Premettiamo che una parte della difficile “governabilità”
scaturita dalle elezioni non dipende dal sistema proporzionale (come ha
interessatamente proclamato Renzi) ma dalla struttura deformante della legge
elettorale spagnola, in vigore dal 1978, che non è proporzionale, ma tale da
favorire fortemente i partiti capaci di ottenere buoni risultati in tutte le 52
circoscrizioni o (relativamente) quelli con forte rappresentazione locale. Per
fare un solo esempio, in queste elezioni politiche Izquierda Unida ha ricevuto
circa 900.000 voti, distribuiti in tutta la Spagna, eleggendo 2 deputati,
mentre il PNV (Partido Nacionalista Vasco) ha ottenuto 6 deputati con circa
300.000 voti, concentrati in Euskadi (País Vasco).
Oggi abbiamo la coincidenza di due distinte situazioni di “stallo”: a livello nazionale e nel caso della Catalogna. Nel caso catalano per due volte consecutive la CUP (Candidatura de Unidad Popular-Llamada Constituyente), coalizione di indipendentisti di sinistra, ha rifiutato di accordare il suo appoggio alla candidatura di Artur Mas, leader di Junts pel Sí, come presidente della Generalitat, anche se non è detto che appoggerà compattamente Podemos alle future regionali. Appoggiando Mas in nome dell’indipendenza, la CUP avrebbe posto di nuovo il governo nelle mani di un partito neoliberale. Questo stallo si è per ora risolto con un passo indietro di Mas, cui è subentrato il meno esposto Carles Puigdemont. Più probabile è che a nuove elezioni si vada sul piano nazionale, dato che Rajoy ha ricevuto un secco no dal PSOE all’offerta di una “grande coalizione”, ma il PSOE è molto diviso al suo interno tra chi, come il segretario Pedro Sánchez, vorrebbe aprire una trattativa con Podemos (proprio il 7 gennaio egli ha parlato di «una grande coalizione progressista» di governo da opporre al PP) e chi, come Susana Díaz, presidente del governo di Andalusia e segretaria del PSOE andaluso, molto influente nel partito e in gara per sostituire al prossimo congresso lo stesso Sánchez, pone come discriminante non negoziabile la questione del referendum catalano, una questione sulla quale, da parte sua, Podemos non può – per quello che si può giudicare in questo momento – entrare a sua volta in trattativa.
Anche se lo stallo catalano è profondamente diverso da
quello spagnolo, esistono degli elementi comuni, per l’intersezione
parzialmente contraddittoria degli assi sociale e nazionale nel conflitto
politico. Analogamente, una possibile svolta a sinistra a livello nazionale,
con una coalizione minoritaria tra PSOE e Podemos – appoggiata (eventualmente
per la sola investitura del governo) da partiti di sinistra o locali, come il
PNV – confliggerebbe con il “nazionalismo” spagnolo di un PSOE, che ha
nell’Andalusia la sua principale fonte di votanti: una “cassaforte” tutt’altro
che votata all’indipendenza da Madrid. L’interpretazione che Susana Díaz dà di
questa funzione storica dell’Andalusia ricalca, anche nel linguaggio, il
nazionalismo più tradizionale della destra spagnola postfranchista riunita nel
PP. Questa retorica unitarista coincide del resto con la virata a destra del
governo andaluso dopo le elezioni anticipate del 2015, convocate da Díaz per
liberarsi dell’alleanza con Izquierda Unida, sostituita nella maggioranza con
il nuovo partito di destra Ciudadanos, proprio per non accettare un patto di
governo con Podemos.
In questo quadro di profonda trasformazione delle geografie elettorali,
che spiazza i politici spagnoli, già si vocifera di un cambio della legge
elettorale, magari dopo le prossime elezioni anticipate (se ci saranno). La via
d’uscita prospettata dai politici dei partiti più grandi, vista la fine del
loro duopolio, consiste in un ulteriore restringimento della rappresentatività
democratica parlamentare in nome della “governabilità”. Tanto più che un
governo di minoranza può reggere a lungo, dato che la sfiducia parlamentare,
dopo l’investitura, può essere solo costruttiva, cioè presentando
un’alternativa costituita. In sostanza, esiste una prevalenza dell’esecutivo
rispetto al legislativo, paragonabile a quella dei regimi presidenziali.
