Adrian Johnston | I. Ogni materialismo degno di questo
nome deve prevedere elementi provenienti dal naturalismo e dall’empirismo.
D’altro canto, è necessario che non sia semplicemente ed esclusivamente naturalista
o empirista nel senso tradizionale (soprattutto pre-kantiano) di queste
etichette (e, nel caso dei materialismi sviluppatisi sulla scia dell’idealismo
tedesco, includendo tra questi il materialismo trascendentale, non dovrebbero
esserlo). Ne consegue che ogni razionalismo anti-naturalista, di qualsiasi
guisa esso sia, non può simultaneamente essere qualificato come materialista.
Sebbene un razionalismo anti-naturalista possa risultare compatibile con il
realismo (metafisico), ciò non lo rende per nessuna ragione compatibile con un
materialismo in senso stretto. In altre parole, non esiste alcun materialismo
interamente formalista; con riferimento alla nascita delle scienze moderne, non
c’è Galileo senza Bacone. L’avversione per il metodo sperimentale delle scienze
naturali moderne, e ugualmente il rifiuto di legare la conoscenza a tragitti di
acquisizione primariamente empirici, trascinano il pensiero per sentieri che
conducono a un pitagorismo anacronistico, dualismi ontologici, idealismi
spirituali, misticismi religiosi, e un disordinato e proliferante sciame di
confabulazioni, illusioni,fantasticherie, fantasie e deliri che presenta se
stesso come un filosofare rigoroso e responsabile. Inoltre, nella misura in cui
un materialismo quasi-naturalistico permeato dall’empirismo, alla fin dei
conti, non corrisponde e non equivale a un determinismo rigido e meccanico; una
sensibilità materialista in sintonia con le scienze naturali non deve essere
temuta come se fosse il primo varco per la chiusura immediata di ogni spazio
per una soggettività autonoma, e tutto ciò che essa porta con sé.
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Foto: Adrian Johnston |
Ammettere e accettare quanto detto non equivale a una
deplorevole degradazione scientista della filosofia dalle vette dell’estrema hybris:
da regina delle scienze, alla profonda umiliazione di essere loro ancella. Un
riconoscimento e una riconciliazione dell’irregolarità che si manifesta
storicamente, nella quale è l’empirico a dare avvio al formarsi e
riformarsi dei confini tra se stesso e il non-empirico, non comporta una resa
della filosofia; tanto meno si tratta di una concessione in base alla quale
questa formazione e ridefinizione è sempre, può o dovrebbe essere interamente e
completamente decisa solo dal versante empirico che, a ogni modo, di per sé non
è mai del tutto empirico. La filosofia continua a essere chiamata a esercitare
le sue obbligazioni inalienabili: porre criticamente e valutare le
presupposizioni più-che-empiriche che soggiacciono dietro le scienze;
facilitare e parzialmente strutturare le discussioni tra le diverse
scienze; esplorare teoreticamente le estrapolazioni tratte dall’attuale
interazione tra filosofia e scienze, per il futuro beneficio di tutte le
discipline coinvolte. Le molteplici relazioni tra l’empirico e il non-empirico
non vanno predeterminate, ma, piuttosto, lasciate aperte a ripetute
negoziazioni, contraddistinte da un’appropriata sensibilità
dialettico-speculativa (oppure, in termini leninisti, da analisi concrete di
situazioni concrete).
III. La
“rivoluzione copernicana” rappresentata dalla svolta critico-trascendentale
avvenuta sul finire del diciottesimo secolo segna un punto di non ritorno, una
rottura in due (per dirla in uno stile nietzschiano) della storia della
filosofia, e della speculazione teoretica in generale. I tentativi
anacronistici di tornare a un momento precedente tale rottura epocale sono
destinati, sin dal loro inizio, al fallimento intellettuale, divenendo
nient’altro che dogmatismi condannati immancabilmente a una rovina dialettica
auto-generata, che terminano per attorcigliarsi in una rete asfissiante di
contraddizioni pre-critiche insolvibili (lasciando da parte l’ironia del
denunciarne il dogmatismo, mentre si enuncia bruscamente una serie di tesi –
che dimostrabilmente possono essere difese su basi non-dogmatiche). Per
esempio, gli sforzi contemporanei di rompere con Kant attraverso la ripresa di
una metafisica della sostanza – così alla moda e diffusa nel continente europeo
durante il diciassettesimo secolo (si veda soprattutto lo spinozismo) – possono
solo re-imprigionare la filosofia in un’arena recintata fatta di scontri
interminabili e improduttivi, in una proliferazione moltiplicativa e senza
limiti di contendenti che puntano i piedi e sbattono i pugni, incapaci di
sbarazzarsi definitivamente l’un dell’altro. Contro il kantismo si riattivano
solo esplosioni regressive e impotenti, e nulla più.
