nuova – dell’autocritica interna della
filosofia. Avrebbe rischiato di riprodurre la proprietà filosofica, il rapporto
della filosofia con se stessa, l’economia della messa in questione
tradizionale»[18].
Derrida ammette insomma il rischio che la decostruzione, nella sua critica
radicale allo statuto della filosofia, non sia altro che la riattivazione, in
forme nuove, del vecchio meccanismo della sua auto-riproduzione. Tuttavia
questo rischio è scongiurato poiché la decostruzione ha di mira non solo i
concetti della filosofia, ma anche la sua scena: «È così da tempo necessario
(coerente e programmato) che la decostruzione non si limiti al contenuto
concettuale della pedagogia filosofica, ma affronti la scena filosofica, tutte
le sue norme e le forme istituzionali così come tutto ciò che le rende
possibili»[19].
Essa implica quindi una «messa alla prova storica e politica»: mostra il legame
di fondo tra forme filosofiche, pedagogiche e istituzionali, principalmente a
partire dalla «età di Hegel», in cui l’enciclopedismo sistematico si salda
all’istituzione universitaria, a una certa figura di filosofo-professore e al
suo indefinito riprodursi nelle strutture disciplinanti di insegnamento che vi
sono connesse. Il logocentrismo, che da Hegel in poi si traduce in
«onto-enciclopedia», è sempre anche una pedagogia volta principalmente alla
riproduzione di sé nella forma istituzionale dell’università. È questa
l’analisi che effettivamente Derrida conduce, almeno in parte (e sempre nel suo
stile), nei saggi raccolti in Du droit à la philosophie.
Non è tutto: nel riprendere all’interno
del proprio orizzonte decostruttivo il problema della scena della filosofia,
Derrida è convinto di poter infine ribaltare la situazione: non è che Bourdieu
guardi la filosofia da fuori, ma al contrario ci si ritrova in mezzo, senza
saperlo né volerlo. Il tentativo di fare una «analisi oggettiva» della
filosofia è per Derrida un’impresa ambigua e autocontraddittoria, poiché deve
assumere proprio quella posizione che intende descrivere. Bourdieu sa che
«l’oggettivazione è completa solo se oggettiva anche il luogo
dell’oggettivazione»[20],
ma dal punto di vista di Derrida ciò significa, in un modo o nell’altro,
ricascare dentro la filosofia[21].
Infatti se Bourdieu vuol intendere, con questo, il progetto di una
«oggettivazione portata a compimento», conclusa, allora egli ha bisogno di
«ricostituire il metalinguaggio di un sapere assoluto che porrebbe la
“sociologia” al posto della grande logica e che le assicurerebbe l’egemonia
assoluta, ovvero filosofica, sulla molteplicità delle altre
regioni del sapere»[22].
L’idea di un’oggettivazione completa da parte della sociologia renderebbe
insomma quest’ultima una “scienza sovrana”, facendola confluire proprio nel
progetto dell’«onto-enciclopedia» filosofica. Ma è improbabile, aggiunge
sarcasticamente Derrida, che Bourdieu sia così ingenuo; probabilmente bisogna
intendere questo progetto in un altro modo, quello secondo cui il problema
della «verità» dell’oggettivazione «non appartiene più all’ordine
dell’oggettività», «non ha più la forma dell’oggetto», ma anzi costringe a
«mettere in questione l’autorità dell’oggettività»[23].
Ma questo modo di intendere il progetto non è altro che quello messo in atto
dallo stesso Derrida con la sua decostruzione, la quale, come visto, intende
riprendere, ma in termini filosofici (cioè non in termini di pura
oggettivazione), il problema del “campo” della filosofia.
Le poche pagine che Derrida, in Du droit à la philosophie, dedica a
Bourdieu sono la messa in scena di un meccanismo logico, discorsivo e
stilistico simile a quello che si trova nel saggio su Foucault di vent’anni
prima e che si ripete spesso, con le variazioni del caso, in Derrida: non è mai
possibile stare al di fuori della filosofia e ogni tentativo di sottrarsi ad
essa non fa altro che implementarla in modo inavvertito; ovunque si può trovare
una «filosofia implicita» (in Bourdieu, in Foucault, così come nella riforma
Haby che è l’obbiettivo polemico principale di Du droit à la philosophie[24]); ma una filosofia implicita non
è altro che “cattiva filosofia”, la quale è comunque in un certo senso
necessaria alla “buona” filosofia, quella in perpetuo eccesso su se stessa,
perché le dà l’occasione di potersi esercitare. Proprio per questo motivo, del
resto, è facile pensare che il modo in cui Derrida re-inscrive all’interno
della sua prospettiva ciò che ne dovrebbe costituire il fuori non metterebbe in
crisi Bourdieu, ma anzi lo confermerebbe nelle sue posizioni. Nella risposta di
Derrida infatti egli ritroverebbe limpidamente esposta l’«oggettivazione a
metà» propria della filosofia che si vuole «radicale»; tale approccio «consente
di collocarsi, al tempo stesso, dentro e fuori [del campo filosofico], nel
gioco e al di fuori del gioco, […] punti da cui si possono prendere le distanze
maggiori possibili dal suo interno, senza però cadere fuori da esso (cioè nelle tenebre esterne, nella
volgarità del non-filosofico, nella grossolanità del discorso “empirico”,
“ontico”, “positivista”, ecc.) ed in cui si possono sommare i vantaggi della
trasgressione, quelli di un compimento esemplare del discorso filosofico e
quelli dell’esplicitazione della verità oggettiva di questo discorso»[25].