In questo scenario la situazione di Euskadi si caratterizza
in modo originale per almeno due elementi. In primo luogo, in Euskadi non si è
finora conosciuto alcun genere di instabilità nel transito dalla formazione
della volontà popolare al governo. La regione è stata governata
ininterrottamente, dal 1980 a oggi, dal PNV, con una parentesi rappresentata da
una grande coalizione PSE (Partido Socialista de Euskadi)-PP, a guida
socialista, negli anni 2009-2012. Il PNV conta su una forza elettorale sicura
stabile che in termini percentuali oscilla tra il 30 e il 40 per cento (tra
300.000 e 400.000 voti). Questa maggioranza relativa non si è però mai tradotta
in una minoranza assoluta (1), perché il PNV è sempre riuscito, articolando e
“giocando” abilmente le alleanze sul piano locale e nazionale, a conquistare di
fatto l’egemonia sulle altre forze politiche basche.
Il PNV è attualmente al potere non solo nel governo di
Euskadi, ma in tutte e tre le province basche (che in Euskadi sono molto
importanti, dato che, per un regime di autonomia che risale alle origini della
Spagna moderna, in seguito riformato ma non abolito, alle province basche
spettano molte competenze essenziali di governo, come quella fiscale). Nelle
ultime elezioni provinciali del 2015, il PNV ha strappato Gipuzkoa a Euskal
Herria Bildu (il partito che ha ereditato la tradizione di sinistra
indipendentista di Herri Batasuna) e – punto ancora più importante – Alava al
PP, che lì aveva la sua unica roccaforte basca.
Il PNV è un partito di tipo “democristiano”, capace di
trattare con tutti, e che in passato ha accordato il proprio appoggio a governi
del PP a Madrid in cambio di concessioni a livello locale; o, viceversa, ha
formato coalizioni di governo in Euskadi con PSE, Izquierda Unida ed Eusko
Alkartasuna (frutto di una scissione a sinistra e indipendentista del PNV
stesso, confluita poi in Amaiur e ora in Bildu). Nella congiuntura attuale, la
combinazione di neoliberismo e nazionalismo esasperato, che caratterizzano il
PP (e ora Ciudadanos) spinge il PNV a guardare a sinistra anche a livello
nazionale, oltre che regionale. Il PNV ha infatti, a partire dall’avvio della
sua esperienza di governo (1980), combinato l’ideologia indipendentista con un
progetto molto preciso di società coesa e organizzata, e di Stato sociale, che
hanno fatto di Euskadi non solo la regione spagnola più affluente e avanzata
dal punto di vista dell’integrazione di ricerca e innovazione, ma anche un
esempio di forte Stato sociale, capace di resistere ai colpi della stagione
neoliberista (di fatto, grazie all’autonomia fiscale delle sue tre province, Euskadi
può gestire in modo autonomo la politica della spesa e degli investimenti). Per
queste ragioni, il dialogo del PNV con il PP è interrotto da tempo, mentre sui
singoli provvedimenti il governo basco riesce a ottenere l’appoggio del PSE e,
meno spesso, di EH-Bildu.
Questo quadro generale rappresenta l’esito di un processo di
lungo periodo del Paese Basco. La formazione di una ricca e dinamica borghesia
industriale, sopratutto concentrata in Bizkaia e Gipuzkoa, risale alla fine
dell’Ottocento, lo stesso periodo in cui Sabino Arana “inventò” la nazione
basca e diede avvio al movimento nazionalistico poi confluito nel PNV. In
quello che ora è Euskadi, industrialismo e nazionalismo hanno proceduto di pari
passo, producendo una società al contempo polarizzata socialmente (fino agli
anni Settanta, Euskadi è stata la mèta di masse ingenti di immigranti
provenienti dalle regioni più povere della Spagna, sopratutto l’Extremadura, e
questo ha fatto la forza del PSE nelle regioni più industrializzate) e
integrata nazionalmente. Il PNV, esercita la sua politica di integrazione
“nazionale” e “nazionalista” non solamente come partito di governo (la rete di
istituzioni culturali di base, come le biblioteche e i centri sociali per tutti
i tipi e le età, è molto articolata). Esso possiede e gestisce anche, in quanto
partito, una rete capillare di istituzioni culturali legate al tempo libero.
