1. Si tratta di
un argomento talmente complesso e denso di dibattiti teorici da richiedere pure
un notevole approfondimento storico. Insomma, sarebbe necessario tenerci sopra
un intero corso di lezioni e non soltanto una breve introduzione e per spunti
assai sommari. Tanto più che non sono d’accordo sull’impostazione
prevalentemente economicistica con cui viene solitamente discusso tale
problema. Sia chiaro che nelle due parti in cui verrà diviso questo scritto non
affronterò il tema della crisi iniziata nel 2008; nemmeno mi fisserò su come
essa viene interpretata dagli economisti odierni o anche dal Governo con le sue
misure che stanno ottenendo risultati esattamente contrari alle intenzioni
dichiarate (credo assai diverse da quelle perseguite politicamente, con la sola
maschera della necessità economica). Un simile argomento va trattato in altra
sede e dopo aver preso visione delle pur sommarie indicazioni relative alla
problematica generale della crisi. Altrimenti
s’instaura una semplice “discussione da bar”. Comunque il lettore attento potrà più volte istituire un parallelo tra quanto qui scritto e le pappardelle fornite in questi ultimi quattro anni.
Mi rifarò ancora una volta ad un esempio da me utilizzato più volte per analogia perché particolarmente congruo nella sua applicazione al tema della crisi, sempre pensata come semplicemente economica. Il terremoto, magari con annesso tsunami, è evento catastrofico che colpisce a fondo la vita degli uomini; ed è ancora imprevedibile, checché se ne dica a volte con somma insipienza. Tutti, evidentemente, fuggono disordinatamente nel momento cruciale, poi iniziano ad organizzarsi in previsione di eventuali nuove scosse e pensano infine alla ricostruzione. Il sismologo sa tuttavia che il tremore di superficie, così disastroso, dipende da scontri tra strati del terreno che avvengono a grande profondità; più profondi sono tali urti e frizioni, maggiore è l’energia accumulata per anni e decenni (talvolta secoli) e più intenso e violento è il suo scaricarsi; tanto più ampia è inoltre la zona colpita dallo sconquasso. Non è escluso che in futuro i terremoti possano essere previsti con qualche significativa probabilità (così com’è accaduto per le previsioni meteorologiche per brevi periodi); a patto però che non ci si limiti a studiare grafici e tabelle statistiche che indicano soltanto la loro frequenza nel tempo, le zone maggiormente colpite, certi andamenti lineari di superficie, magari correlazioni più o meno credibili con altri fenomeni altrettanto superficiali, ecc. Tutte rilevazioni non inutili, sia chiaro, ma alle quali attribuire il significato di sintomi “fenomenici”, che devono spingere a guardare più in profondità, nelle viscere della terra.
s’instaura una semplice “discussione da bar”. Comunque il lettore attento potrà più volte istituire un parallelo tra quanto qui scritto e le pappardelle fornite in questi ultimi quattro anni.
Mi rifarò ancora una volta ad un esempio da me utilizzato più volte per analogia perché particolarmente congruo nella sua applicazione al tema della crisi, sempre pensata come semplicemente economica. Il terremoto, magari con annesso tsunami, è evento catastrofico che colpisce a fondo la vita degli uomini; ed è ancora imprevedibile, checché se ne dica a volte con somma insipienza. Tutti, evidentemente, fuggono disordinatamente nel momento cruciale, poi iniziano ad organizzarsi in previsione di eventuali nuove scosse e pensano infine alla ricostruzione. Il sismologo sa tuttavia che il tremore di superficie, così disastroso, dipende da scontri tra strati del terreno che avvengono a grande profondità; più profondi sono tali urti e frizioni, maggiore è l’energia accumulata per anni e decenni (talvolta secoli) e più intenso e violento è il suo scaricarsi; tanto più ampia è inoltre la zona colpita dallo sconquasso. Non è escluso che in futuro i terremoti possano essere previsti con qualche significativa probabilità (così com’è accaduto per le previsioni meteorologiche per brevi periodi); a patto però che non ci si limiti a studiare grafici e tabelle statistiche che indicano soltanto la loro frequenza nel tempo, le zone maggiormente colpite, certi andamenti lineari di superficie, magari correlazioni più o meno credibili con altri fenomeni altrettanto superficiali, ecc. Tutte rilevazioni non inutili, sia chiaro, ma alle quali attribuire il significato di sintomi “fenomenici”, che devono spingere a guardare più in profondità, nelle viscere della terra.
Volendo soprattutto indicare, sia pure necessariamente per
cenni, ai motivi a mio avviso profondi delle crisi economiche – motivi che
vanno ben al di là della mera economia – dovrò essere molto schematico e certo
poco “scientifico”; non abuserò di grafici e tabelle con connesso loro
significato assai poco illuminante, ma che attribuisce tanta sicurezza ai
“chierici” della scienza economica e lascia a bocca aperta chi li ascolta come
oracoli.
2. Le grandi
crisi del XX secolo sono state quella del 1907 e quella, decisamente più
rilevante e passata alla storia come la crisi (per antonomasia), del
1929. Entrambe iniziarono con l’aspetto più superficiale di tale terremoto,
quello finanziario, quello che sembra più colpire, ancor oggi, la fantasia
“popolare”; dove per popolo si deve intendere semplicemente la gran parte degli
ignari, adeguatamente influenzati dall’informazione ricevuta dai “santoni”
della scienza sociale detta economia.
E’ ovvio che la parte finanziaria, legata all’uso della
moneta e dei segni d’essa, sia il primo fenomeno critico a presentarsi, data la
generalizzazione della forma di merce nel capitalismo e il conseguente uso
necessario del denaro nel ciclo continuo M-D-M. Quando questo viene ad
interrompersi – per motivi vari studiati da tutti gli economisti e sottoposti
ad interpretazioni diverse; non inutili, sia chiaro, poiché nessuno nega
l’importanza di certi fenomeni se vengono studiati e analizzati come tali e non
come il processo più fondamentale caratterizzante la crisi,
lacausa insomma della stessa – il primo scombussolamento è subito dai
mercati in cui circola lo “strumento” che ormai, da semplice intermediario
nello scambio di merci, è divenuto pure accumulazione di ricchezza, mezzo di
investimento, garanzia (del tutto parziale e insicura, in verità) contro gli
imprevisti del futuro, ecc. ecc. Al disordine nei mercati monetari, finanziari
– se esso non è legato a semplici giochi speculativi, in genere suscettibili di
reciproca compensazione tra operazioni di segno contrario (si pensi alle
continue oscillazioni di Borsa) – segue quello ben più grave nei mercati dei
beni (e servizi) prodotti, nei mercati detti “reali”.
Detto per inciso, questo fatto avrebbe già dovuto far
ricredere molti teorizzatori della formazione del monopolio (oligopolio più
precisamente), regime di mercato in cui si supponeva si sarebbero istituiti
cartelli o trust (cioè accordi fra imprese), e poi ulteriori accordi tra
questi, con il controllo, e dunque regolazione, dei mercati da parte di queste
grandi imprese oligopolistiche. Tanti accordi ed evidentemente poco controllo
dei mercati, se si producevano fenomeni come le crisi, soprattutto del tipo
1907 e 1929. Si consideri la prima – in base soprattutto al
nostro necessario modo di pensare per analogie – come una sorta di
prova generale della seconda, assai più grave e considerata, come già
detto, la, non una, crisi. Essa si fa partire dall’ottobre del ’29,
nelle due giornate di tracollo della Borsa valori di New York (anche nel 1907,
la crisi partì nello stesso modo e dallo stesso luogo). In certi scritti (o
perfino film) d’epoca, o di ricostruzione della stessa, si favoleggia della
miriade di finanzieri gettatisi dai grattacieli di quella città. In realtà,
l’aspetto più pregnante della crisi lo si vide nel 1932, e ancora nel ’33, con
il ben noto Pil al più basso livello e la disoccupazione della forza lavoro al
suo massimo; e una autentica miseria nera, la vera e propria fame di massa.