Ciò non significa che l’idealismo trascendentale kantiano
sia la vetta insuperabile della storia della filosofia. Bisogna invece
ammettere che il solo percorso davvero disponibile per oltrepassare Kant passa
attraverso di lui, ovvero non è possibile superarlo tutto d’un colpo. Una delle
lezioni cruciali dell’esplosione idealista tedesca – avviata dalla filosofia
kantiana, e dalle controversie che la circondano – è che il solo modo effettivo
per superare non-dogmaticamente il soggettivismo kantiano, e la sua opposizione
al materialismo e a un robusto realismo, è una critica immanente all’idealismo
trascendentale. Alla stessa maniera, se non è plausibile una resurrezione
filosofica e una rivitalizzazione della speculazione pre-kantiana, non è
nemmeno opzione convincente o accettabile un ritorno innocente a un Kant
pre-hegeliano. Come la rivoluzione critica, così la critica hegeliana a Kant,
poiché inaugura una traiettoria post-kantiana nella filosofia kantiana e
attraverso di essa, non può essere ignorata o elusa. Questa critica include
diverse dimostrazioni: delle presupposizioni dogmatiche, perché non-critiche;
delle investigazioni apparentemente critiche interne al pensare la soggettività
(soprattutto per quanto riguarda un’antropologia e una psicologia filosofica);
dell’operazione dialettica di auto-decostruzione della figura del limite basata
sulla distinzione tra noumeni e fenomeni; e della tormentata inconsistenza e
nullità della scellerata cosa-in-sé. Un materialismo realista e
quasi-naturalista non solo non deve essere dogmatico in quanto post-critico,
anziché pre-critico – arrivando a criticare l’idealismo trascendentale
attraverso un passaggio immanente e non esterno a esso –, ma deve anche tener
conto dell’eredità formidabile dell’ “idealismo assoluto” della dialettica
speculativa hegeliana.
IV. Seppure sia
evidente che tutti i riferimenti appena proposti appartengono al mondo di
lingua tedesca della fine del diciottesimo e dell’inizio del diciannovesimo
secolo, il materialismo trascendentale, così come i materialismi storici e
dialettici di cui sono un’estensione nel ventesimo secolo, è decisamente
anti-romantico, anti-pietista e anti-luddista (animosità mutuate felicemente e
con riconoscenza dalla tradizione marxista). Come risaputo, il Romanticismo e
il Pietismo, condividendo gusti discutibili per l’ineffabile e il privato,
finiscono con il convergere, sovrapponendo influenze interne al milieu intellettuale
che circonda Kant e gli idealisti a lui contemporanei e successivi.
Sfortunatamente, questi irrazionalismi religiosi e pseudo-secolari continuano a
gettare le loro ombre sul presente, seppure essere così Sturm und Drang non
abbia alcun senso.
Oggigiorno, questo Romanticismo con venature religiose è
esemplificato da una varietà di heideggerismi antiquati, con le loro fissazioni
reazionarie e le preoccupazioni per crisi apparentemente “spirituali”, che
esprimono forse la necessità di un re-incantamento e una re-sacralizzazione
anti-scientifici. Si tratta di diagnosi erronee che distraggono
pericolosamente. Seppur vaghe e indirette, le associazioni tra
(neo-)Romanticismo e la destra, fino a giungere al fascismo, non sono
coincidenze storiche casuali. Sia filosoficamente che politicamente, dal
diciottesimo secolo a oggi, tali pericolosi oscurantismi, che affondano le loro
radici nell’atmosfera stagnante del protestantesimo del Sacro Romano Impero,
sono stati e rimarranno causa di deplorevoli disastri intellettuali. Uno degli
slogan agguerriti – validi per ogni materialismo contemporaneo indebitato con
Hegel, Marx, Freud, e Lacan, tra gli altri – è “Dimenticate Heidegger!”. Su un
piano teoretico più che immediatamente pratico, ciò comporta il rifiuto di
costruire un’ontologia lungo le linee della differenza ontologica
heideggeriana. Questa distinzione tra ontologico e ontico, insufficientemente
dialettica ed eccessivamente netta e pulita, conduce dritti a un offuscamento
fondamental(ista) dell’effettiva esistenza materiale del naturale/non-umano e
del non-naturale/umano, nonché a oscure pseudo-spiegazioni spiritualiste
che, sulla base di un Essere divinamente opaco, danno ragione delle
strutture e dinamiche storiche.
Come i romantici e i pietisti in precedenza, numerosi
post-idealisti del diciannovesimo e del ventesimo secolo finiscono con il
proporre un facile misticismo, la cui sottesa logica basilare è difficilmente
da distinguibile da quella della teologia negativa. La spina dorsale rimane
invariata: esiste una data “x”; questa “x” non può essere afferrata
razionalmente o discorsivamente da nessuna categoria, concetto, predicato,
proprietà, etc.; nondimeno, l’unico vero compito del pensiero è quello di
contornare senza fine questo vuoto sacro di ineffabilità, ripetendo ad
infinitum, (e ad nauseum) il gesto di afferrare ciò che si presume
inafferrabile. I nomi di questa “x” vuota variano, mentre il modello rimane
costante: la Volontà, la Vita, il Potere, il Tempo, l’Essere, l’Altro, la
Carne, la Differenza, il Trauma, e così via (fino a certe versioni
pseudo-lacaniane del Reale). Non solo questo stampo teologico-negativo così
noiosamente prevedibile è di per sé uno schema concettuale che afferra tutto
con eccessiva facilità, ma anche se si intendesse prendere per valida la verità
di una o più di queste ineffabilità, così come propugnate dai loro numerosi ed
entusiasti sostenitori, esistono questioni e urgenze molto più forti nel
pensare cosa fare, anziché rimanere assorbiti nel sedentario esercizio meditativo
di far nulla mentre si fissa il fondo scuro dell’abisso.