L’esigenza di Bourdieu di guardare la
filosofia “da fuori”, per svelarne il suo vero statuto e il suo vero
funzionamento, è ben comprensibile ed è perfettamente adeguata all’obbiettivo
che Bourdieu si prefigge, ovvero quello di giustificare il suo abbandono della
filosofia – che viene così liquidata – al fine di abbracciare il lavoro
scientifico della sociologia. Tuttavia se il fine è un altro, quello di capire
se è possibile, non abbandonando la filosofia, rispondere alla domanda circa il
suo statuto in un modo diverso da quello che abbiamo trovato esemplificato in
Derrida, l’approccio di Bourdieu non è sufficiente. Esso infatti, proprio
perché, nel mostrare il “fuori” della filosofia, si pone deliberatamente al di fuori di
essa, lascia paradossalmente intatto il suo santuario interno, non prende in
considerazione fino in fondo i modi intrinseci al suo dispiegamento e consente
quindi alla filosofia che dovrebbe venire “oggettivata” di inglobare questa
“oggettivazione”, di renderla ancora una volta un suo contenuto e un’occasione
per la sua ripetizione. Derrida è perfettamente in grado di scrivere dei saggi
molto convincenti sulla scena della filosofia, sulle sue «norme e forme
istituzionali» così come sulla «enorme organizzazione (sociale, politica,
economica, pulsionale, fantasmatica, ecc.)» che vi si accompagna[26], senza abbandonare le modalità di
procedere tipiche del suo stile filosofico.
3.
L’originalità della prospettiva di
Foucault sta nella possibilità di sottrarsi a questa alternativa secca fra
comprensione tutta interna e sguardo esterno. Questo non nel senso che in lui
si troverebbe una posizione “mediana” o una sorta di “superamento dialettico”
dell’alternativa, in obbedienza a uno dei dettami più logori dell’andamento
argomentativo della letteratura filosofica. Come Bourdieu, anche Foucault
intende offrire uno sguardo esterno e critico rispetto alla
filosofia e, come Bourdieu, egli trova proprio in Derrida il paradigma del suo
obbiettivo polemico. Tuttavia l’esteriorità alla filosofia che Foucault chiama
in causa nel definire il suo statuto non è solo, né principalmente, quella
della sua “scena”, cioè della posta in gioco sociale, politica, istituzionale
che vi è connessa (di cui del resto Foucault non si è mai occupato
direttamente, a differenza, come si è visto, di Bourdieu e dello stesso
Derrida), ma è anche, e soprattutto, l’esteriorità del discorso[27]. Il problema che emerge in
Foucault è quello che si potrebbe chiamare dei modi di produzione del discorso
filosofico – ovviamente di un discorso
filosofico ben determinato, quello della «filosofia nella maniera in cui essa
viene praticata e insegnata in Francia»[28] -.
Quando Foucault scrive che «quel che [in Derrida] si manifesta in maniera assai
visibile» è una «piccola pedagogia storicamente ben determinata»[29], sta parlando in primo luogo proprio di
unapedagogia del discorso, cioè di un certo modo di produrre
e concatenare gli enunciati affinché essi possano essere riconosciuti come
“filosofici”. Quindi ciò che Foucault vuol fare, e che Derrida non accetterà
mai di fare, è proprio il concepire la filosofia come una pratica discorsiva
fra le altre: «Quel che ho cercato di mostrare (anche se non era certo del
tutto chiaro ai miei occhi quando scrivevo Storia della follia) è il fatto
che la filosofia non è né storicamente né logicamente fondatrice di conoscenza,
e che ci sono delle condizioni e delle regole di formazione del sapere alle
quali il discorso filosofico si trova sottomesso in ogni epoca, come qualunque
altra forma di discorso a pretesa razionale»[30].
L’esteriorità propria del discorso non arriva a turbare la filosofia da fuori,
come poteva apparire per la sua scena, ma si trova proprio al suo cuore, ben
dentro il suo santuario, nel suo modo intrinseco di prodursi come filosofia. Se
si volesse ridislocare un concetto coniato da Jacques Lacan per il campo
analitico, si potrebbe nominare estimità questo nucleo discorsivo della
filosofia[31].