Fatto 100 il Pil del 1918, all’uscita dalla guerra mondiale,
questo crebbe negli Usa per tutti gli anni ’20 (di boom) e giunse a 122 nel
1929. Nel ’33 fu 81 (un bel tracollo) e poi risalì a 116 (ancora ben sotto il
1929) nel 1940 – a nuova guerra mondiale già scoppiata, in cui gli Stati Uniti
entrarono nel dicembre 1941 dopo Pearl Harbor – e balzò a 198 nel ’45 alla fine
della stessa. Un bell’affare la guerra! Se guardiamo alla produzione
industriale, fatta 100 quella del ’29, essa può essere così riassunta in
tabellina
Stato
|
1930
|
1931
|
1932
|
1933
|
1934
|
1935
|
Stati Uniti
|
83
|
69
|
55
|
63
|
69
|
79
|
Gran Bretagna
|
94
|
86
|
89
|
95
|
105
|
114
|
Francia
|
99
|
85
|
74
|
83
|
79
|
|
Germania
|
86
|
72
|
59
|
68
|
83
|
96
|
Austria
|
91
|
78
|
66
|
68
|
75
|
|
Italia
|
93
|
84
|
77
|
83
|
85
|
|
Svezia
|
102
|
97
|
89
|
93
|
111
|
|
Cecoslovacchia
|
91
|
64
|
60
|
67
|
70
|
|
Ungheria
|
87
|
82
|
88
|
99
|
107
|
|
Romania
|
105
|
82
|
101
|
126
|
||
Bulgaria
|
104
|
107
|
103
|
98
|
103
|
|
U.R.S.S.
|
183
|
Per quanto riguarda la disoccupazione, i dati hanno il
medesimo andamento; gli anni cruciali restano sempre il 1932-33. Su scala
planetaria, la disoccupazione fu sempre mediamente sopra il 20% tra il 1929 e
il ’33. Negli Usa, i dati ufficiali furono assai imprecisi in quegli anni;
comunque nel 1932-33 detta disoccupazione si stimò tra il 25 e il 33% della
forza lavorativa, con almeno 15 milioni di senza lavoro.
Dopo la vittoria presidenziale di F.D. Roosevelt – a fine
’32, con insediamento nel gennaio ’33 – fu lanciato il ben noto New Deal;
un programma di riforme sociali ed economiche. Interessa soprattutto il fatto
che esso si basò su un forte incremento della spesa statale effettuata in
deficit di bilancio (senza dunque preoccupazioni per il Debito pubblico),
anticipando così, si può dire, la successiva teoria keynesiana formulata nel
1936: indubbiamente una sorta di sistemazione teorica (definita generale) di una
pratica (politica) economica anticipatrice. Prima di passare ad alcune
delucidazioni della stessa, voglio ricordare che il sollievo, per il sistema
economico statunitense, si manifestò soprattutto nel ’34-’35; già nel 1936 e
‘37 l’economia diede segni di debolezza e, tutto sommato, la fase restò di
sostanziale stagnazione, con modesti aumenti del Pil fino alla seconda guerra
mondiale.
Non a caso, da quell’andamento derivarono, sempre con un
certo ritardo, gli studi di autori come Alvin Hansen, Steindl e altri che,
estendendo al lungo periodo la teoria di Keynes, sostennero tesi stagnazioniste
sulla base di considerazioni, qui adesso di impossibile analisi, sulle
innovazioni e l’aumento della produttività del lavoro, su certi limiti della
crescita della domanda connessi, fra l’altro, a corrispondenti limiti
nell’innovazione di nuovi prodotti. In modo sommario, potremmo dire che le tesi
stagnazioniste davano forte rilievo alle innovazioni di processo (aumento
quindi della produttività e della capacità produttiva del sistema a parità di
fattori occupati) mentre pensavano ormai in esaurimento la prospettiva
dell’apertura di nuovi grandi settori produttivi – come furono poi invece,
l’informatica ed elettronica, l’aerospaziale e altri – con conseguente debolezza
della domanda complessiva (consumi più investimenti).
3. Cercherò, sia
pure in modo vergognosamente sommario, di dare un’idea delle idee sulla crisi
esistenti all’epoca di cui stiamo trattando. La teoria economica neoclassica,
che dominava nell’accademia ormai dal 1870, non ammetteva la possibilità di
crisi se non come conseguenza di comportamenti che non si attenevano ai
principi liberal-liberisti. Era necessario che si verificassero imperfezioni
nel funzionamento del mercato, imperfezioni legate al comportamento non
corretto di individui e gruppi di individui. Si credeva ciecamente alla ben
nota “mano invisibile” (del mercato) di smithiana memoria, per cui era
sufficiente lasciar funzionare gli automatismi mercantili senza intralci, in
particolare da parte dello Stato. Sono costretto in questa sede a non discutere
del carattere rivoluzionario (ma non troppo) che aveva la teoria smithiana
nell’epoca in cui fu formulata (la Ricchezza delle nazioni fu
pubblicata del 1776; eravamo nel periodo iniziale della prima rivoluzione
industriale).
La teoria neoclassica si serviva di tali tesi per indicare
la necessità che i soggetti da essa considerati “produttori”, gli imprenditori
– nello svolgimento di quella che era pensata come loro funzione precipua: la
combinazione dei fattori della produzione (terra e soprattutto capitale e
lavoro), funzione svolta in reciproca competizione – fossero perfettamente
liberi nelle loro operazioni di acquisto di detti fattori e di vendita dei
prodotti nel mercato. Secondo la teoria in oggetto, ne sarebbe risultata la
continua riduzione di costi e prezzi con vantaggio dei consumatori finali delle
merci prodotte. Con la precisazione che la domanda complessiva riguarda sia i
beni di consumo in senso proprio, necessari alla vita degli individui, sia i
beni “consumati” nell’attività produttiva quali suoi fattori, il cui acquisto
da parte degli imprenditori è ciò che viene indicato come investimento.
In tutte queste operazioni, effettuate nel mercato tramite
uso di denaro, l’ente preposto agli affari pubblici, lo Stato, non deve mettere
becco. Secondo le teorie liberiste esso avrebbe l’obbligo di limitarsi ad
espletare una serie di servizi amministrativi di interesse generale, di
regolazione dell’ordinata riproduzione dei rapporti intersoggettivi nella
società dello scambio mercantile generalizzato. In un certo senso, si tratta
soprattutto dei compiti di fondamentale “polizia” per impedire l’illegalità di
certi comportamenti dei vari “soggetti” attivi nella “società civile”. Non a
caso lo Stato veniva spesso definito veilleur de nuit, espressione assai
significativa.
Il costo dei servizi statali va coperto con l’imposizione
fiscale, limitata appunto alla semplice raccolta di quanto speso per fornirli.
Uno dei principi fondamentali, cui si attiene la teoria neoclassica
tradizionale, è perciò quello del pareggio del bilancio statale, al quale si è
contravvenuto spesso soprattutto in caso di guerre, considerate però eventi
eccezionali, che disturbano il normale e virtuoso funzionamento delle “leggi”
del “libero mercato”. A parte queste eccezioni – che poco lo furono perfino
durante l’epoca considerata fondamentalmente pacifica tra la guerra
franco-prussiana del 1870 e la prima guerra mondiale, se non altro a causa
della continuazione e accentuazione delle imprese coloniali – una spesa
eccessiva dello Stato, comportante poi per detta teoria l’inasprimento fiscale
onde ripristinare il pareggio in questione, fu sempre ritenuta comportamento
irrituale e dannoso per il sistema economico.
Come le guerre, anche le crisi economiche erano trattate
quali eventi eccezionali legati all’imperfezione dei comportamenti umani, il
che tuttavia non inficiava la legge generale dello spontaneo equilibrarsi
dell’offerta e della domanda dei beni se ci si fosse attenuti alla piena
libertà degli scambi nel mercato. Volendo pensare analogicamente, è un po’ come
la legge galileiana del moto rettilineo uniforme, il cui funzionamento è più o
meno sempre alterato da vari attriti esistenti nel mondo reale; e tuttavia essa
viene stabilita in base alla supposizione di assenza di attriti e considerata
l’“attrattore naturale” cui tende il moto quanto meno esso è disturbato dagli
stessi. La teoria neoclassica procedeva in modo simile: ammetteva l’esistenza
di “attriti” (guerre, crisi economiche), ma pensava la “mano invisibile” del
mercato quale legge “naturale” vigente nel mercato. Di conseguenza, sarebbe
necessario perseguire lo scopo di attenuare il più possibile qualsiasi fenomeno
perturbatore di tale “legge”.
Lo scoppio di crisi della gravità di quelle del 1907, e
soprattutto del 1929, non poteva non destare una serie di discussioni. Esse
richiedevano spiegazioni supplementari. Sarò molto sommario. La tesi liberista
più tradizionale, rifacendosi comunque al fenomeno allora considerato più
vistoso e socialmente preoccupante, la disoccupazione dei lavoratori, lo legava
all’imperfezione introdotta dall’associazione sindacale nella libera
contrattazione della merce forza lavoro. Il sindacato avrebbe spinto il salario
al di sopra della produttività marginale del lavoro; diciamo, in soldoni, che
questa è la produzione dell’ultima unità lavorativa occupata. Essendo tale
produttività, almeno da un certo punto in poi, decrescente al crescere di tali
unità occupate, se il salario viene irrigidito dalla contrattazione sindacale
ad un dato livello, l’imprenditore impiegherà successive unità lavorative solo
fino a quando l’incremento di prodotto così ottenuto resta eguale o superiore
al livello in questione. Se in tale situazione sussiste la disoccupazione di
una parte dei lavoratori, l’unico modo per eliminarla o ridurla è consentire
l’abbassamento della retribuzione in modo da adeguarla alla produttività
dell’ultima unità di lavoro da occupare.