Ciò vuole dire concretamente gruppi di danze basche, di canti corali, di
escursionismo e di vari sport (compresi quelli rurali), riuniti solitamente
attorno a un bar, a una scuola di lingua basca (euskaltegi), a una scuola di
musica per gli strumenti tradizionali e a un frontón per la pelota vasca. Tutti
questi elementi contribuiscono a costruire un’identità “culturale” in tutti i
suoi aspetti, un’identità che s’identifica con una precisa idea di
“popolo-nazione”, che in questa attività non solamente ritrova se stesso, ma
mira a includere e rendere omogenei gli elementi estranei (2).
La concomitanza di sviluppo industriale e integrazione “popolare”
della “nazione”, che è l’oggetto della politica del PNV, è stata messa a dura
prova negli anni Ottanta e Novanta, quando si è realizzata la
deindustrializzazione dei centri siderurgici e della cantieristica navale,
sopratutto a Bilbao, con fortissimi conflitti sociali, e più intensa è stata la
guerriglia di ETA. Tuttavia, la riconversione industriale di Euskadi verso
produzioni di nuova generazione, lo sviluppo importante del settore dei
servizi, di banche e assicurazioni, e, accanto a ciò, la rimodulazione
dell’intero territorio basco in funzione di nuovi flussi turistici, hanno
preparato già dagli anni Novanta (3) ciò che il 2011 – con la proclamazione
della cessazione definitiva della lotta armata da parte di ETA – ha
definitivamente sancito. Da tempo si è in presenza di un rinnovato dinamismo da
parte delle élites economiche basche, sapientemente fiancheggiate e assistite
dal PNV. Si assiste cioè alla costruzione di un nuovo tipo di blocco “popolare”
interclassista, poggiante sul fatto che l’antagonismo sociale è stato
riassorbito in un concetto di “popolo”, in cui l’originario nucleo nazionalista
del PNV, di carattere razziale e mai interamente abbandonato, si è aggiornato
articolandosi con cerchie sempre più ampie di “popolo-nazione”, fino a comprendere
un’attiva politica di inclusione degli immigrati.
Di qui discende la seconda particolarità basca. Negli ultimi
anni - dopo un “picco” di conflittualità toccato tra 2003 e 2005 con il
cosidetto “plan Ibarretxe” (4) - la questione “nazionale” basca non si è
polarizzata, come quella catalana, tra chi è favorevole e chi è contrario al
referendum, con la conseguente subordinazione del conflitto sociale al
conflitto nazionale. Esiste anzi una forte differenza tra PNV e Bildu non
solamente su questioni sociali, ma anche sul terreno del nazionalismo. Di
fatto, l’attuale lehendakari basco, Íñigo Urkullu, è stato eletto dal
Parlamento basco dopo le ultime elezioni regionali (2012) alla seconda
votazione per maggioranza semplice, in concorrenza con la candidata di Bildu
Laura Mintegi, grazie all’astensione decisiva del PSE e del PP. Insomma, in
Euskadi né l’asse dell’indipendentismo-nazionalismo si è imposto come dominante
rispetto a tutti gli altri, né il PNV rappresenta un esempio di corruzione e
malgoverno (oltre che di neoliberismo), come era il caso di Mas in Catalogna:
la valanga di scandali che ha recentemente investito sia il PP, sia i vari
partiti al potere a Valencia e Barcellona, ha appena lambito il PNV.
Alla luce di questi fatti, si capisce anche la dinamica di
EH-Bildu. Quando – dopo molti anni di illegalità – la sinistra nazionalista
basca ha finalmente potuto partecipare con il nome di Amaiur, alle elezioni
provinciali e generali del 2011, ha raccolto il 25% dei voti, percentuale
confermata alle elezioni regionali del 2012 e – con una significativa
contrazione – alle provinciali del 2015. Si tratta di circa 280.000 voti
(240.000 nel 2015), che si sono mantenuti stabili nel corso di qualche anno, e
che hanno consentito a Bildu di conquistare dal 2011 al 2015 la provincia di
Gipuzkoa, il comune di San Sebastián e numerosi altri centri minori.