Il concetto di “discorso” viene
determinato da Foucault in L’archeologia del sapere: esso è
l’«insieme degli enunciati che appartengono a uno stesso sistema di formazione»[32]. Questo significa, molto in breve, che
un discorso è un insieme di enunciati regolati da una serie di funzioni che
determinano, per essi, gli oggetti, i soggetti, i concetti e le strategie
discorsive che vi possono apparire. Nell’Archeologia del sapere, Foucault
intende proprio determinare la possibilità di un’analisi del fatto linguistico
che abbia di mira la dimensione enunciativa, ovvero le regole che organizzano
di volta in volta i modi in cui un fatto linguistico può di diritto entrare a
far parte di uno specifico orizzonte discorsivo: gli oggetti di cui si parla, i
concetti che vengono utilizzati, le posizioni di soggetto che vi sono previste.
Questo reticolo, questa griglia invisibile accompagna silenziosamente ogni cosa
detta o scritta e la assegna alla specifica formazione discorsiva a cui
appartiene. L’obbiettivo di Foucault, quello che egli ritiene di aver
perseguito nei libri precedenti a L’archeologia del sapere, è proprio
quello di mirare di rendere visibili tali griglie: «in questo modo potrò parlare
di discorso clinico, di discorso economico, di discorso della storia naturale,
di discorso psichiatrico»[33] e
anche – si potrebbe aggiungere – di discorso filosofico.
Un’analisi di questo tipo rivolta alla
filosofia è proprio ciò che Foucault abbozza nelle prime pagine della Risposta a Derrida, prima
versione di Questo corpo, questo foglio, questo fuoco. Egli individua «tre postulati»
(ma sarebbe meglio parlare di tre regole di formazione degli enunciati) che
«formano l’armatura dell’insegnamento della filosofia in Francia», anche se
«fra tutti coloro che oggi, in Francia, fanno filosofia all’ombra di questi tre
postulati, senza dubbio Derrida è il più profondo e il più radicale»[34]. Il primo postulato si basa sull’assunto
che «ogni conoscenza, e più in generale ogni discorso razionale, intrattenga
con la filosofia un rapporto fondamentale, e che tale razionalità o tale sapere
si fondino proprio in virtù di tale rapporto»[35].
Foucault non si sta riferendo qui all’attitudine sistematica di quella che
Derrida chiama «onto-enciclopedia», ma più generalmente al meccanismo secondo
cui ogni discorso, in quanto razionale (o in quanto aspira alla razionalità),
nasconde necessariamente una «filosofia implicita» (un tema tipicamente
derridiano, come si è visto) che dovrà essere liberata – ovviamente dalla filosofia
– al fine di vagliare il suo senso ultimo.
La lettura filosofica mostrerà
inevitabilmente – siamo qui al secondo postulato – la strutturale mancanza di
ogni discorso non filosofico in relazione al proprio fondamento. Queste «colpe»
(«fautes») non sono dei semplici «errori» circoscrivibili e isolabili, bensì
sono «quasi un misto fra peccato cristiano e lapsus freudiano»[36]. Questo perché valgono da sintomi di una
rimozione originaria, da parte del discorso, del proprio rapporto fondamentale
alla filosofia e allo stesso tempo sono colorati di una venatura di peccato, in
quanto esprimono una certa resistenza o rifiuto a farsi illuminare dalla verità
filosofica. Il passaggio fondamentale è però il terzo: perché la filosofia
possiederebbe la capacità di riconoscere tali «colpe»? Questo è possibile per
il fatto che essa esprime, nel suo discorso, la propria ulteriorità rispetto a
ogni discorso, a ogni evento, a ogni positività: «la filosofia non è che
ripetizione di un’origine più che originaria, e che eccede indefinitamente, nel
suo arretramento, tutto quel che essa potrà dire in ciascuno dei suoi discorsi
storici»[37].
La filosofia è in perpetuo eccesso sul suo stesso darsi: ciò che vi sarebbe di
“autenticamente” filosofico in essa sarebbe esattamente ciò che sopravanza il
suo stesso prodursi discorsivo – un’eccedenza che le consentirebbe così di
entrare in rapporto con il problema “originario” intrinseco in ogni sapere,
discorso, razionalità – . Ogni enunciato perde di importanza in confronto al
movimento filosofico che lo fonda (o che – la sostanza non cambia – lo mostra
nella sua originaria infondatezza) (kkkke che si manifesta nel gesto
infinitamente ripetuto della filosofia. Questo “eccesso” è ciò che Derrida nel
saggio dedicato a Foucault chiama per esempio «fondamento non storico della
storia», «storicità» o «différance», e che ancora in Du droit à la philosophie compare
nei termini di «supplemento di oggettivazione che non appartiene all’ordine
dell’oggettività» e più in generale come «decostruzione». Questi tre postulati
sono all’opera nella critica di Derrida a Foucault in Cogito e storia della follia, ma hanno
una valenza ben più ampia: «formano l’armatura dell’insegnamento della
filosofia in Francia» e consentono ad essa di apparire insieme come critica
universale di ogni sapere, come ingiunzione morale e come commentario infinito
dei propri stessi testi (siano essi i testi “canonici” o quelli “secondari”)[38].