Non fu questa la via seguita durante il New Deal. In
varia guisa, si decise per l’attuazione di opere di tipo infrastrutturale, non
certo profittevoli per l’impresa privata e dunque finanziate dallo Stato. Tali
opere non puntavano affatto al rientro in tempi brevi della spesa sostenuta
tramite vendita dei loro servizi. Si trattava invece di occupare la forza
lavoro rimasta disoccupata per la crisi; il costo salariale era
sostenuto in tototramite l’iniziativa di vari enti statali, alcuni creati
appunto per l’occorrenza. Si pensi alla Federal Emergency Relief
Administration e alla Civil Works Administration (e poi,
nel 1935, la Works Progress Administration). Furono inoltre istituiti
il Civilian Conservation Corps, che distribuì mezzo milione di posti di
lavoro a giovani, impiegati in opere di rimboschimento e di controllo delle
acque, e la Tennessee Valley Authority, che realizzò giganteschi lavori di
sistemazione idraulica e di sfruttamento delle acque negli Stati meridionali,
utili poi alla successiva intensa industrializzazione di quelle aree.
Secondo i principi del liberismo, relativi al necessario
pareggio di bilancio, simili costose opere si sarebbero dovute finanziare con
un inasprimento fiscale; il che era già comunque considerato negativo dal
pensiero economico tradizionale perché avrebbe in ogni caso creato “attriti” al
libero movimento della produzione e degli scambi nel mercato, incrementando le
spese generali delle imprese con il pagamento di imposte eccessive. Non fu però
il problema fiscale il punto d’attacco cruciale su cui si concentrò la critica
alle tesi liberiste. Critica intanto pratica, legata alla politica economica
del periodo rooseveltiano; e poi sistematizzata da Keynes in Teoria
generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, testo pubblicato nel
1936.
4. Anche qui
procederò in modo impressionistico, cercando di dare una qualche idea di una
teoria che da allora dominò nel mondo accademico fino alla ripresa neoliberista
dell’epoca thatcheriana e reaganiana, verificatasi a partire dagli anni ’80 del
secolo scorso. La scuola liberista più tradizionale accettava di fatto la
teoria di Jean Baptiste Say (1767-1832), che formulò la nota “legge degli
sbocchi” secondo cui l’offerta crea la propria domanda, i prodotti di fatto si
scambiano con altri prodotti e la moneta è un semplice intermediario che rende
più facile tale scambio (rispetto al baratto). Naturalmente, la gestione della
ricchezza nella sua forma liquida, monetaria, è affidata ad un settore
particolare: quello bancario (e finanziario in genere, ivi comprese le Borse
valori, ecc.). Tuttavia, tale settore è pensato come soltanto utile e
“servizievole” nei confronti di quelli produttivi. Com’è stata utilizzata
questa “legge” di Say in ambito liberista?
La produzione dei beni (compresi quelli detti servizi)
genera reddito per coloro che hanno partecipato alla stessa. Parte del reddito
serve a domandare, cioè ad acquistare le merci necessarie al soddisfacimento
dei bisogni degli individui in quanto consumatori. Una parte viene risparmiata.
Quest’ultima, tuttavia, viene anch’essa “consumata”, nel senso che si traduce
in domanda dei beni in quanto fattori della produzione; essa viene cioè
investita dagli imprenditori per svolgere la loro funzione precipua. A
qualsiasi livello di reddito prodotto, non ci sarebbe problema per quanto riguarda
l’assorbimento dell’intero risparmio da parte dell’investimento (domanda di
beni di produzione); l’eguaglianza tra i due verrebbe assicurata dai movimenti
del saggio d’interesse. Quanto più risparmio è disponibile, tanto più il
sistema bancario, che funge da intermediario tra risparmiatori e imprese
investitrici, fornisce credito a queste ultime a tassi più bassi, in linea con
gli utili aziendali. Anche in tal caso, si ragiona in termini di “margini”; gli
utili aziendali di riferimento per i tassi sono quelli dei gruppi di imprese al
margine inferiore (comunque, non è adesso il caso di entrare in dettaglio, si
afferri l’insieme del ragionamento nei suoi termini più generali).
La teoria keynesiana – ed è per questo che viene
generalmente considerata una teoria monetaria – rompe decisamente sulla
funzione della moneta, che non è trattata quale mero intermediario negli
scambi, svolgendo invece anche funzioni di “riserva” per motivi precauzionali
(l’incertezza del futuro per i vari “soggetti”, individuali o di “gruppo” come
le imprese, ecc.) e speculativi (desiderio di lucrare sugli andamenti
oscillanti dei prezzi dei beni, in particolare di quel bene che è la moneta e
titoli vari, ecc.). Importante è però la considerazione intorno all’entità del
risparmio. Nelle società capitalistiche opulente, a reddito prodotto elevato,
la massa di risparmio è talmente elevata che non ci sarebbe alcun livello del
saggio d’interesse, per quanto basso, in grado di assicurare nel tempo la
suddetta eguaglianza tra tale massa e la domanda d’investimento.
Andando veloci. Si produce una data quantità di beni che
viene venduta con un certo introito complessivo. Questo si distribuisce tra
coloro che hanno partecipato alla produzione e quindi diventa il reddito di
tali soggetti, diventa cioè soprattutto profitti e salari (e anche parcelle dei
professionisti, emolumenti vari e via dicendo). Tale reddito serve in parte ad
acquistare beni per vivere (il consumo) e in parte viene risparmiato. Affinché
tutto ciò che viene prodotto venga anche acquistato è necessario che la parte
risparmiata sia pur essa spesa; altrimenti non funziona la legge degli sbocchi
di Say. Il risparmio deve dunque tradursi in investimento; ovviamente con
l’intermediazione degli istituti che lo raccolgono e poi lo forniscono in
prestito agli investitori. Se ad un certo punto, le aspettative di questi
investitori circa i loro utili per il futuro diventano negative, nessun
abbassamento del saggio d’interesse sui prestiti li indurrà alla domanda dei
beni (fattori) di produzione; la domanda complessiva (consumi più investimenti)
non assorbirà dunque tutta la produzione già ottenuta e tradottasi in reddito
per i partecipanti ad essa, reddito il cui valore si divide in consumi e
risparmi. Il relativo eccesso del risparmio rispetto all’investimento comporta
insomma l’invendibilità di una quota di prodotto (composta soprattutto di beni
d’investimento, di fattori produttivi). La diminuzione degli introiti provoca
chiusura di attività, licenziamenti, caduta quindi della massa salariale,
contrazione della domanda di beni di consumo, ulteriori quote di produzione
invenduta, ancora minori introiti, ecc. S’innesta così il circolo vizioso della
crisi.
Ci si accorge facilmente che l’elemento cruciale della
teoria è rappresentato dal pessimismo delle aspettative circa la possibilità di
utili futuri per gli investimenti da effettuare, per cui questi si bloccano o
comunque non aumentano a sufficienza per assorbire tutto il reddito
risparmiato. In date congiunture – e quanto più è elevato il reddito prodotto
in società tendenzialmente opulente – non c’è alcun modo di indurre gli
investitori a domandare. Il saggio d’interesse è impotente poiché ci si aspetta
addirittura perdite e non utili. Di conseguenza, a meno di non supporre che, assai
poco razionalmente, subentri ad un certo punto un’ondata di pessimismo
preconcetto, la teoria spiega il circolo vizioso che si mette in moto quando la
crisi è già scoppiata e, di conseguenza, il pessimismo delle aspettative si è
già nutrito delle difficoltà insorte nella vendita delle merci prodotte.
Non si chiarisce dunque, in senso proprio, che cos’è la
crisi e le sue motivazioni di fondo; si dice più semplicemente che, entrati
nella crisi, procedere con le ricette liberiste è un suicidio. Seguire coloro
che sostenevano la necessità di abbassare i salari, per adeguarli alla
produttività marginale del fattore lavoro, avrebbe significato ridurre la
capacità d’acquisto di tipici consumatori e dunque anche la domanda di beni di
consumo oltre a quella per investimenti, aggravando l’avvitamento della crisi
stessa. Da qui, la famosa valutazione positiva della Favola delle
api di Mandeville: le virtù private (in tal caso il risparmio) divengono
vizi pubblici, cioè un modo per aggravare la situazione della collettività;
mentre spendere e ancora spendere (questo terribile “vizio” del consumismo,
oggi così inviso a tutti i “virtuosi” che imperversano soprattutto a
“sinistra”, ma non solo in questa) può alleggerire la situazione collettiva.