L’esperienza del governo è stato un passaggio decisivo nella storia di questa
formazione, che al suo interno alimenta un’ideologia fortemente ambivalente: per
un verso marxista e internazionalista, per un altro nazionalista ed
esclusivista. Messa alla prova dei fatti, cioè del governo di zone rilevanti di
Euskadi, Bildu ha mostrato tutti i propri limiti, non solamente derivanti dalla
(per forza di cose) scarsa esperienza di governo del proprio ceto politico, e
neanche solamente dal fatto che non è facile tradurre l’orizzonte del comunismo
in una concreta pratica di governo. Il problema è, più in profondità, dato dal
fatto che l’analisi storico-politica della società basca, sulla quale Bildu
poggia la propria proposta strategica, è ricalcata su di una situazione non più
esistente (quella dell’antagonismo degli anni Ottanta o addirittura precedente)
e, di conseguenza, presuppone un conflitto sociale strutturale che non esiste
più in quella forma. Quel conflitto si è tradotto in termini nuovi, molto più
dinamici e sfumati, perché il PNV l’ha saputo ricollocare dentro lo spazio del
popolo-nazione da esso creato.
La comparsa di Podemos rappresenta in questo quadro una
novità, che potrebbe mettere in discussione la presente situazione, data da:
egemonia del PNV, subalternità del PSE, marginalità e irrilevanza politica di
PP e Bildu. Basti paragonare i risultati delle elezioni provinciali (maggio
2015) e generali (dicembre). Mentre in maggio Bildu, pur perdendo voti in
termini percentuali e assoluti, ha sostanzialmente tenuto, con il 22,7%, e
Podemos, che si presentava per la prima volta, ha ottenuto il 14%, alle
politiche generali di dicembre Bildu è crollata al 15% e Podemos si è affermato
come il partito più votato di Euskadi con il 26%, passando in termini assoluti
da 148.000 a 316.000 voti. Chiaramente, i voti confluiti su Podemos non
provengono tutti da Bildu. C’è stato un (probabilmente piccolo) travaso di voti
– per quanto ciò possa apparire singolare – dal PNV, che da maggio a dicembre
ne ha perduti circa 60.000. Neanche questo spiega però i 316.000 voti confluiti
su Podemos, tenendo conto del fatto che tra le elezioni di maggio e quelle di
dicembre la partecipazione al voto in Euskadi è salita dal 63,77% (1.097.000
votanti) al 71,45% (1.226.799). Probabilmente, se in maggio Podemos ha
assorbito una parte di voti del PSE e in piccola parte di Bildu, il risultato
di dicembre indica che Podemos si è avvantaggiata di una buona parte del
ritorno al voto, che è esattamente una delle priorità del partito guidato da
Iglesias. A ciò si aggiunga che probabilmente molti votanti del PNV non hanno
partecipato alle elezioni generali, ciò che accresce l’importanza di questo ritorno
al voto.
È difficile dire se questa tendenza potrà prendere corpo. La
versione ufficiale è che ciò che ha fatto di Podemos il primo partito di
Euskadi dipende essenzialmente dal contesto nazionale, cioè dalla necessità di
spezzare i bipartitismo, ciò che né il PNV né Bildu, come formazioni locali,
possono aspirare a fare. Gli oltre 150.000 voti in più ricevuti da Podemos,
rispetto alle provinciali, sarebbero perciò dei voti “in prestito”. Ciò può
essere vero e senz’altro, in parte, lo è. Ma quanto ciò sia vero, dipenderà
dalla capacità di Podemos di elaborare un’analisi politica che riesca ad
articolare la questione basca dentro il contesto spagnolo, nella forma che tale
“questione” assume in questo momento, e che abbiamo tentato di delineare. In
Euskadi il PNV è capace di configurare un’idea di futuro per l’intera società
“nazionale”. Esso continuerà perciò, probabilmente, a essere la funzione che
assegna le parti nello scacchiere basco, per riprendere un linguaggio caro a
Iglesias. La funzione di Podemos come partito “anticasta” non ha perciò grandi
chances di far presa nella società basca, o almeno non ha quelle che ha avuto a
Madrid, Barcellona e dovunque la società sia stata devastata dalla corruzione e
dalla mediocrità di un ceto politico chiuso su se stesso. Inoltre, proprio per
la presenza di EH-Bildu, in Euskadi Podemos non ha potuto appoggiarsi a gruppi
locali indipendentisti, come ha fatto in Galizia e Catalogna. I suoi referenti
locali sono stati insignificanti: alcuni fuoriusciti da Izquierda Unida e
sparsi gruppi di intellettuali indipendenti. Tanto più significativo è perciò
questo risultato, ottenuto non in base al blocco di spezzoni di partiti già
esistenti, ma come produzione di una nuova volontà politica, il cui significato
si tratta appunto di interpretare.