Al di là della specifica ricostruzione
dei «tre postulati», ciò che emerge più generalmente in queste pagine è un
tentativo di pensare in un modo originale il “fuori” della filosofia. Se
quest’ultima si mostra richiusa su se stessa, «senza rapporto ad alcuna
esteriorità», non è tanto l’esteriorità delle poste in gioco direttamente
politiche, istituzionali, sociali, di prestigio accademico e così via che essa
esclude dal suo santuario, quanto l’esteriorità del suo proprio discorso, cioè dei
meccanismi che presiedono alla formazione di enunciati identificabili come
“veracemente” filosofici, situati dunque proprio nel cuore del dispiegarsi
della filosofia come tale. Si può comprendere meglio, allora, cosa Foucault
intenda quando afferma che i suoi testi «si collocano effettivamente al di
fuori rispetto alla filosofia»[39]:
non si tratta certamente di ripetere con altri nomi quell’eccesso estenuante
del “filosofico” rispetto a ogni sua sedimentazione discorsiva, come fa nel
modo più arguto e intelligente Derrida, ma neppure di assumere il punto di
vista di un’altra disciplina, per esempio della sociologia, in modo da poter
poi guardare la filosofia “da fuori”, come fa invece Bourdieu. L’esteriorità
rivendicata da Foucault non è “alla filosofia” in generale, ma «alla filosofia,
nel modo in cui la si pratica e la si insegna in Francia»[40],
e più precisamente alle regole di produzione che vi sono connesse: «forse, sono
proprio questi tre postulati che dovrebbero essere rimessi in discussione. In
ogni caso, è da questi che nel mio lavoro tento di affrancarmi, nei limiti in
cui è possibile liberarsi da quelli che, così a lungo, le istituzioni mi hanno
imposto»[41].
4.
L’analisi di Foucault può certamente, al
pari di quella di Bourdieu, essere di nuovo introdotta all’interno dell’oggetto
della sua analisi, cioè nella “filosofia”. È un po’ quel che suggerisce
Derrida, non solo – come si è visto – nei confronti del sociologo, ma
implicitamente anche nei confronti dello stesso Foucault, nel testo in cui nel
1992 ritornò sulla vecchia e ormai lontana polemica. Nel suo ripercorrere i
temi della controversia, Derrida afferma di «voler considerare la storia della
follia a parte subjecti, dalla parte dove si scrive e non
dalla parte di ciò che lei descrive»[42],
cioè di voler riflettere sul “punto di vista” assunto da Foucault. La domanda
sottesa a ciò, che ha anche un’evidente carica polemica, può essere formulata
così: come è possibile svolgere un’analisi del discorso, nel senso di Foucault,
se non re-installandosi ancora surrettiziamente nella posizione del
soggetto-filosofo, che si auto-rappresenta come in grado di padroneggiare
sovranamente l’intero campo del sapere, di produrre cioè ancora una
«oggettivazione completa», questa volta non più – come in Bourdieu – del campo
sociale, ma del campo discorsivo? E il discorso che si fa sul discorso, per
poter essere veramente tale, non necessita forse di raggiungere un piano
ulteriore a quello che esso assegna al proprio oggetto? In altre parole: il
progetto di una descrizione delle formazioni discorsive non implica proprio la
riproduzione di quel «rapporto fondamentale» a ogni conoscenza e a ogni
razionalità che Foucault stesso aveva individuato come prima regola di
formazione degli enunciati filosofici? Ancora una volta la filosofia si
rivelerebbe un gorgo senza via d’uscita: se la si ignora, le si lascia libero corso;
se si cerca di determinarla, si assume, volenti o nolenti, il suo punto di
vista e si subisce in maniera incontrollata (quindi “ingenua”,
“oggettivistica”, “metafisica”, ecc.) proprio il meccanismo che si intende
descrivere.