5. Il New
Deal non si adeguò ai principi liberisti e mise in moto un’ampia spesa
statale per opere infrastrutturali. La finalità principale della mossa era
quella di alleviare la questione sociale che poteva divenire pericolosa in una
situazione di così vasta disoccupazione lavorativa. Non ci si preoccupò del
debito pubblico in conseguente notevole ascesa, poiché il problema fondamentale
era occupare il maggior numero di lavoratori possibile. La successiva
teorizzazione keynesiana diede però a tale scelta anche una razionalità in
termini di politica economica adeguata a combattere la crisi nei suoi termini
più generali. La domanda privata era carente. Come già è stato detto sopra, le
aspettative imprenditoriali erano improntate al netto pessimismo e la domanda
di beni d’investimento dunque cadeva malgrado ogni possibile riduzione degli
interessi chiesti sui prestiti. La chiusura delle imprese provocava
licenziamenti, riduzione dell’occupazione e perciò della massa salariale con
conseguente riduzione della domanda di beni di consumo, ulteriore peggioramento
delle aspettative imprenditoriali, nuovi licenziamenti, ulteriore contrazione
della massa salariale e della domanda di consumo; e così via nel circolo
vizioso della crisi.
La spesa statale doveva supplire alla deficienza di quella
privata. Per il compimento delle opere pubbliche venivano riaperte date
imprese; riprendeva la domanda di beni d’investimento di queste ultime, veniva
riassunta una quota di lavoratori disoccupati, iniziava dunque a crescere la
massa salariale distribuita con aumento della domanda di consumo, che spingeva
altre imprese ad entrare in campo, ecc. ecc.; si metteva in moto quello che
venne definito il moltiplicatore degli investimenti (pubblici), invertendo così
il circolo vizioso precedente e favorendo la ripresa del sistema economico. Il
risollevarsi del reddito prodotto, anche a parità di pressione fiscale – o
addirittura con il suo alleggerimento per stimolare l’attività imprenditoriale
– avrebbe condotto ad un incremento del gettito delle imposte con possibile
riduzione del debito nel prosieguo di questa politica economica. Mentre,
all’incontrario, calcare sull’imposizione fiscale con l’ossessione del pareggio
di bilancio e del debito pubblico, avrebbe avuto influssi negativi sulla
domanda, dunque sulla crescita, con il possibile risultato finale di un deficit
di bilancio non sanato e di un debito pubblico magari in aumento.
Questo, molto all’ingrosso, il ragionamento seguito per
giustificare una politica di spesa statale in deficit di bilancio, una spesa che
si preoccupava il meno possibile della crescita del debito dello Stato. E’ bene
chiarire alcuni punti essenziali. Intanto, la spesa pubblica s’interessava
tutto sommato meno delle opere che venivano portate a compimento tramite essa
di quanto invece non puntasse al reimpiego della forza lavoro (combattendo la
disoccupazione che era una piaga sociale e non un mero fatto economico),
ottenendo nel contempo un rilancio dei consumi depressi che miglioravano le
aspettative imprenditoriali e stimolavano quindi la crescita produttiva tramite
la messa in moto del già ricordato circolo virtuoso (con moltiplicazione degli
effetti di una spesa iniziale). Per realizzare una simile finalità, era
necessario che la spesa pubblica fosse veramente aggiuntiva rispetto a quella
privata. Essa doveva dunque essere effettuata in deficit di bilancio, al limite
stampando nuova moneta e con questa ottemperando agli obblighi
dell’investimento statale. Se si fosse preteso il mantenimento del pareggio di
bilancio, ottenuto allora con un incremento delle imposte, si sarebbe tolto con
una mano ciò che si dava con l’altra. Lo stimolo alla domanda, e quindi alla
ripresa, sarebbe venuto a mancare (salvo considerazioni particolari, contenute
nel cosiddetto teorema di Haavelmo, che non credo sia qui d’interesse e nemmeno
di possibile discussione).
Altro punto d’estrema rilevanza è che quanto appena detto è
valido se si fa riferimento ad un sistema economico capitalisticamente
sviluppato, dove non esiste soltanto disoccupazione del “fattore” lavoro, ma
inutilizzazione di una corrispondente massa di beni di produzione, del capitale
fisso. Devono esserci lavoratori a spasso, ma anche fabbriche chiuse e con
impianti in grado di essere rimessi presto in funzione. E’ inoltre necessario
che si sia già ampiamente e lungamente sviluppato il cosiddetto spirito
imprenditoriale. La domanda d’investimento è caduta perché le aspettative degli
imprenditori sono divenute pessimistiche, quindi a crisi già in atto. La spesa
pubblica ridà fiducia a questi soggetti, i quali sono già in possesso delle
strutture produttive non più funzionanti per la caduta della domanda privata, e
non aspettano altro che veder migliorare nuovamente la prospettiva di sbocchi
di vendita.
Ove non sussista questa seconda indispensabile condizione,
la spesa pubblica, lo stampare nuova moneta per finanziarla, ecc. conducono
solo all’inflazione senza crescita del reddito prodotto in termini reali.
Infatti, quando nel dopoguerra, simili teorie furono pure applicate in paesi in
via di sviluppo (per non dire arretrati, sottosviluppati), mancanti di
industrie o di un’agricoltura appena un po’ modernizzata con livelli di
produttività almeno in parte paragonabili a quelli dei paesi sviluppati, e
inoltre privi di qualsiasi strato sociale che potesse dirsi imprenditoriale, i
risultati furono catastrofici o quanto meno nulli.
6. Non insisterei
oltre in una spiegazione così indubbiamente sommaria delle questioni attinenti
alla crisi. Ricordo solo che le tesi keynesiane hanno dominato nella scuola accademica
per oltre quarant’anni. Sarebbe assurdo tentare qui un bilancio del successo o
insuccesso delle stesse; certamente esse sono andate incontro ad una crescente
obsolescenza con il passare del tempo dal 1945 in poi. Alla fine si è
riaffermato il (neo)liberismo e sono tornate in voga tutta una serie di
tematiche che sembravano battute per sempre. Da alcuni decenni, con
accelerazione negli ultimi anni, si sta procedendo al netto ridimensionamento
del Welfare State, Stato del benessere o Stato sociale – affermatosi
decisamente nel dopoguerra e due pilastri del quale sono il sistema
pensionistico e quello sanitario – sempre più sotto attacco perché considerato
la causa principe del debito pubblico; in Italia esso è dunque in fase di
sgretolamento ancor più che in Germania e in Francia.
Inutile diffondersi adesso sui motivi dell’affermazione, per
alcuni decenni, di questo Stato sociale, caratteristico soprattutto dell’Europa
(e poi anche Giappone) mentre è sempre stato carente negli Stati Uniti, il
paese in cui venne lanciata di fatto, ancor prima di ogni teorizzazione in
merito, la spesa pubblica in deficit, senza eccessive preoccupazioni nel breve
periodo circa il debito dello Stato, che in un periodo più lungo si pensava
venisse sanato dalla crescita delle entrate fiscali dovuta alla ripresa
dell’attività produttiva e dunque del reddito dei singoli soggetti,
imprenditori e lavoratori in testa, in essa impegnati. Non mi sembra comunque
che in Keynes si trovasse l’indicazione di uno Stato sociale. Veniva più
semplicemente affermata la necessità di procedere – quando scoppia una crisi in
un paese avanzato e ben dotato di tutti i fattori produttivi (capitale e
lavoro) – ad un’ampia domanda da parte della sfera pubblica in grado di
supplire alle carenze di quella privata, legata alle aspettative
imprenditoriali e poco sensibile al saggio d’interesse.
Alla creazione dello Stato sociale in Europa hanno
senz’altro contribuito cause sociali e politiche: a) la presenza del “campo
socialista”, visto come antagonista di quello capitalistico con larga
incomprensione, ancora attuale, del nuovo sistema di rapporti sociali, già
entrato in crisi e difficoltà di sviluppo a partire dagli anni ’60 (tanto che
alcuni ne videro la fine già segnata all’inizio di quelli ’70); b) le lotte del
movimento operaio, e dei lavoratori subordinati in genere, per un lungo periodo
di tempo dopo la seconda guerra mondiale. Un motivo da non sottovalutare, anzi
da ritenere fra i principali, fu la convinzione che lo sviluppo di un paese
dipendesse soprattutto dalla spinta che ad esso imprime la domanda. Non ci si
scordi che, in definitiva, pur con tutte le debite critiche al liberismo
tradizionale, anche i keynesiani sono in definitiva dei neoclassici.