V. Affinché un
materialismo poggi sulle spalle di Kant, Hegel, Marx e Freud, e non sia né
deterministico, o meccanicistico, o riduttivista, né eliminativo, la sua
ontologia materialista deve essere retro-progettata a partire da una teoria
della soggettività. Nello spirito della diagnosi elaborata da Marx nella prima
delle undici “Tesi su Feuerbach”
(1845) sui limiti dei materialismi puramente “contemplativi” sviluppatisi dagli
antichi fino a Feuerbach – se Marx se ne renda conto o meno, questa diagnosi è
una permutazione dell’ingiunzione hegeliana di rendere la sostanza anche come
soggetto – i soggetti più-che-materiali/naturali devono essere immaginati come
simultaneamente immanenti alle esistenze asoggettive materiali/naturali
(ovvero, come sostanze, per rimanere alle parole usate da Hegel). Da
un’angolazione post-critica, la soggettività è trascendentale perché condizione
di possibilità non solo per ogni materialismo in quanto apparato teoretico, ma
per la filosofia e il pensiero in generale. Una via di fuga dai confini mentali
delle varianti soggettivamente idealiste del trascendentalismo, se realizzata
in maniera filosoficamente difendibile, deve prendere le mosse dall’interno di
questi confini (o, come posto da Meillassoux, un “correlazionismo”
anti-realista, le cui fondamenta vanno situate nell’idealismo trascendentale
kantiano, deve essere disfatto dall’interno). Questo “lavoro dall’interno” di
una critica immanente del trascendentalismo soggettivamente idealista è la sola
strada per giungere a un meta-trascendentalismo materialista e realista, non
dogmatico e razionalmente giustificato, che delinei le condizioni di
possibilità sostanziali per una soggettività trascendentale.
Ciò si risolve in una metafisica (in quanto epistemologia e
ontologia integrate sistematicamente) del soggetto trascendentale,
interconnesso con un’ontologia corrispondente della sostanza
meta-trascendentale. Il soggetto del materialismo trascendentale, oltre a
essere trascendentale in senso classico, è trascendente specificatamente come
trascendenza-in-immanenza in relazione al Reale degli esseri materiali. Con
riferimento a “Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco”
(scritto da Hegel di proprio pugno, ma forse originariamente composto da
Hölderlin), il materialismo trascendentale presenta se stesso come l’ultimo
sistema-programma dell’idealismo tedesco, ovvero, come un nuovo “spinozismo
della libertà”, in quanto ontologia (quasi-)naturalista di soggetti autonomi
denaturalizzati. Questo materialismo è una riattivazione eterodossa dell’agenda
nata a Tubinga all’indomani di quell’evento di rottura rappresentato da Darwin
e dall’era emergente dell’antropocene.
VI. Il ponte
scientifico per un resoconto materialista post-hegeliano della soggettività
trascendent(al)e, in quanto emerge e rimane immanente alla sostanza fisica,
deve essere biologico. La transizione dalla Filosofia della Naturadi Hegel
alla sua Filosofia dello Spirito, e l’antropologia filosofica e la psicologia
di quest’ultima, già supportano tacitamente il privilegiare la biologia. Sulla
scia di Darwin (e a dispetto dell’affrettato rifiuto da parte di Hegel di certi
precursori delle visioni darwiniane), l’evoluzione e la genetica, tra le altre
aree della biologia, devono essere componenti integranti di tale materialismo
più-che-empirico, senza, al tempo stesso, mettere da parte le sue cruciali
connessioni con gli oggetti empirici.
Le due principali alternative alle scienze della vita per
colmare il gap tra la sostanza e il soggetto sono entrambe problematiche
seppure in maniera distinta. Da un lato, un a priori puramente
filosofico, che rifugge l’a posteriori delle scienze naturali come
rilevanti per una tale ontologia materialista e una teoria della soggettività
irriducibile, può fornire, tutt’al più, suggestive congetture ipotetiche o, al
peggio, voli di fantasia dogmatici senza fondamento. Dall’altro, il gesto di
legare il materialismo a domini scientifici al di sopra e al di sotto della
scala della biologia (ovvero, a scienze diverse da quelle della vita) porta con
sé il rischio imminente di rinforzare, magari inavvertitamente, visioni del
mondo materialiste di tipo meccanicistico, riduzionista o eliminativo che non
lasciano spazio effettivo per quella negatività autonoma personificata dai
soggetti umani e dalla loro mente. Le obiezioni per cui l’affidarsi alla fisica
dell’estremamente piccolo, come la meccanica quantistica o la teoria delle
stringhe, non reintroduce materialismi classicamente deterministi non sono
convincenti. Ci sono due ragioni per dubitarne: primo, non c’è correlazione
evidente che l’arcana dinamica dei processi quantici, per quanto misteriosa,
comporti degli effetti per l’autonomia del soggetto; e, secondo, la supposta
rilevanza di tale processi che operano su una dimensione così piccola per
oggetti di scala molto più grande, il loro verificarsi per gli esseri umani e
le loro esistenze è questione di fede empiricamente non verificabile nell’unità
fisica ultima e nella coesione causale di strati e livelli multipli tra gli
esseri materiali. Rispetto a questa seconda ragione di scetticismo, un
materialismo non riduzionista, che miri a sostenere una teoria della
soggettività che emerga con forza, contraddice nei fatti se stessa se pone una
continuità sostanziale tra la fisica del microcosmo e la biologia, in quanto
quest’ultima si occupa di entità significativamente più grandi. Tale
materialismo non deve seguire le orme di Penrose.
Inoltre, le speculazioni e le esplorazioni al di sopra e al
di sotto della banda delle scale di ingresso spaziali e temporali delle scienze
biologiche, per quanto riguarda il passato recente fino ai tempi attuali,
andrebbero lasciate a quelle discipline scientifiche come la cosmologia,
l’astrofisica, la meccanica quantistica, la teoria delle stringhe e simili.