La traduzione dell’analisi di Foucault
in questi termini è ovviamente una possibilità praticabile dal pensiero,
tuttavia non sembra fare presa fino in fondo. La prospettiva foucaultiana
infatti non ha di mira tanto la “filosofia” in generale, quanto il modo
concreto in cui essa si articola discorsivamente: le modalità con le quali essa
costituisce i suoi oggetti, i suoi concetti, le posizioni di soggetto e
riconosce così ciò che può valere da “enunciato filosofico”. L’obbiettivo di
questa analisi non è dunque principalmente una «critica» della filosofia (tanto
è vero che Foucault si disinteresserà subito di questi temi[43]),
bensì il tentativo di praticare altre strade, cioè di scrivere dei libri che obbediscano ad
altre regole di formazione degli enunciati. Si può riconoscere qui ancora
una volta l’approccio genealogico foucaultiano, che consiste (per semplificare
al massimo) nel problematizzare un dispositivo dato (qui il dispositivo del discorso
filosofico) al fine di liberare la possibilità delle sue trasformazioni[44]. Per questo motivo, non ha molto senso
chiedersi se i libri di Foucault siano o meno “filosofici”: in tal modo si
presuppone il fatto che la “filosofia” abbia uno specifico assetto discorsivo,
immediatamente riconoscibile e assunto in maniera a-problematica; ciò che si
deve fare, piuttosto, è capire quali siano le regole di formazione degli
enunciati all’opera in tali libri, che, se si vuole, proprio per questo possono
essere considerati come dei tentativi di fare filosofia in modo nuovo.
La proposta foucaultiana assume così una
portata che va al di là di quanto fatto dallo stesso Foucault, in quanto dà
delle possibili indicazioni su come continuare a fare filosofia oggi. Il punto
fondamentale riguarda l’assunzione problematica del suo nucleo discorsivo, al
di là della sclerotizzazione che lo investe sia nella cosiddetta “letteratura
accademica” o “secondaria” (irrigidita nella forma discorsiva del commento[45]), sia nella filosofia “alta”, che cioè
non vuole limitarsi all’indagine storiografica ma intende proporre contenuti
filosofici “nuovi”. In quest’ultimo caso la filosofia riconosce se stessa, come
si è visto prendendo schematicamente in esame Derrida, nella rivendicazione
della propria “assenza di orizzonte”, insomma nella propria “eccedenza”
rispetto non solo a ogni sapere determinato, in qualunque modo poi questo
eccesso venga articolato, ma anche rispetto al proprio stesso farsi discorso.
Poiché però la filosofia deve pur prodursi discorsivamente, il modo per
rimarcare tale eccedenza sembra essere quello di conferirsi una completa
libertà nella scelta delle forme di questa produzione; di qui il ricorso
caotico e volutamente non padroneggiato a ogni genere di procedimenti
discorsivi (giochi di parole, strumenti linguistici come l’etimologia o la
metafora, oscurità, utilizzo fuori contesto di concetti scientifici e così
via), che non sembra per nulla casuale o inavvertito, ma anzi volto a un fine
ben preciso: mostrare la superiorità della filosofia sulle costrizioni del
discorso, riflesso linguistico della sua rivendicata irriducibilità a ogni sapere
positivo. L’analisi compiuta da Foucault con i suoi «tre postulati» è
importante perché smonta questo ingranaggio: anche questa “eccedenza sul
discorso” presenta in realtà una logica discorsiva ben precisa.
Per sottrarsi a questo esito, si può
pensare piuttosto a una filosofia che non nega la sua dimensione discorsiva e
che dunque si impegna riflessivamente nella comprensione e nella
problematizzazione dei modi che di volta in volta assume per istituirsi in discorso[46]. Questo significa in primo luogo
certamente riflettere sulla specificità degli oggetti che sono chiamati a
comparire nel discorso filosofico (di cosa si parla?). Ma un’analisi di questo
tipo non può essere svolta se non è accompagnata da una ancor più importante
riflessione controllata sui concetti e sui soggetti implicati
e insieme prodotti da tale discorso. Innanzitutto, che tipo di organizzazione
concettuale specifica mette in campo la filosofia, secondo quali strutture si
svolge il suo procedere e anche che tipo di rapporto si instaura con i concetti
propri di altri saperi. Il lavoro genealogico di Foucault può essere
considerato un esempio possibile di un approccio di questo tipo. In secondo
luogo, quale posizione o quali posizioni è chiamato a occupare il soggetto di
un discorso che intende costituirsi come filosofico. Ben prima del «ritorno
all’antico» compiuto negli anni Ottanta, Foucault abbozza questa strada già
nella risposta a Derrida, quando registra, nel discorso costituito dalle Meditazioni di Cartesio,
la presenza intrecciata di due piani differenti, quello della dimostrazione e
quello della meditazione, i quali implicano due diverse posizioni di soggetto
enunciante: nella prima esso «resta fisso, invariante e per così dire
neutralizzato», mentre nella seconda è «mobile e modificabile dall’effetto
stesso degli eventi discorsivi che vi si producono»[47].
Una formazione discorsiva implica sempre la costituzione non solo di una
specifica concatenazione concettuale, ma anche di specifiche soggettivazioni.
All’incrocio di questi due assi, che
potrebbero essere definiti un’epistemologia del concetto e un’etica del
soggetto, si apre una concreta modalità di praticare la filosofia. A
conclusione di una conferenza tenuta nel 1990 alla Société des amis de Jean Cavaillès, Georges
Canguilhem afferma: «Non posso concludere senza ricordare che uno di coloro che
hanno contribuito a screditare la filosofia dei professori, Jean-Paul Sartre,
sapeva bene dove cercare la filosofia. Nel suo “Autoritratto a 70 anni”
(conversazione con Michel Contat, Situations X), Sartre ha dichiarato: “Ho
sempre avuto della simpatia per gli stoici”, simpatia che, personalmente,
condivido. Ma lo stoicismo non è solo la serenità delle reazioni di fronte agli
eventi determinati da Zeus; è la pratica di una logica»[48].