Inoltre, nell’ambito stesso del liberismo neoclassico
prekeynesiano, malgrado le tesi sul primato del consumatore e delle sue scelte,
si attribuiva rilevanza alle funzioni dell’imprenditorialità. Già nel 1911-12,
nella sua Teoria dello sviluppo economico, Schumpeter, certamente un
neoclassico non ortodosso, assegnò centralità al ruolo dell’imprenditore
innovatore, mettendo in luce l’importanza dell’invenzione di nuovi prodotti,
che ha effetti di sviluppo (non di semplice crescita del prodotto) superiori
all’innovazione di processo (il progresso tecnico, semplificando). Per quanto
interessante sia la questione, non posso qui diffondermi sui limiti del
marxismo tradizionale, con la sua teoria del capitalista proprietario dei mezzi
di produzione, il cui profitto è estrazione di pluslavoro alla forza lavoro
venduta come merce. Si potrebbe constatare, anche in un semplice confronto con
la teoria dell’imprenditorialità, quanto abbia errato il marxismo in merito
alla struttura dei rapporti sociali formatasi con la cosiddetta
centralizzazione dei capitali; in genere interpretata quale semplice formazione
del monopolio, catena posta allo sviluppo delle forze produttive e causa della
separazione della proprietà rispetto alla direzione della produzione con
crescente antagonismo tra capitalista (ormai solo rentier) e lavoratore
collettivo cooperativo (“dall’ingegnere all’ultimo manovale”, parole di Marx).
Chi è stato ossessionato, negli ultimi vent’anni
soprattutto, dal problema del Debito pubblico e del rapporto deficit/Pil –
ossessione cresciuta in modo esponenziale con l’inizio della nuova crisi nel
2008 – può trovare qualche utilità nell’approfondire le varie questioni che in
questo scritto ho potuto solo adombrare. La comprensione della crisi, nei suoi
vari aspetti, sarebbe però monca se non affrontassimo, ancora più
succintamente, la questione dei limiti dell’economicismo imperante e
dell’ignoranza dei punti nodali relativi alla politica, alle strategie dei vari
gruppi dominanti in conflitto per la supremazia.
P.S. Leggendo questa prima
parte, qualcuno avrebbe dovuto sentirsi fischiare le orecchie pensando a come
viene presentata l’attuale crisi e quali misure si stiano adottando per
combatterla; fine dichiarato, ma che a mio avviso non è quello reale, imposto
dall’esterno e, in primo luogo, dagli Usa. Faccio al momento solo pochi accenni
alle questioni odierne. Dal novembre del 2011, data di avvento dei presunti
“tecnici” per combattere la crisi tramite una impressionante serie di
provvedimenti che hanno colpito a fondo le condizioni di vita di gran parte
della popolazione, il debito pubblico è cresciuto da 1905 miliardi a ormai 2000
(1995 in settembre); si è passati dal 120 al 127% del Pil. Le previsioni dicono
il 129,6% nel 2013 e il 131,4% nel 2014. I decimali, nelle previsioni
soprattutto, fanno un po’ ridere, ma l’importante è la tendenza indicata.
Ricordo, comunque, che il Giappone ha un rapporto debito/pil di oltre il 200%,
si parla perfino del 220%. Anche se poi vi è la differenza legata al fatto che
il 90% d’esso è in mano ai giapponesi, mentre il debito italiano è solo per la
metà di pertinenza di nostri cittadini. Il debito Usa supera il 100% del Pil.
Alcuni rilevano che tale percentuale riguarda soltanto il debito federale;
complessivamente, se si considera anche il debito dei singoli Stati, si va verso
percentuali del rapporto debito/Pil superiori a quelle italiane (qualcuno parla
del 140%).
Infine, si tenga presente che il debito pubblico è solo una parte del problema. In realtà, bisogna valutare la situazione debitoria o meno dei privati, dei cittadini di un paese. In Italia, pur se è negli ultimi tempi in diminuzione, è abbastanza alto il risparmio privato; e questo fa in qualche modo da contraltare al debito pubblico. Se si somma quest’ultimo al suddetto risparmio, l’Italia è in condizioni migliori o meno peggiori rispetto a quasi tutti gli altri paesi sviluppati, ivi compresa la Germania, forse il più “virtuoso” in merito; per non parlare invece degli Usa e del solito Giappone. Tale fatto pone in luce ancora peggiore le attuali politiche governative, che stanno spingendo i privati ad intaccare i risparmi per non ridurre il loro tenore di vita. E i consumi, malgrado questa “resistenza”, sono in notevole diminuzione.
II. Un ripensamento
complessivo
1. Ribadisco
innanzitutto che la crisi economica è fenomeno di superficie (“terremoto”),
dovuto alla generale forma di merce assunta da ogni (o quasi) prodotto
dell’attività umana nel sistema capitalistico, implicante l’uso della moneta, e
dei mezzi ad essa equivalenti, nello scambio tra i vari soggetti. E’
indispensabile distinguere una vera crisi da quelle che talvolta passano per
tali, ad esempio l’estrema labilità delle Borse valori, soggette a continue e
talvolta assai ampie oscillazioni; per non parlare
dello spread (differenziale tra gli interessi pagati sui titoli del
Debito pubblico dai vari Stati, di cui si è preso ossessivamente in
considerazione quello tra Germania e Italia), che è diventato la “moda
corrente” nell’attuale crisi; iniziata nel 2008 senza che in pratica nessun
“esperto” di problemi economici l’avesse prevista e pressoché tutti l’abbiano
per un bel po’ sottovalutata.
Le “crisi” dell’ultimo tipo citato dipendono da fenomeni
speculativi sul denaro e i titoli; inoltre possono essere con un certo successo
manovrate in senso politico per conseguire dati obiettivi, ad esempio il cambio
di un governo o comunque una serie di operazioni che conducono dati paesi ad
una maggiore dipendenza da altri; dipendenza comunque già in atto per ben altri
motivi più cogenti. Le vere crisi economiche – caratterizzate da crolli
improvvisi e catastrofici (tipo 1929) o invece da un lungo periodo di
sostanziale stagnazione (tipo quella di fine secolo XIX, 1873-96, cui tende
sempre più ad assomigliare la recente crisi generale di sistema del 2008) – non
sono affatto controllabili e manovrabili da nessuna forza economica e politica.
La prima di quelle da potersi considerare capitalistica si manifestò nel 1816.
Tuttavia, essa ebbe ancora ampi caratteri di carestia, essendo dovuta a
particolari condizioni climatiche che influirono sull’agricoltura; di
conseguenza fu in qualche modo simile alle crisi delle epoche
precapitalistiche, quando l’agricoltura era nettamente predominante. Nel 1816
siamo già nel pieno della prima rivoluzione industriale (1760-70/1830-40), ma evidentemente
quello che Marx denominò modo di
produzione specificamente capitalistico non si era pienamente
formato (e affermato).
Da allora, e sempre più, le crisi divennero capitalistiche
nel loro senso peculiare: niente carestia, sempre più ingorgo dei mercati
invece, cioè una domanda (di consumo e di investimento) che non tiene dietro
all’offerta (produzione) di merci. Peculiarità della crisi capitalistica è il
suo scatenare un processo d’impoverimento della popolazione nel bel mezzo di
un’accentuata crescita della produzione per il mercato, che ad un certo punto
resta però in buona parte invenduta mettendo in moto, come già considerato, il
circolo vizioso della crisi stessa. Soprattutto (non esclusivamente) quando si
andarono formando le grandi società per azioni, già a metà ‘800 e poi sempre
più, le crisi furono accompagnate da gravi perturbazioni nei mercati dei titoli
(azioni, obbligazioni, ecc.). Anzi, l’apparenza non fu quella
dell’accompagnamento, bensì dell’impulso impresso alla crisi da un grave crollo
dei prezzi in Borsa. All’inizio la crisi si manifesta dunque nel suo aspetto
finanziario, il quale è stato caratteristico in particolare dei gravi
sprofondamenti del tipo 1907 e 1929.
Proprio tale prima fase della crisi, caratterizzata da
bruschi fenomeni di tracollo dei prezzi in Borsa, consente agli “esperti”, ai
“tecnici”, una serie di fughe ideologiche. Si parte sempre dall’accusa ai
finanzieri, in specie ai banchieri, di aver esagerato nella loro specifica
funzione per ingordigia di profitti. Li si rende anche responsabili di una
serie di non ottemperanze a date regole, sempre più complicate, che si sono
andate formulando e consolidando nella lunga storia del capitalismo. Qualche
volta si parla persino di un comportamento “non etico” da parte di chi svolge
funzioni di notevole rilevanza in merito alla fornitura dei mezzi essenziali
per l’attività produttiva. In un sistema economico fondato sulla generalità
degli scambi mercantili, nessuna produzione, condotta da singoli “soggetti” (le
unità produttive denominate imprese), può essere iniziata se non a partire dal
possesso di denaro (o equipollente) con cui acquistare i “fattori” produttivi;
e buona parte di questo mezzo monetario è fornita appunto dal sistema bancario,
nervatura centrale di quella che viene complessivamente detta finanza.