Questo per dire, per quanto riguarda l’inimmaginabilmente grande e
l’inimmaginabilmente piccolo, che le riflessioni teoretiche, se del tutto
disconnesse da ogni elemento empirico, sono solo un misero sostituto della
molto più accurato, controllata e limitata teorizzazione lanciata dalla
piattaforma fornita da queste discipline (persino la teoria delle stringhe,
malgrado i dibattiti sul fatto che vada considerata una teoria scientifica in
senso stretto, è derivata con una certa precisione da risultati, questioni e
problemi interni alla fisica sperimentale). In altre parole, quando si giunge a
oggetti molto più grandi o molto più piccoli della realtà umana – che si pone
nel mezzo per dimensioni – può dirsi concluso il tempo storico di una filosofia
improvvisata, che legifera. Le riflessioni interamente non-empiriche su questi
reami si riducono a fantasie dogmatiche del tutto infruttuose.
VII. Per il
materialismo trascendentale, per così dire, non esistono illusioni. Con più
esattezza, questa variante del materialismo rifiuta di respingere ogni
dimensione soggettiva come epifenomeno, ovvero, come puramente illusoria, in
quanto causalmente inefficace. L’enfasi di Hegel sulla necessità di pensare la
sostanza anche come soggetto comporta l’obbligo complementare di
concettualizzare il soggetto come sostanza. Questa reciprocità riflette il suo
immanentismo post-spinozista (in entrambi i sensi del qualificativo “post-”) in
cui la soggettività trascendent(al)e nondimeno rimane immanente alla sostanza
in una relazione dialettico-speculativa di una “identità di identità e
differenza”. Pensare il soggetto come sostanza, passo cruciale per un
materialismo trascendentale, implica trattare la soggettività e i fenomeni
connessi con essa come “astrazioni reali” – una nozione marxiana presagita da
Hegel e reimpiegata dal Lacan che, come è ben noto, respinse e confutò un
popolare graffito parigino del maggio sessantottino, sostenendo che “le
strutture camminano per strada” che “hanno gambe” (forse congiunte con i piedi
della storia che marcia di Marx). In quanto reali, ovvero non illusorie, tali
astrazioni sono causalmente efficaci e lontane dall’essere meri epifenomeni.
Riprendendo le parole di Hegel, il pensiero del concreto separato dall’astratto
è di per sé il culmine dell’astrazione.
Inoltre, concepire la soggettività come sostanziale, come
interna nella sua irriducibilità alle basi soggettive del suo vero essere,
spinge a rigettare ogni materialismo strettamente contemplativo (sia esso
meccanicistico, riduzionista o eliminativista). Al di là delle profonde
inadeguatezze epistemologiche della prospettiva contemplativa – come per la
critica di Hegel e Schelling a Spinoza, e di Marx a Feuerbach, i contemplatori
falliscono nel porre la domanda cruciale, le questioni inevitabili su come o
perché ciò che contemplano ha dato origine alla contemplazione (incluse le
loro), tanto per cominciare – è insoddisfacente anche da una angolazione
ontologica. Se i soggetti, senza escludere quelli contemplativi, sono del tutto
immanenti al registro ontologico della sostanza, allora un’ontologia che
implicitamente o esplicitamente li esclude è necessariamente incompleta. Questa
carenza è particolarmente irritante in quanto segno della mancanza evidente di
una spiegazione delle cause per un essere asoggettivo che genera da sé, tra le
molte altre cose, ogni e qualsiasi ontologia in quanto riverbero soggettivo che
si riflette su (e in) questo stesso essere asoggettivo. Parafrasando Marx,
si potrebbe chiedere: Chi contemplerà i contemplatori?
VIII. Il
materialismo trascendentale è tutto meno che un positivismo scientifico, una
semplicistica e riduzionista metafisica nella quale solo la
materia-in-movimento – fisicamente presente nel qui ed ora – è considerata reale.
In linea con l’idea della “causalità privativa” – rintracciabile nei lavori che
vanno da Locke a Kant, Hegel, e oltre –, esso riconosce la reale efficacia
causale delle assenze, dei conflitti, dei vuoti, delle mancanze e via dicendo.
In altre parole, le negatività (in primo luogo quelle associate con il soggetto
di stampo cartesiano) sono agenzie causali reali, immanenti al solo piano
dell’essere materiale (o degli esseri materiali). Allinearsi alle scienze non
esime il materialismo dal confronto con queste privazioni e con i loro effetti
palpabili, malgrado le scienze naturali siano spesso affette da una sfortunata
e problematica tendenza spontanea al positivismo che, per così dire, abborrisce
acriticamente il vuoto.