Note
[1] I due
testi corrispondono rispettivamente ai numeri 102 (Mon corps, ce papier, ce feu) e 104 (Réponse à Derrida) deiDits et écrits (M.
Foucault, Dits et écrits 1954-1988, édition établie sous la dir. de D.
Defert e F. Ewald, 2 volumes, Gallimard, Paris 20012, pp. 1113-1136
e pp. 1149-1163; trad. it. del primo testo in Storia della follia nell’età classica, tr. it. di
F. Ferrucci e di E. Renzi e V. Vezzosi (appendici) Rizzoli, Milano 20042,
pp. 485-509; trad. it. del secondo testo in Il discorso, la storia, la verità.
Interventi 1969-1984, a cura di M. Bertani, Torino
20013, pp. 101-117.
[2] P. Macherey, Geometria dello spazio sociale. Pierre
Bourdieu e la filosofia, ombre corte, Verona 2014, p. 8.
[3] La matrice di questo tema
filosofico può essere rinvenuta, evidentemente, nella concezione heideggeriana
della differenza ontologica ente/essere, già a partire da Essere e tempo: come noto,
laddove «la totalità degli enti, secondo i suoi diversi dominii, può divenire
il campo in cui scoprire e delimitare particolari ambiti di cose, i quali (ad
esempio la storia, la natura, lo spazio, la vita, l’Esserci, il linguaggio
ecc.) possono essere tematizzati come oggetti delle corrispondenti ricerche
scientifiche» (M. Heidegger, Sein un Zeit (1927), tr. it. di P. Chiodi, nuova ed. rivista da F. Volpi,
Longanesi, Milano 2005, p. 21), la filosofia, come ontologia fondamentale, deve
mirare all’essere dell’ente: «La ricerca ontologica è certamente più originaria
che la ricerca ontica delle scienze positive. Ma resta anch’essa ingenua e
opaca se le sue indagini intorno all’essere dell’ente non prendono in esame il
senso dell’essere in generale» (ivi, p. 23). Questa impostazione, che contemporaneamente distingue la
filosofia dalle scienze positive e stabilisce la sua eccedenza rispetto alla
propria storia (metafisica ecc.), è la matrice non solo degli sviluppi
successivi della stessa filosofia heideggeriana, ma anche di molte tradizioni
che in un modo o nell’altro ad essa risalgono, talvolta anche in forma
esplicitamente polemica (dall’ermeneutica di impronta tedesca alla ricezione
francese della fenomenologia).
[4] J. Derrida, Cogito et histoire de la folie, in L’écriture et la différence, Éditions de
Seuil, Paris 1967; tr. it. di G. Pozzi Cogito e storia della follia, in La scrittura e la differenza,
introduzione di G. Vattimo, Einaudi, Torino 20023, p. 42.
[6] Ivi, p. 56. «Io credo, dunque, che sia possibile ridurre tutto a una totalità
storica determinata (in Descartes), tutto tranne il progetto iperbolico», cioè
la posta in gioco propriamente filosofica (ivi, p. 72).
[7] Sui concetti di “fonocentrismo” e
di “logocentrismo” come espressioni della metafisica, che qui mi limito a
nominare, il rinvio è a J. Derrida, De la grammatologie, Les Éditions de Minuit, Paris 1967;
tr. it. Della grammatologia, a cura di
G. Dalmasso, Jaca Book, Milano 19982.
[8] J. Derrida, Du droit à la philosophie, Éditions
Galilée, Paris 1990, p. 33 (quando non è specificato, le traduzioni sono mie).
Una parte di questo libro (le sezioni II e III) è stato tradotta in italiano:
J. Derrida, Del diritto alla
filosofia, a cura di F. Garritano, trad. it. di E. Sergio, Abramo, Catanzaro 1999;
in questa traduzione mancano però le parti a cui mi riferisco (introduzione e
parte I).
[10] Il tema della “promessa”, che si
connette a quello della “democrazia a venire”, verrà poi più ampiamente
trattato da Derrida in Politiques de l’amitié, Éditions Galilée, Paris 1994; tr. it.
di G. Chiaruzzi, Politiche dell’amicizia, Raffaello Cortina Editore, Milano
1995.
[11] Così P. Macherey, Geometria dello spazio sociale, cit., p. 7.