Di conseguenza, quando si manifesta il tipico carattere
capitalistico della crisi – l’ingorgo di merci invendute con conseguente
diminuzione dell’attività produttiva – il fenomeno che si manifesta con
maggiore evidenza, indicato allora come causa dell’evento, è appunto il
“cavallo che non beve”; fuor di metafora, ciò significa che l’imprenditore non
chiede più denaro in prestito poiché gli mancano le occasioni di proficuo
investimento. Egli si trova inoltre in difficoltà nel restituire i prestiti già
ottenuti in passato quando ancora l’economia “tirava” e la domanda era
sostenuta. Data l’autonomia di funzione acquisita dal settore bancario rispetto
a quello industriale, il primo (l’apparato finanziario) usa l’influenza anche
politica di cui ormai gode per ovviare ai peggiori effetti che la crisi ha su
di esso; e ci riesce in genere con qualche successo (spesso temporaneo),
approfittando però, soprattutto, della configurazione del sistema produttivo
(in specie industriale) che vede in campo, oltre alle grandi imprese (con
influenza nei mercati e nella sfera politica non inferiore a quella delle
banche), una miriade di piccole attività, ad esempio il cosiddetto artigianato,
il lavoro “autonomo” (che lo è assai poco nei fatti), dotati di assai minore
forza e capacità di “pressione” sulla politica.
Tutto questo fa dimenticare per troppo tempo il
lato reale della crisi, cioè la diminuzione dell’attività produttiva
e quindi del reddito di gran parte della popolazione, con l’innescarsi di
fenomeni negativi ben più duraturi – sebbene all’inizio meno appariscenti di un
crollo di Borsa e del fallimento di alcune banche – che prendono gradatamente
il davanti della scena con i loro vasti effetti sociali di disoccupazione e
povertà diffusa. A questa la gente tenta di resistere – soprattutto nei paesi
capitalisticamente avanzati – intaccando i risparmi accumulati negli anni
buoni. Anche per questo motivo la crisi reale, implicante il
depauperamento di un’ampia quota della popolazione, si sviluppa con maggiore
gradualità, interpretata spesso dai gazzettieri ed “esperti” come “luce in
fondo al tunnel”, preannuncio della fine della crisi, prospettive di
miglioramento per il futuro, che si fa attendere molto a lungo.
Si pensi sempre al caso esemplare del 1929-33. In una
settimana di ottobre (dal giovedì 24 al terribile martedì 29, i due “giorni
neri”) si scatenò l’inferno; però in Borsa, presso certi Istituti finanziari,
nelle pagine dei giornali, alla radio e media in genere. La “gente” fu
all’inizio colpita soprattutto emotivamente. Tuttavia, con il passare degli
anni, non dei mesi, essa si rese conto della netta diminuzione del proprio
tenore di vita e, per una sua discreta parte, della perdita delle proprie
riserve; pur nello sfavillio, invece, di quegli “anni ruggenti”, anche a causa
del proibizionismo e degli affari che arricchivano i malavitosi. In realtà, nel
1932-33, ben dopo l’ottobre nero della Borsa, si videro non i crolli di Borsa,
bensì le lunghe file di disoccupati con gavetta in mano alle mense pubbliche;
una scena che entrò nel cinema, perfino ad esempio nel genere leggero
del musical con La danza delle luci (1933, appunto), di Mervyn
Le Roy, impreziosito dalle grandi scenografie di Busby Berkeley (un film primatista
di incassi e che, nel 2003, è stato selezionato per la conservazione negli
Stati Uniti dal National Film Registry della Biblioteca del
Congresso in quanto “culturalmente, storicamente ed esteticamente
significativo”).
2. Malgrado quanto appena detto, gli “esperti” e “tecnici” dei nostri tempi continuano a raccontarci della crisi finanziaria e degli sforzi congiunti dei vari paesi (ognuno in lotta per i suoi interessi, soltanto fingendo la cooperazione internazionale) per superarla. Ogni tanto attribuendo colpe a questo o a quello: prima è stata presa di mira la Cina per la sua ostinazione a non voler rivalutare la propria moneta, ultimamente è venuta di moda la Germania che predomina nella UE e imporrebbe scelte dannose agli altri paesi, in particolare all’Italia; e via dicendo in un crescendo di banalità e di falsi obiettivi (più o meno polemici). Ogni tanto, timidamente, si accenna alle manovre degli Stati Uniti e della sua Federal Reserve (la Banca Centrale Federale), che non sarebbero proprio ortodosse e tramite le quali si cerca di scaricare la crisi su altri paesi. Tutto si dice salvo che affrontare il nodo centrale della questione.
Torniamo alla grande crisi del 1929. Già si è ricordato
nella prima parte come il New Deal, varato nel 1933 e durato fino al ’37,
avesse prodotto una qualche ripresa dell’economia per alcuni anni, due-tre al
massimo. Probabilmente già nel ’36, ma sicuramente dal ’37 e fino alla seconda
guerra mondiale, la situazione tornò critica. Non ci furono crolli di Borsa
eclatanti ma la produzione e l’occupazione restarono però quelli di una fase di
sostanziale depressione. Qualche dato tanto per dare un’idea del problema.
Fatto 100 il reddito Usa del ’29, esso fu 89 nel ’37, 81 e poi 79 nel ’38, 85
nel ’39. La produzione industriale seguì più o meno lo stesso andamento (forse
con un piccolo miglioramento solo nel ’37). L’occupazione nell’industria,
prendendo come base addirittura il periodo (di crescita) ’23-’25, vede l’indice
a 111 nel ’37 (ultimo anno del New Deal), ma poi a 91 e 84 nel corso del
’38 e a 96 nel ’39. Al di là di queste poche indicazioni, la realtà fu comunque
di stagnazione, di difficoltà a far ripartire il sistema economico
statunitense. In ogni caso, la politica inaugurata con la presidenza Roosevelt
nel 1933 si chiuse quattro anni dopo, alla sua rielezione; non escluderei che
ciò sia stato dovuto anche alla constatazione del raggiunto limite delle sue
capacità di riavvio economico.
Dopo la guerra si ebbe invece, con differenti periodi di
innesco, una nuova intensa crescita che interessò quasi tutte le economie del
cosiddettocampo capitalistico. A parte gli Stati Uniti – che già durante il
conflitto mondiale produssero a pieno regime, non avendo avuto problemi di
distruzioni sopportate direttamente sul proprio territorio – negli altri paesi
avanzati, colpiti duramente, ci fu una certa difficoltà di ripresa. Tuttavia,
chi prima e chi poi, essi crebbero economicamente in modo notevole. Il Giappone
fu uno dei primi a mettersi in moto e con un ritmo di aumento del Pil piuttosto
simile a quello cinese degli ultimi decenni. La spiegazione, molto spesso
ideologica, addusse varie motivazioni. In primo luogo, l’aiuto dei “liberatori”
americani (ad es. il Piano Marshall tra il 1947 e il 1951, limitato comunque ai
paesi europei); inoltre, le esigenze della ricostruzione. Per alcuni, e con
riguardo del tutto prevalente agli Stati Uniti, fu importante la forte spesa
bellica, legata all’esigenza del confronto con l’Urss, alla “gara” spaziale, e
via dicendo.
Fu anzi formulata, da critici del sistema capitalistico, una
particolare versione del keynesismo, che si potrebbe definire “militare”. La
“guerra fredda” implicò la crescita dell’armamento nonché la sua continua
manutenzione, assai costosa, e l’innovazione. Si trattava di forti investimenti
(domanda dei “fattori” di produzione) per fabbricare una gran massa di beni,
che non affluivano certo al mercato; e anzi venivano logorati e distrutti negli
usi bellici con ulteriori spese di conservazione, riattamento e sostituzione.
La produzione di armi creava dunque fonti di reddito per coloro (capitalisti e
operai) che erano impegnati in tali settori, con conseguente crescita della
domanda senza che quei beni andassero ad ingorgare i mercati di vendita con la
loro offerta.
In un certo senso, la situazione potrebbe essere assimilata
a quella dell’affermazione fatta da Keynes (per paradosso, ma significativo del
reale significato della sua teoria): sarebbe al limite utile pagare salari ad
operai che scavassero buche e poi le ricoprissero, con distribuzione di reddito
e di potere d’acquisto senza produrre beni da offrire nel mercato. Il nuovo
potere d’acquisto si sarebbe dovuto dirigere verso strutture produttive già
esistenti ma inutilizzate, che sarebbero state rimesse in funzione, assumendo
operai disoccupati, con rilancio (moltiplicato) della domanda (di beni di
consumo e di produzione) prima depressa dalla crisi.
Accettando un simile punto di vista, il crollo del
“socialismo reale” e soprattutto dell’Urss avrebbe dovuto creare una nuova
difficoltà nello sbocco dei beni nel mercato con l’accentuarsi degli elementi
di crisi; se soltanto, però, l’industria bellica statunitense si fosse
riconvertita a produzioni “civili”, cosa mai accaduta poiché dal 1991 le
continue imprese belliche statunitensi non hanno concesso requie al bilancio
militare.