Sebbene il materialismo trascendentale affermi, piuttosto
che negare, la realtà della negatività, questa posizione, se intesa in senso
propriamente materialista, deve essere contrapposta a un’interpretazione
mistica del negativo. Quest’ultima tende a prevalere in quelle filosofie
che trattano il negativo come ontologicamente reale, dal pensiero cristiano di
Pico della Mirandola nel Rinascimento a quella agambeniana, e altre ben lontane
da un ateo status quo. L’oscurantismo di questo tipo di proposte, passate
e presenti, consiste nel fare appello al chiarificatore non-chiarificato o
spiegato di un Nulla già-da-sempre operativo, che – situato al cuore e
nell’anima della soggettività (se non dell’Essere stesso) – è capace di dar
conto delle datità fattuali. In riferimento alle origini genetiche (siano esse
spiegate in termini ontologici o filogenetici) questo Vuoto enigmatico e opaco
proviene da Dio- solo-sa-dove. Con riferimento al fondamentale saggio di
Sellars “Empirismo e la filosofia della mente”, si potrebbe dire che i mistici
del negativo si basano sul mito del non-dato, ovvero sul non-darsi del
Nulla/Vuoto come presunta datità fondante elementare. In contrasto, una
teoria materiale della negatività si articola a partire dalla necessità di
interrogarsi sull’interconnessione tra origine filogenetica e
ontogenetica del Nulla/Vuoto come, del resto, sul bisogno di rispondere a
questa domanda in modo strettamente materialista (per esempio senza
super-imposizioni spiritualiste, mascherate attraverso il ricorso a presupposti
e postulati che implicano entità ed eventi totalmente inspiegabili rispetto
alle realtà della materia e della natura). Parallelamente all’elaborazione
della filogenesi e dell’ontogenesi all’interno di una cornice teoretica in cui
darwinismo, marxismo, e psicoanalisi freudiano-lacaniana si intrecciano tra
loro, la teoria non-mistica degli oggetti negativi proposta dal materialismo
trascendentale si basa su un principio per cui “more is less” (per
ribaltare un cliché). Il “più” di un accrescimento non finalizzato e
accidentale di componenti contingenti e costituenti materiali nel corso del
tempo ha il potenziale per dare origine a un crescente grado di complessità,
nella forma di sistemi che si modellano nelle e attraverso relazioni – tra loro
in risonanza – tra queste componenti e costituenti materiali accumulatisi
(questo è quanto è accaduto nelle storie naturali e non-naturali alle spalle
della realtà contenente gli esseri umani per quello che effettivamente sono).
Oltre certe soglie, tale complessità – prodotta da nulla che sia per magia
inspiegabile in termini naturali o materiali – genera da sé, in modo immanente
e attraverso cortocircuiti e auto-sovvertimenti, il “meno” di antagonismi
efficacemente causali, di scontri, disfunzioni, divisioni, malfunzionamenti e
così via (ovvero negatività) all’interno e tra i diversi elementi che
contribuiscono al sorgere della complessità. Per dirla in altro modo, il “più”
rappresentato da un surplus di parti positive produce, in una reale dinamica
dialettica, il “meno”, ovvero un deficit di coordinazione equilibrata e
armonica nelle forme di strutture e fenomeni negativi caratterizzati da
assenze, conflitti, vuoti e mancanze che perturbano sia le realtà materiali
naturali che quelle de-naturalizzate dall’interno. La negatività del soggetto
di tipo cartesiano può e dovrebbe essere spiegata materialmente, anziché
lasciata inspiegata su un piano mistico, essendo l’immagine speculare idealista
della giustificazione materialista pre/non-dialettica, messa in circolo da una Weltanschauungenmeccanicistica,
riduttivista ed eliminativista.
IX. Affinché
questo “più recente programma-sistema dell’idealismo tedesco” (per esempio il
materialismo trascendentale), nel quale la sostanza è pensata come soggetto e
viceversa, possa darsi in maniera soddisfacente, è necessario sia un
trascendetalismo del soggetto (da intendersi come le condizioni sufficienti per
il corretto costituirsi di soggetti autonomi) sia un meta-trascendetalismo
della sostanzialità (da intendersi come le condizioni necessarie di questo
soggetto). Riguardo alle necessarie condizioni meta-trascendentali, il
materialismo trascendentale, come anche un (quasi-)naturalismo attentamente
definito, propone solo una “natura debole” come il grado-zero della sua
ontologia. Combinando vocabolario lacaniano, badioudiano e žižekiano, la
nozione di naturale non fa riferimento alla Natura con la “N” maiuscola come il
Tutto-Uno di un ulteriore grande Altro, e non propone nemmeno una
archi-macchina altamente coordinata come le lancette di un orologio (in linea
con il demone di Laplace e il materialismo meccanicista) né, tanto meno, un
super-organismo cosmico olistico (sulla scia di un organicismo romantico che
include i lati più romantici e spinoziani della Naturphilosophie di
Schellining). Anziché essere una grandiosa totalità apparentemente auto-sufficiente
e chiusa entro se stessa (e quindi “forte”), il Grund als Ur/Un-Grund della
natura senza-Altro è “debole” poiché frammentario e inconsistente,
definito attraverso negatività irriducibili che impediscono qualsiasi sintesi
totalizzante del campo degli innumerabili esseri materiali. In aggiunta alle
analisi di Lacan, Badiou e Žižek, alle intuizioni di Hegel sull’“Ohnmacht der
Natur”, il “naturalismo della seconda natura” di McDowell e il “mondo
screziato” di Cartwright (forma di “pluralismo nomologico” ottenuto attraverso
una ontologizzazione delle analisi epistemologiche di Hume sulla causalità)