Davanti a Podemos in Euskadi c’è perciò un duplice compito,
nella cui soluzione consiste la stabilizzazione di questo voto. Per un verso,
Podemos deve entrare nel territorio della sinistra indipendentista, riuscendo a
riarticolare il discorso di Bildu in termini politici concreti. Ciò vuole dire
pensare la situazione basca in modo tale che diventi possibile colmare la
distanza tra i proclami generali, rimasti per Bildu sul terreno della
coltivazione di un’identità che vorrebbe rivaleggiare – con molti meno mezzi –
con la macchina del PNV, e le politiche concrete, dalla pianificazione urbana
allo sviluppo industriale ecc.
Ma sopratutto a Podemos si pone il compito di confrontarsi
con il PNV, un organismo che vanta una sua forte vitalità interna, dovuta, come
si è detto, alla sua capacità di progettare un futuro per Euskadi. Uno dei
punti qualificanti della linea politica di Podemos è la traduzione della
democrazia in una serie di istanze capaci di restituire significato alla
partecipazione politica locale. In questo senso, Podemos ha finora lavorato per
diventare il referente politico “nazionale” per chi – dall’interno delle realtà
locali – mira a ridefinire la natura costituzionale dello Stato spagnolo,
facendo leva sulla questione nazionale in direzione democratica, e non
nazionalistica. In questo senso – e per quanto ciò possa apparire paradossale –
Podemos potrebbe svolgere per il PNV una funzione non troppo dissimile da
quella che svolge per i gruppi di sinistra catalani e galiziani. Ciò non
solamente decreterebbe la marginalizzazione definitiva di Bildu e un deciso
ridimensionamento del PSE, ma aprirebbe dentro Euskadi una nuova lotta per
l’egemonia, essenzialmente tra l’ipotesi interclassista e inclusiva del PNV e
quella democratica e plurale di Podemos.
Note
1) L’unica eccezione è, come detto, il periodo 2009-2012,
quando si formò con una “grande coalizione” PSOE-PP, a guida PSOE. Questo
cartello elettorale era qualcosa di completamente artificioso. Infatti il suo
unico elemento caratterizzante era la volontà di “escludere” il PNV dal governo
e di “debaschizzare” Euskadi. Come se la mancanza di una strategia di governo
concreta, adeguata alle necessità del territorio, non bastasse, a ciò si
aggiunse la piena mediocrità del lehendakari (capo del governo), il socialista
Patxi López. Le elezioni del 2012 hanno riportato al governo il PNV, marcando
un crollo elettorale di PSOE e PP in Euskadi.
2) Di fatto, l’immigrazione è in Euskadi sempre sostenuta,
anche se non più paragonabile a quella meridionale degli anni Sessanta. Oggi si
ha un’immigrazione dal Centro- e Sudamerica e dall’Europa orientale per i
servizi alle persone, e un’immigrazione di tecnici qualificati da vari Paesi
europei ed extra-europei.
3) Nel 1983 – nel pieno della crisi sociale dovuta allo
smantellamento delle industrie pesanti – una grande parte di Bilbao è stata
devastata da un’inondazione dovuta allo straripamento del fiume Nervión, che
l’attraversa. Il Museo Guggenheim – simbolo del rinnovamento della città – è
stato inaugurato nel 1997 proprio nei luoghi dove prima sorgevano i cantieri
navali.
(4) Nel 2005 il governo basco presentò al Parlamento
spagnolo una Propuesta de Estatuto Político de la Comunidad de Euskadi,
elaborata dal governo basco e approvata dal Parlamento di Euskadi. Questa
proposta (chiamata “plan Ibarretxe” dal nome del lehendakari Juan José
Ibarretxe) prevedeva la rinegoziazione del rapporto tra Euskadi e Regno di
Spagna e fu respinta dal Parlamento di Madrid (con il voto, si noti, non
solamente del PSOE ma anche di Izquierda Unida). Il “plan Ibarretxe” può essere
considerato il prologo di quanto accade ora in Catalogna.
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