Se si volesse riassumere in una sola frase la disposizione di Bourdieu nei
confronti della filosofia, si potrebbe dire che egli intende sollevare con la
massima forza polemica «il dubbio radicale implicito nel ricordare le
condizioni sociali della filosofia» (P. Bourdieu, Méditations pascaliennes, Éditions de
Seuil, Paris 1997; tr. it. di A. Serra, Meditazioni pascaliane, Feltrinelli, Milano 1998, p. 39).
[12] P. Bourdieu, La distinction, Les
Éditions de Minuit, Paris 1979; tr. it. di G. Viale La distinzione. Critica sociale del
gusto, a cura di M. Santoro, Il Mulino, Bologna 2001, p. 510.
[13] Ivi, p. 509. Un’ampia analisi
sociologica interamente dedicata alla filosofia di Derrida, che dialoga con
quella offerta da Bourdieu, è quella di M. Lamont, How to Become a Dominant French
Philosopher: The Case of Jacques Derrida, «American Journal of Sociology», 93 (1987),
n. 3, pp. 584-622.
[15] Bourdieu, La distinzione, cit., p.
511. Cfr. anche Bourdieu, Meditazioni pascaliane, cit., pp. 37-38.
[16] È Macherey che parla di un «sordo
rancore» che traspare dalle pagine di Bourdieu dedicate alla filosofia (Macherey,Geometria dello spazio sociale, cit., p.
25).
[18] Derrida, Du droit à la philosophie, cit., p.
118; il saggio Où commence et comment fini un corps enseignant (pp.
111-153), da cui è tratta questa citazione, è comparso originariamente nel
volume Politiques de la
philosophie, Éditions Grasset & Fasquelle, Paris 1976, di cui esiste la traduzione
italiana: Politiche della
filosofia, tr. it. di A. Jeronimidis, Sellerio, Palermo 20032; il saggio
di Derrida, Dove comincia e come
finisce un corpo insegnante, è alle pp. 40-70, qui p. 45 (tr.
leggermente modificata).
[21] Questa idea è condivisa anche da
Macherey: «Bourdieu, diversamente da quanto sosteneva, non è mai “uscito”, o
almeno non completamente, dalla filosofia: la sua critica radicale della
filosofia, ridotta ad attività “scolastica”, per riprendere l’espressione che
ritorna incessantemente nei suoi scritti, lo ha riportato, proprio per la sua
stessa radicalità, alla filosofia» (Macherey, Geometria dello spazio sociale, cit., pp.
7-8). Tuttavia, anche se per alcuni aspetti l’analisi di Macherey si avvicina
allo stile derridiano (per es. nella volontà di individuare una «filosofia
implicita» di Bourdieu), la sua analisi è per altri aspetti diversa e anche più
articolata (cfr. soprattutto il secondo saggio, «Meditare Pascal»).
[24] La “riforma Haby”, voluta nel 1975
da René Haby, ministro dell’istruzione nel primo governo Chirac (1974-76) sotto
la presidenza di Giscard d’Estaing, prevedeva tra le altre cose una notevole
riduzione dell’insegnamento della filosofia nel sistema scolastico francese.
Nel contesto della lotta a questa riforma, Derrida è tra i principali
fondatori, nel 1974, del Greph (Groupe de Recherches sur l’Enseignement Philosophique), che non si
voleva limitare a una difesa dello status quo, bensì sosteneva la necessità di un allargamento dell’insegnamento filosofico a tutte le classi. La posta in gioco
della riforma Haby e il significato da attribuire al Greph sono fra i temi
principali dei saggi raccolti da Derrida in Du droit à la philosophie. Al riguardo
cfr. più ampiamente F. Garritano, Giustificare un titolo, in Derrida, Del diritto alla filosofia, cit., pp. 7-71, in partic. pp. 11-25.
[27] Nel secondo capitolo di La parola universitaria, Macherey
prende in esame l’«idioma universitario» e si riferisce anche brevemente alla
nozione di discorso in Foucault (P. Macherey, La parole universitaire, La Fabrique
éditions, Paris 2011; tr. it. La parola universitaria, a cura di A.S. Caridi, Orthotes,
Napoli-Salerno 2013, p. 154). Tuttavia egli svolge poi la sua analisi
richiamandosi alla teoria dei discorsi di Lacan (in particolare alla differenza
fra discorso del padrone e discorso universitario) e alle ricerche sociologiche
degli anni Sessanta di Bourdieu e Passeron sull’«idioma universitario». La
prospettiva che qui cerco di seguire differisce da quella segnata da Macherey sulla
scorta di Lacan e di Bourdieu/Passeron, non solo o non tanto per il riferimento
privilegiato a Foucault, quanto per una diversa finalità: non si tratta di
ricostruire il «discorso dell’università» (quindi le forme discorsive
direttamente implicate nell’istituzione universitaria), bensì appunto il
«discorso della filosofia», cioè le regole che consentono di definire un
enunciato come appartenente a uno specifico campo discorsivo, anche al di là
della sua “presa” istituzionale da parte dell’università.