Resta il fatto che il lungo periodo del
mondo bipolare sembrò aver decretato la fine delle gravi crisi del
tipo di quella del 1929; si parlava ormai di più o meno forti recessioni,
sempre considerate effetto di determinati eventi particolari (ad es. le crisi
petrolifere del 1973 e 1979) e tutto sommato controllabili con manovre varie
della politica monetaria (ad es. i movimenti del saggio di sconto effettuati
dalle Banche Centrali) e l’uso della spesa pubblica quale volano dell’andamento
sinusoidale dell’economia. A partire dagli anni ’80, in cui si verificò la
rivincita del (neo)liberismo, si ricominciò con il tema del debito pubblico, se
ne incolparono le spese eccessive per il mantenimento dello Stato sociale; in Italia
si puntò molto sulle motivazioni politiche del gonfiarsi di una spesa pubblica
“clientelare”, particolarmente dissipatrice di ricchezza sottratta alla
disponibilità dei cittadini e dei settori privati; s’incolpò il “compromesso
storico” (l’accordo più o meno sottobanco tra Dc e Pci), ecc.
Argomentazioni, sia chiaro, non prive di un qualche punto di
tangenza con la “realtà” e tuttavia non soltanto enfatizzate, ma soprattutto
responsabili – in parte consapevolmente e in parte no – della mancata riflessione
su altri movimenti politici e sociali il cui verificarsi rappresenta il
principale motore delle crisi economiche, in quanto fenomeni “di superficie”,
gli eventi più visibili e immediati nel colpire emotivamente chi ne subisce le
conseguenze. Siamo così arrivati al 2008, anno in cui scoppia la crisi talvolta
paragonata al 1929 o al suo preannuncio; sono in molti, come al solito, ad
addebitarla alle disfunzioni di istituzioni, soprattutto finanziarie, per colpa
del lassismo e/o incompetenza di determinati soggetti che le amministrano.
Comunque, sopra a tutto viene posto il problema dell’eccessiva spesa pubblica
(in specie per le “esagerazioni” verificatesi nel campo pensionistico e
sanitario) e del conseguente debito statale e di enti pubblici vari. Tale
debito – si ulula da tutte le parti – va contenuto e si deve inoltre tendere al
pareggio di bilancio, all’equivalenza tra uscite ed entrate (fiscali). Da qui
tutta la serie di misure che stanno deprimendo ancor più l’economia in Europa;
particolare menzione merita l’Italia con il presente governo.
Molti si chiedono se i vertici dei paesi europei (e degli
organismi della UE), e soprattutto quelli italiani, siano o meno consapevoli
del disastro provocato con il puntare (almeno nelle dichiarazioni ufficiali)
alla riduzione del debito mediante misure che riducono in realtà la capacità
d’acquisto e il tenore di vita della maggior parte della popolazione, non
risolvendo affatto il problema in oggetto – come si constata in Italia dove il
debito pubblico è sempre in aumento – e aggravando invece la crisi
economica reale. Difficile rispondere a simile domanda inquinata da
problemi eminentemente politici, di cui sono in parte consci i dirigenti della
potenza ancora centrale nell’area cui appartiene il nostro continente, i
vertici statunitensi, con la loro neostrategia del caos non ancora ben
conosciuta, che forse procede un po’ a tentoni, ma non deve comunque lasciar
solidificare in Europa forze che si oppongano loro con decisione. In
particolare, il nostro paese deve divenire sempre più una sorta di “base” per
operazioni future di cui ancora non valutiamo con sufficiente approssimazione
la portata e gli obiettivi. Comunque, torniamo un passo indietro, alle cause
delle crisi.
3. Alla fine del secolo XIX, come ho ricordato più volte nei miei scritti, vi fu una lunga fase di stagnazione economica durata circa un quarto di secolo (1873-96), subito dopo la guerra (1870-71) in cui la Prussia sconfisse rovinosamente la Francia, mettendola di fatto fuori gioco nella competizione che si stava aprendo per la successione all’Inghilterra quale potenza egemone. La fase in questione coincide in parte con la seconda rivoluzione industriale, che vede la decisiva e sempre più accentuata inversione del rapporto tra agricoltura e industria proseguendo poi, all’inizio del secolo successivo, con il crescente diffondersi del motore a scoppio e dell’industria automobilistica (e subito dopo di quella aerea, ecc.), con la nuova organizzazione del lavoro denominata in seguito taylorismo-fordismo (a partire dal secondo decennio del ‘900), ecc.
La fine “ufficiale” di detta grande depressione, fissata al
1896, precede di un decennio la prima grande crisi novecentesca del 1907, che
anch’essa – come lo fu poi quella del ’29 – sfociò in un periodo di debole e
incerta crescita economica, risolto dalla prima guerra mondiale, dopo la quale
si ebbe un periodo, di nuovo decennale, di accentuata crescita economica; salvo
che nell’ex impero asburgico, dissoltosi, e nella Germania della Repubblica di
Weimar, la cui cronica crisi condurrà infine alla svolta politica degli anni
’30. Negli Stati Uniti, in particolare, si verificò negli anni ’20 una continua
e notevole espansione economica.
La stagnazione della fine secolo XIX non fu generale;
riguardò in particolare il centro del sistema economico e politico dell’800,
l’Inghilterra, la Francia sconfitta dalla Prussia e altri paesi soprattutto
europei. Negli Usa e in Giappone essa fu assai meno sentita, poiché si trattava
di paesi comunque in crescita di potenza (come lo sono ad esempio oggi Cina,
India e altri pur se la crisi del 2008 comincia a ridurre i loro tassi di
aumento del Pil). Si deve inoltre ricordare che alcuni, a mio avviso in
modo errato, considerano la depressione di fine ‘800 quasi un’invenzione degli
storici, poiché in effetti non vi fu una generale e netta caduta del reddito
prodotto, semmai una sua stasi con anni di modesto innalzamento; si manifestò
invece la deflazione dei prezzi, da alcuni considerata quasi un fenomeno
nettamente positivo e da ascrivere più allo sviluppo che alla crisi. In realtà,
si trattò della fase in cui si andarono preparando eventi estremamente
drammatici quali quelli che si produssero nella prima metà del secolo XX: le
grandi crisi economiche (soprattutto, come già detto, quella del ’29) e, in
particolare, le due guerre mondiali.
La fase in questione caratterizzò la prima parte dell’età
detta dell’imperialismo, dove con questo termine – al contrario di quanto poi
precisò Lenin nel suo celebre opuscolo del 1916 – s’intendeva semplicemente il
colonialismo. Lasciando adesso perdere il periodo precedente (anche la Spagna
fu una potenza coloniale), si può ben dire che, in tutta la prima
metà dell’800, la grande potenza coloniale fu l’Inghilterra; ed essa
era appunto, in particolare dopo il Congresso di Vienna (1814-1815), il paese
capitalistico più forte e sviluppato. Non fu certo un caso che l’analisi del
capitalismo compiuta da Marx si accentrasse su tale paese, considerato un
laboratorio della nuova formazione sociale poiché in esso, nel decennio
1830-40, poté considerarsi conclusa la prima rivoluzione industriale – con
sostanziale rovesciamento del rapporto tra industria e agricoltura – che era
invece in ritardo nel continente europeo e negli Stati Uniti, pur se andava qui
accentuandosi il contrasto tra nord industriale e sud agricolo (cotoniero).
A partire dalla seconda metà del XIX secolo, e specialmente
dal 1870, si accentuò lo scontro tra i vari paesi capitalistici avanzati per la
conquista delle colonie; e per la redistribuzione di quelle già acquisite (ci
si ricordi che anche la Francia aveva possessi coloniali di rilievo pur se si
era indebolita, come già messo in luce, con la sconfitta nella guerra del
1870-71). L’età dell’imperialismo si caratterizza allora come fase storica
dell’accentuata lotta per la conquista e spartizione di colonie. Questo seguito
di eventi deve far riflettere. L’Inghilterra non era più il paese dotato di una
potenza decisamente superiore agli altri paesi, così come lo era divenuta alla
fine del lungo confronto con la Francia sconfitta a Waterloo. Il succitato
Congresso di Vienna – il Congresso detto della Restaurazione (dell’Ancien
Régime), in cui solo apparentemente riprese aire il vecchio mondo (quasi
nobiliare), in realtà ormai incapace di tenere il passo con l’evoluzione di un
capitalismo in accentuato sviluppo – sanzionò pure la supremazia inglese.
Nel periodo intercorrente tra la sedicente restaurazione e
la grande depressione del 1873-96 si può ben dire che l’Inghilterra fu
la potenza centrale nel mondo. Il possesso di colonie riteneva
l’attenzione degli storici, sempre superficiali poiché inseguono i “fatti”
nella loro manifestazione più evidente e spesso più effimera. Parlano spesso
di longue durée, ma questa attiene in genere a incrostazioni culturali, di
costume, et similia, importanti certamente ma non quanto la
preponderanza politica, assistita e consolidata, specialmente nell’epoca
capitalistica, da quella economica; non però con riferimento preminente
all’accelerata crescita dell’apparato finanziario – ancora una volta un
fenomeno derivato, e un fattore strumentale preso dai soliti superficiali per
causa principale – bensì alla forza produttiva e innovatrice dell’industria,
che sostiene in quanto mezzo precipuo il compimento delle mosse
strategiche delle varie potenze in conflitto per la supremazia
mondiale.
