Giancarlo
Chiariglione | Poche correnti di
pensiero come l’Esistenzialismo sono state capaci di influenzare in modo così
profondo e originale l’immaginario cinematografico. A riprova di questo
produttivo rapporto, se molti critici continuano a citare la celebre prefazione
del libro di Stanley Cavell The World Viewed: Reflections on the Ontology
of Film (1979), in cui l’autore, ispirandosi a I giorni del cielo (Days
of Heaven, 1978) e più in generale alla produzione di Terrence Malick, ha
legato il pensiero di Martin Heidegger alla settima arte (la radiosità formale
del film del regista statunitense è stata infatti avvicinata alla riflessione
del filosofo tedesco sulla relazione tra Essere ed esseri, sul radioso
mostrarsi delle cose in una luminosa apparenza), non si contano letteralmente
gli studiosi che, da sempre, ricordano come Søren Kierkegaard (1813 – 1855)
abbia fornito spunti di riflessione e tematiche al cinema scandinavo (e non
solo). Nel filosofo, teologo e scrittore di Copenaghen noto per i suoi
improbabili pseudonimi (ad esempio Victor Eremita, Johannes de Silentio,
Vigilius Haufniensis, Nicolaus Notabene, Hilarius il Rilegatore), il
“Tres pasiones, simples, pero abrumadoramente intensas, han gobernado mi vida: el ansia de amor, la búsqueda del conocimiento y una insoportable piedad por los sufrimientos de la humanidad. Estas tres pasiones, como grandes vendavales, me han llevado de acá para allá, por una ruta cambiante, sobre un profundo océano de angustia, hasta el borde mismo de la desesperación” — Bertrand Russell
19/10/13
Søren Kierkegaard, Paolo Sorrentino e il cinema scandinavo
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