sono gli ingredienti chiave di questa riconcettualizzazione della natura, nella
quale la sua forza apparente è neutralizzata (specialmente il suo potere
deterministico apparentemente esercitato attraverso una rete di cause
efficienti esaustivamente interconnesse come inviolabili e ferree). In questo
contesto è facile comprendere ciò che si intende con debolezza della natura
prendendo ad esempio l’essere umano. Tali esseri sono la progenie della storia
naturale, dei suoi processi evolutivi intesi come accozzaglie di contingenze
costituitesi in maniera non teleologica nel corso della stratificazione
temporale che presuppone, come unico requisito delle entità viventi,
l’essere “sufficientemente capaci per sopravvivere e riprodursi” (difficilmente
una ricetta che promette la creazione di funzionalità ottimizzate al massimo;
sulla scorta di un detto tedesco: Dumm kann ficken). Certo, questa
storia ha dato luogo ad animali umani altamente complessi. Sulla scorta di una
proposta di negatività non mistica, la complessità bio-materiale degli esseri
umani oltrepassa il punto critico oltre il quale questi organismi non sono più
completamente organici, in quanto unità le cui parti sono tra loro
armonicamente orchestrate e sincronizzate senza frizioni. Come per il modello
“kludge” del sistema nervoso centrale, le discrepanze e le tensioni possono e,
infatti, si presentano entro e tra le complessità dei componenti e le
sub-componenti delle intricate anatomie e fisiologie umane. (Nel linguaggio di
Lacan, il corpo-Reale barrato dei cervello-e-corpi-in-frammenti). Se
dall’inorganico emerge l’organico, gli esseri umani sono esempi dell’emersione
dell’anorganico dall’organico. L’anorganico non coincide con l’inorganico (ad
esempio la fisica e la chimica dei non-viventi) ma, piuttosto, indica le
negatività (ovvero le discordanze, le irregolarità, ecc.) generate nelle e
dalle faglie intrinseche all’intricata struttura degli organismi. Per usare un
linguaggio più generale e meno specialistico, l’umanità è il prodotto
dell’auto-denaturalizzazione della natura (come una sostanza auto-separatrice
di tipo hegeliano). Le creature umane sono i bambini dell’evoluzione e la
genetica è il genitore indifferente e non curante. Questa antica autorità è
troppo fievole e divisa per prevenire o reprimere le ribellioni filogenetiche e
ontogenetiche, per bloccare o interrompere la corsa avviata dalle rivoluzioni
culturali che hanno originato storie di denaturalizzazione come
trascendenze-nella-immanenza interne ma irriducibili rispetto alla storia
naturale stessa. Senza la debolezza della natura (in)sostanziale, in quanto
condizione necessaria meta-trascendentale materiale per soggetti trascendentali
più-che-materiali, non potrebbe esserci alcuna eccezione alla eteronomia del
naturale. In altre parole, se il naturale fosse più forte, le soggettività
umane, per come esse realmente sono, non sarebbero potute darsi in tutta la
loro unicità.
La complessità scatenata dalla logica dialettica per cui “more
is less” vale tanto per la dimensione culturale che per quella naturale, per il
registro Simbolico della dimensione storica, linguistica e sociale e per il
registro Reale dell’evoluzione della genetica e dell’organico. Quindi, non solo
la natura è sottodeterminata in virtù della sua impotenza (come anorganica,
intricata, ecc.), ma allo stesso modo lo è lo sviluppo delle strutture
collettive. Secondo il principio more-is-less, sistemi sufficientemente
elaborati sia naturali che non-naturali generano inevitabilmente vie di fuga
interne, ovvero zone intrasistemiche nulle, non valide, in quanto
estimità (per prendere in prestito uno dei neologismi lacaniani più conosciuti)
SNAFU (Situation Normal, All Fucked Up, “tutto a posto, niente in
ordine”). Una volta raggiunti questi punti eccezionali di estimità, tali
sistemi privi di ogni forma di intenzionalità, grazie alla complessa
articolazione della loro struttura, sospendono le loro leggi e comandi, creando
zone grigie immanenti al sistema stesso nelle quali le cose posso andare in
modo differente rispetto a come le regole predefinite del sistema avrebbero
solitamente prescritto. Invertendo l’interpellazione althusseriana, per cui un
sistema forte inevitabilmente determina i soggetti eterogenei che incontra, la
possibilità di una soggettivazione che raggiunga l’autonomia sia dalla natura
che dall’educazione scaturisce dall’incontro simultaneo di due vuoti che si
sovrappongono: la negatività del Reale barrato più quella del Simbolico
barrato.
X. Il
materialismo trascendentale non consiste semplicemente in una ontologia della
sostanza meta-trascendentale, ma anche in una meta-fisica della soggettività
trascendentale. In questa particolare prospettiva filosofica, la teoria
dell’essere delinea le condizioni necessarie (ma non sufficienti) per la teoria
del soggetto, un soggetto trascendet(ale)-mentre-immanente a questo stesso
essere come una identità-in-differenza speculativo-dialettica. Eppure, in
contrasto con alcune versioni del materialismo dialettico, il soggetto che
emerge con forza dal materialismo trascendentale può e, in effetti, raggiunge,
almeno di tanto in tanto, una piena indipendenza dal suo fondamento
ontologico-materiale (ad esempio le sue necessarie condizioni
meta-trascendentali). Questo soggetto introduce fratture irreparabili nel suo
essere resistente ad ogni tipo di Aufhebungsintetizzante. Ma quali sono le
condizioni sufficienti per tale soggetto trascendent(ale) all’interno di
questo specifico contesto materialista?