[31] Il concetto è coniato per la prima
volta da J. Lacan nel Seminario VII (Le séminaire livre VII. L’éthique de la psychanalyse, texte
établi par J.-A. Miller, Éditions de Seuil, Paris 1986, p. 167; tr. it. Il seminario libro VII. L’etica della
psicanalisi, a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 20082, p. 165), poi
più ampiamente nel Seminario XVI (Le séminaire livre XVI. D’un autre à l’Autre, Seuil,
texte établi par J.-A- Miller, Éditions de Seuil, Paris 2006, cfr. in partic.
pp. 224 sgg.).
[32] M. Foucault, L’archéologie du savoir, Gallimard,
Paris 1969, p. 141; tr. it. L’archeologia del sapere, a cura di G. Bogliolo, Rizzoli, Milano
19993, p. 144. Ovviamente non è possibile seguire con l’ampiezza che
merita la concezione foucaultiana su questo punto e su quelli che seguono,
poiché si tratterebbe di affrontare per intero almeno L’archeologia del sapere, oltre che
ovviamente la prolusione pronunciata al Collège de France due anni dopo (L’ordine del discorso), dove la
prospettiva è ulteriormente ampliata ma dove tuttavia manca una definizione
precisa del termine. Al riguardo rinvio a P. Cesaroni, La distanza da sé. Politica e filosofia
in Michel Foucault, Cleup, Padova 2010, cap. 3.
[33] Foucault, L’archéologie du savoir, cit., p.
141; tr. it. p. 144. Gli esempi citati da Foucault in questo passo sono
evidentemente gli oggetti di Storia della follia, Nascita della clinica e Le parole e le cose.
[42] J. Derrida, “Être juste avec Freud”.
L’histoire de la folie à l’âge de la psychanalyse, in Penser la folie, Éditions
Galilée, Paris 1992; tr. it. di G. Scibilia, “Essere giusti con Freud”. La
storia della follia nell’età della psiocanalisi, a cura di
P. Rovatti, Raffaello Cortina Editore, Milano 1994, p. 32. Non è mia intenzione
entrare nei dettagli della polemica a distanza Derrida-Foucault, né nelle
modalità con le quali Derrida cerca di ritornarci in questa conferenza degli
anni Novanta; al riguardo rimando all’ottima Introduzione di Pier
Aldo Rovatti (ivi, pp. 7-19).
[43] Negli interi Dits et écrits, al di là
delle due versioni del testo di cui ho parlato, esiste un unico altro
riferimento a Derrida all’interno di un’intervista, molto polemico ma
incidentale, che comunque vale la pena riportare: «Qualche anno fa c’era
un’abitudine, direi, “alla Heidegger”: ogni filosofo che faceva una storia del
pensiero o d’una branca del sapere doveva partire almeno dalla Grecia arcaica e
soprattutto non andare mai aldilà. Platone non poteva essere che la decadenza a
partire dalla quale tutto cominciava a cristallizzarsi. Questo tipo di storia
in forma di cristallizzazione metafisica stabilita una volta per tutte con
Platone, ripresa qui, in Francia, da Derrida, mi sembra desolante» (M.
Foucault, Prisons et asiles dans
le mécanisme su pouvoir, DE 1, cit., n. 136, p. 1389).
[44] Questo è il modo specifico nel
quale a mio avviso si può declinare la prospettiva aperta da Sandro Chignola:
«Studiare Foucault nei suoi testi non significa riassegnarlo alla filosofia.
Significa piuttosto ripensare la stessa filosofia» (S. Chignola, Foucault oltre Foucault. Una politica
della filosofia, DeriveApprodi, Roma 2014, p. 5).
[45] Sulle regole di formazione del
discorso come commento, si veda sempre di Michel Foucault l’introduzione a Nascita della clinica.
[46] «Un enunciato, un concetto
filosofico non nascono certo in qualsiasi modo e in qualsiasi momento.
Obbediscono, lo ripeto ancora, a precise regole di produzione»: così F.
Chatelet, La questione della
storia della filosofia oggi, in Politiche della filosofia, cit., pp.
23-39, qui p. 38. La prospettiva delineata da Chatelet in questo saggio e più
generalmente nel suo ampio lavoro storico-filosofico è, anche se solo per alcuni
aspetti, convergente con la linea che qui mi limito a indicare; non a caso la
citazione sopra riportata è subito preceduta da un riferimento, a mio avviso
non casuale, alla genealogia in Foucault.
[48] G. Canguilhem, Qu’est-ce qu’un philosophe en France
aujourd’hui?, «Commentaire», 53 (1991), n. 1, pp. 107-112, qui p. 112.
Questo saggio
fa parte del volume collettivo Politiche
della filosofia. Istituzioni, soggetti, discorsi, pratiche, curato da Pierpaolo Cesaroni e Sandro
Chignola, e appena uscito per DeriveApprodi].
http://www.leparoleelecose.it/ |