Come suggerito un attimo fa, una variante forte
dell’emergentismo è una componente chiave della teoria del soggetto propria del
materialismo trascendentale. Se si danno emergenze di un tipo peculiare con
sufficiente forza – queste riguardano ciò che i teorici dell’emergentismo, gli
scienziati cognitivi, i filosofi analitici della mente definiscono come il
potere della “causazione verso il basso”, secondo la quale un livello emergente
“più alto” produce un effetto di ritorno sui livelli “inferiori” – il risultato
di questo processo è quel tipo soggetto proposto dal materialismo
antiriduzionista-eliminativista che si configura come una forma aggiornata di
“spinozismo della libertà”. Altre due variabili sono legate all’emergentismo
proprio del materialismo trascendentale. La prima concerne l’epigenetica e la
plasticità del sistema nervoso centrale dell’essere umano come
inestricabilmente invischiato con, e soffuso da, estesi matrici esogene di
mediazione naturali e non naturali (ciò che certi filosofi analitici chiamano
“mente/cervello estesa”). La seconda riguarda i processi attraverso cui questo
ingrovigliamento dei corpi-mentali umani con reti esterne sia naturali che non
naturali, piuttosto che rimanere materia di (sovra)determinazione eteronoma
dalle varie esternalità, determina strutture ricorsive e dinamiche attraverso
cui luoghi di auto-connessione riflessiva ideazionale/rappresentazionale (in
quanto impalcatura scheletrica della soggettività) definiscono autonomi vis-à-vis con
la natura, l’educazione, o qualsiasi combinazione di esse (avendo queste ultime
a che fare con le risposte catalizzate da interpellazioni inverse che
provengono sia dal Reale che dal Simbolico, in quanto barrati). Una proposta
sistematica inerente questi fattori e forze multipli si auspica conduca a
pensare la sostanza come soggetto e vice versa.
XI. Una delle
virtù più importanti della filosofia di Badiou risiede nel confronto che
intesse con coloro che lui stesso definisce i “maestri” francesi del ventesimo
secolo: Sartre, Althusser e Lacan – con particolare attenzione all’esistenzialismo
sartriano dell’autonomia che si interfaccia con lo strutturalismo althusseriano
dell’eteronomia, un confronto significativamente prefigurato dalla psicoanalisi
lacaniana. Nei termini del Freiheitschrift (1809) di Schelling,
Badiou vuole combinare la “libertà” si Sartre (rappresentata per Schelling da
Kant e Fichte) e il “sistema” di Althusser (rappresentato per Schelling da
Spinoza). Il vero punto d’inizio del sistema filosofico di Badiou riflette,
quindi, la perdurante influenza di Sartre. In riferimento al concetto
badioudiano di “punto” (ovvero il luogo o il nodo nel quale, sulla scorta della
sartriana “condanna della libertà,” si rende d’obbligo una scelta tra due
direzioni divergenti: si o no, destra o sinistra, persistere o desistere, eccetera),
si dà veramente e propriamente filosofia, secondo Badiou, quando si
propongono risposte – sotto forma di sistemi assiomatici – a domande
inevitabili sui punti (quali il parmenideo-platonico “Essere, Uno o
Molti?”). I pilastri assiomatici che sorreggono questo sistematico edificio
filosofico sono eretti come conseguenze di risposte assolutamente libere ad
alcune questioni ultime e inevitabili, che obbligano a decisioni
infondate/auto-fondate sulle intuizioni ultime di una filosofia resa possibile proprio
da queste ultime. Ma una filosofia instaurata in questo modo non è, per tale
ragione, meno sistematica: Badiou fa proprie le lezioni fondamentali
dall’esistenzialismo, senza soccombere alle sue tendenze irrazionali, per
denunciare la classica costruzione di un sistema. Le dieci tesi precedenti del
materialismo trascendentale sono precisamente i punti assiomatici richiesti per
questo sistema.
Allo stesso modo, l’arco completo di L’essere
e l’evento, il libro del 1988 che funge da fulcro della filosofia matura di
Badiou, può essere giustamente descritto come la costruzione di un circolo
virtuoso auto-fondante. Lo stile sartriano degli atti autonomi, che sviluppa la
prima metà del libro (l’ “essere” e la sua ontologia) sono giustificati
retroattivamente, spiegati après-coup, dalla seconda metà del libro
(la parte dedicata all’ “evento”, e che implica una teoria del soggetto come
immanente eppure irriducibile “all’essere in quanto essere” [l’être en tant
qu’être]). In linea con questa lettura di L’essere e l’evento, che
definisce la relazione tra le tesi e il sistema del materialismo
trascendentale, solo una ontologia della libertà sistematica (non-contemplativa
e implacabilmente ostile al riduzionismo e all’epifenomenismo) può davvero
auto-fondarsi grazie all’inclusione in se stessa di una spiegazione del
fondamento infondato dell’autonomia. L’avvio di qualsiasi filosofia è quindi
reso possibile (senza escludere quelle filosofie che negano tale autonomia) a
partire dalla libera decisone compiuta dal soggetto-filosofo degli assiomi,
delle intuizioni e delle tesi.
In relazione a quanto detto, la visone filosofica articolata
da Badiou, poiché chiamata a pensare la “compossibilità” delle verità del suo
tempo prodotte nei domini delle sue quattro “condizioni” extra-filosofiche
(arte, amore, politica e scienza), riflette anche certe sensibilità
esistenzialiste. Una di queste è riconducibile a Pascal (per non menzionare gli
echi della prefazione degliElementi di filosofia del diritto scritta da
Hegel nel 1821). Infatti, le risposte che si è liberamente deciso di dare alle
domande originarie sui “punti” sono definite dalla relazione del filosofo con
queste condizioni, e con i reciproci richiami tra gli eventi artistici,
amorosi, politici e scientifici e le loro verità che il filosofo decide di
riconoscere come tali. Per essere più precisi, la filosofia à la Badiou
è costretta a scommettere su quegli aspetti delle fonti extra-filosofiche che
stabiliscono le sue tesi assiomatiche. Inoltre, come per la famosa scommessa di
Pascal, non ci sono posizioni sicure, neutre e prive di implicazioni quando si
ha a che fare con questi punti di interrogazione, che rendono ogni filosofia,
implicitamente o esplicitamente, già-da-sempre incline a porre e rispondere a
certe domande fondamentali. Per Pascal, l’agnosticismo, in quanto non
scegliere di credere in Dio, è equivalente all’ateismo, in quanto scegliere
di non credere in Dio. La scommessa di Pascal, come del resto
dell’esistenzialismo sartriano con essa indebitato, implica che il non
scegliere sia una scelta, il non agire sia un’azione. Allo stesso modo, secondo
la concezione di Badiou sui presupposti fondanti di ogni filosofia, senza
eccezione alcuna, il filosofo è costretto a scegliere liberamente, in modo
conscio o inconscio, da cosa essere o non essere condizionato, tra tutto ciò
che a lui/lei si mostra nei reami più-che-filosofici dell’arte, dell’amore,
della politica e della scienza. Verosimilmente, non-decidere di essere
condizionato dagli eventi e dalle verità artistici, amorosi, politici e/o
scientifici che si offrono significa decidere di non essere condizionati da
loro. Oppure, quando si tratta di porre i fondamenti di una filosofia (come di
molto altro) omnis determiantio est negatio, per usare un’espressione
ibrida tra Spinoza ed Hegel. Delle quattro condizioni di Badiou, la scienza
assume un rilievo particolare per le fondazioni del suo sistema filosofico
post-1988, poiché fornisce l’ossatura che sostiene sia la sua ontologia che la
sua fenomenologa, rispettivamente nella forme della scienza matematica
della teoria degli insiemi e di quella della teoria delle categorie. Ben
consapevole che si tratta di una scommessa, Badiou decide di puntare su alcuni
eventi selezionati tra le matematiche, a partire dall’infinitizzazione dell’infinito
proposta da Cantor, e intesi come fratture insanabili nella storia del pensiero
che richiedono un riconoscimento filosofico. In contrasto con il razionalismo
formalista della metafisica badioudiana, in quanto “materialismo dialettico”,
il materialismo trascendentale, divergendo da quel Badiou ispirato da Koyré che
limita l’ambito del scientifico al (puramente) matematico, colloca alcuni dei
suoi momenti di frattura nelle scienze naturali (piuttosto che formali). Le
scommesse del materialismo trascendentale sulla biologia sono tanto essenziali
per esso, quanto le scommesse di Badiou sulla teoria insiemistica del
trans-finito sono essenziali per l’interconnessione che stabilisce tra
ontologia e teoria della soggettività. Sebbene i due approcci differiscano
sulla definizione di scientificità, essi condividono la convinzione nella
necessità di arrischiarsi in un impegno della filosofia verso le scienze
extra-filosofiche (e altre discipline e pratiche).
Nulla garantisce che queste scommesse non saranno messe in
discussione nel futuro. Ma, allo stesso modo, nulla garantisce il contrario.
Decidere di credere nella impermanenza storica delle proposizioni scientifiche,
nella presunta inevitabilità del loro essere prima o poi contestate e
sorpassate, è una credenza tanto dogmatica quanto la più naïf e acritica
convinzione nella non questionabile validità universale di tutto ciò che appare
oggi come la scienza più accurata e corretta. La falsa sicurezza offerta da
agnosticismo slegato e privo di alcun rapporto con le scienze, che evita
qualsiasi scommessa su queste discipline più-che-filosofiche, si autogiustifica
sulla base della credenza nella finitezza di tutti i fatti asseriti e di tutte
le verità scientifiche. Ma soprattutto per le filosofie verosimilmente
materialiste, un tale agnosticismo non solo corre il rischio concreto di una
presente e futura incoerenza e mancanza di pertinenza, se misurato sulla
necessità di una filosofia che sia al passo con i tempi (come lo era sia per
Hegel che per Badiou), ma finisce anche per arenarsi nell’arido e sterile
vicolo cieco di uno scetticismo idealista soggettivista. Il prezzo da pagare
per un fintamente cauto e rassicurante attentisme, indeciso e
fatalista, dunque, è quello di abbandonare un aspetto vitale della vocazione
filosofica, nonché la rinuncia a ogni legittima attestazione di essere
materialisti. In breve, il materialismo filosofico non può permettersi di non
correre i suoi rischi.
Adrian Johnston es autor de numerosos
libros, entre los cuales se encuentran: Time Driven: Metapsychology and the Splitting of the Drive (2005), Žižek’s Ontology: A Transcendental
Materialist Theory of Subjectivity (2008), Badiou, Žižek, and Political Transformations: The Cadence of Change (2009),
y Prolegomena to Any Future
Materialism, Volume One: The Outcome of contemporary French Philosophy (2013).
Es además, co-autor con Catherine Malabou de Self and Emotional Life: Philosophy, Psychoanalysis, and Neuroscience (2013).
Su trabajo más reciente se intitula Adventures
in Transcendental Materialism: Dialogues with Contemporary Thinkers (2014)
Adrian Johnston rappresenta uno degli autori più letti e discussi all’interno del dibattito della teoria critica. Le sue linee di ricerca convergono sulla definizione di ciò che egli chiama materialismo trascendentale. Si tratta di una cornice filosofica che combina un’ontologia materialista, contraddistinta da una forte apertura verso le scienze naturali, e una teoria della soggettività che ne mantiene la complessità e l’autonomia. In questa direzione assume un ruolo preminente il confronto con autori quali Žižek, Lacan, Badiou, Meillassoux. L’articolo che presentiamo è stato pubblicato per la prima volta nel 2013 in "Speculations: A Journal of Speculative Realism", ed esemplifica con chiarezza le ambizioni e gli snodi appena presentati. (Diego Ferrante & Marco Piasentier)
Título original: “Punti di libertà forzata. (Ancora) undici tesi sul materialismo”
http://ilrasoiodioccam-micromega.it/ |