L’età dell’imperialismo – di solito considerata del tutto
banalmente come epoca di affermazione del mono(oligo)polio delle grandi imprese
(società per azioni) con connesso ostacolo allo sviluppo delle forze produttive
(che si presume siano galvanizzate soltanto dalla concorrenza
interimprenditoriale) e conseguente necessità di impadronirsi di nuove aree
(paesi colonizzati) di “sfruttamento”, divenuto più difficile nei confronti della
propria forza lavoro nazionale, in specie nel periodo di rafforzamento del
movimento operaio – è in realtà la fase storica dell’indebolimento e declino
della potenza inglese, della progressiva perdita della
sua centralità mondiale, economica non meno che politica e militare.
Un declino che si è potuto valutare solo dopo la prima guerra mondiale e che
non deve essere considerato un processo inevitabile ed irreversibile fin
dall’inizio di quell’epoca; è andata così, e lo si potuto constatare con almeno
mezzo secolo di ritardo (e non completamente, perché la certezza definitiva del
tramonto inglese si è avuta con la seconda guerra mondiale). In ogni caso, la
lunga depressione del 1873-96 è stata il sintomo (e l’effetto) della messa in
discussione della primazia inglese, dell’ascesa di alcune
nuove potenze ormai concorrenti nell’aspirazione a prevalere.
La lunga depressione nasceva dallo scoordinamento indotto
nell’interrelazione tra i vari sistemi economici, in quanto nervatura e
struttura ossea di varie aree – che erano tuttavia paesi, nazioni, poiché
ognuna di queste aree, per lottare contro le altre, doveva essere dotata di un
determinato insieme di apparati addetti all’esercizio della forza, quelli dello
Stato, con potestà territoriale confortata pure da unità di lingua, di cultura,
di tradizioni, ecc. – ormai entrate in competizione per il predominio mondiale.
In un mondo, in cui i principali paesi erano divenuti capitalistici (erano
quindi ormai passati dalla semplice manifattura all’industria), il coordinamento
era garantito dalla complementarietà tra le loro differenti sfere economiche:
soprattutto quelle produttive, l’aspetto finanziario essendo sostanzialmente
derivato, malgrado apparisse il più mobile e soggetto a scosse data la
liquidità del mezzo manovrato dal sistema bancario.
Lo scontro tra detti paesi per la supremazia – una volta che
alcuni d’essi conquistarono la forza per contestare quella inglese – doveva
certo impiegare, in ultima analisi, gli strumenti di sempre, cioè le armi
e gli eserciti (oltre alla diplomazia, alle pressioni, alla corruzione o
convincimento per interesse di dati gruppi dominanti in altri paesi, ecc.);
tuttavia, la sfera economica era divenuta un decisivo strumento corroborante
l’impiego dei mezzi d’ultima istanza. E lo sviluppo di tali strumenti
corroboranti si verificava ormai con modalità strutturali simili in un certo
numero di paesi capitalistici fra loro in conflitto, per cui andava persa
l’integrazione, la complementarietà, tra i diversi settori produttivi degli stessi.
Da qui lo scoordinamento, presentatosi all’inizio come stagnazione con più
bassi tassi di crescita, per poi via via aggravarsi nel prosieguo della lotta e
passare di livello, fino appunto all’aperto manifestarsi delle grandi crisi del
‘900: crisi economiche del 1907 e 1929 (con il loro prolungamento di stentata
ripresa) e crisi militari con le due grandi guerre mondiali; l’ultima delle
quali si concluse con l’avvento di un nuovo centro coordinatore,
perché detentore della supremazia, in uno dei due poli in cui fu
suddiviso il mondo per poco meno di mezzo secolo. Andiamo però con ordine.
4. Il 1873-96 non fu dunque un periodo di cui ricordare soltanto la relativa stagnazione economica (non generale, soprattutto europea). L’economicismo sempre imperante in tutte le ideologie da oltre un secolo e mezzo a questa parte – che si tratti di quelle dei dominanti o di quelle dei critici del capitalismo – ha impedito di pensare più correttamente quella crisi. In realtà, si trattò dell’iniziale periodo di rafforzamento di alcunepotenze che misero in discussione il predominio centrale (il monocentrismo) inglese. Fu appunto la fine di tale predominio la causa decisiva dello scoordinamento tra i sistemi economici di tali paesi, di una loro competizione comportante l’anarchia mercantile malgrado il fenomeno della centralizzazione dei capitali e la formazione del regime di mercato detto oligopolio.
Lenin colse nel segno quando del monopolio disse che non era
la fine della concorrenza, ma anzi del suo riproporsi ad un livello più alto.
Errò – per omaggio all’ortodossia marxista – assegnando ad esso la qualifica di
caratteristica principale dell’imperialismo, da cui derivò la tesi dell’ultimo
stadio del capitalismo – che non era affatto ultimo in ordine di tempo; chi
sostenne questo, i marxisti sciocchi, impedirono che quell’errore potesse
essere fecondo di un suo superamento nella giusta direzione – con blocco dello
sviluppo delle forze produttive, ecc. Egli però fece della concorrenza tra
imprese monopolistiche per il controllo dei mercati mondiali la quarta
caratteristica; e soprattutto puntò l’attenzione sulla quinta, quella decisiva,
relativa alla lotta tra potenze per le sfere d’influenza e, di
conseguenza, per la primazia globale. Questa era invece in realtà la principale
caratteristica – come sostenuto in un mio studio sull’imperialismo di una
decina e più anni fa, che spero di riapprofondire in futuro – in grado di
chiarire veramente l’affermazione secondo cui il monopolio è concorrenza
portata ad un più alto livello con accentuata anarchia nei mercati (e dunque
con crisi anche economiche sempre più gravi); e tuttavia come conseguenza,
non causa, delle strategie di conflitto messe in opera
dalle potenze in lotta. Tutto da ripensare, e con forte ritardo, per
colpa di marxisti teoricamente arretrati, simili a tolemaici, che mai hanno
capito qualcosa del modello marxiano e delle folgoranti intuizioni leniniane;
modello e intuizioni rivelatesi fondamentalmente errati, ma fecondi di
potenziali sviluppi non perseguiti minimamente dal marxismo degli ultimi 70-80
anni.
Solo l’economicismo, che vede esclusivamente il regno dello
scambio di merci con un grappolo di grandi imprese in esso attivo, può
caratterizzare l’oligopolio quale mera fonte di accordo e di conseguente ordine
e coordinamento dei settori e unità (imprese) produttivi, con stasi delle forze
produttive. Non a caso, invece, il quarto di secolo della grande stagnazione fu
periodo di intenso sviluppo nel senso del mutamento della struttura produttiva,
mutamento talmente profondo e punteggiato da un susseguirsi di grandi
innovazioni, di prodotto oltre che di metodi produttivi, da meritare la
denominazione di seconda rivoluzione industriale.
Pur restando entro l’ottica dell’economicismo, qualcosa in
più si comincia a capire se ci si rifà alla polemica tra i seguaci della teoria
ricardiana del commercio internazionale e coloro che, consapevolmente o per
pratica politica, seguirono di fatto le indicazioni protezioniste di List. Do
per scontato che si sappia di che cosa si sta parlando (ne ho scritto per sommi
capi, ma sufficienti ad afferrare il problema, in Finanza e poteri,
Manifestolibri 2008). Importante è soprattutto tenere conto del
divenire potenza di alcuni paesi durante l’epoca di depressione a
fine ‘800, che trae proprio origine da tale processo
d’iniziale multipolarismo con scoordinamento del sistema globale
centrato in gran parte sull’Inghilterra. Paradigmatico soprattutto quanto
accadde negli Stati Uniti, che del resto divennero la potenza predominante
nel corso del XX secolo, ma la cui forza andò rapidamente crescendo appunto
negli ultimi tre decenni del secolo precedente.
Non farò certo la storia di tale paese e nemmeno discuterò
l’ideologia della lotta allo schiavismo, che fu oggetto del contendere tra gli
Stati del sud a quasi monocultura nelle piantagioni di cotone e quelli del nord
dove si concentrava il processo di industrializzazione. Generalmente,
l’ideologia non è consapevole mascheramento dei reali interessi dei gruppi
dominanti, i quali (o almeno una loro buona parte) sostengono spesso con
convinzione i principi ideali professati. In altri scritti ho cercato di
chiarire il rapporto tra processi legati a date condizioni
oggettive e portatorisoggettivi degli stessi, tra gli effettivi
interessi in gioco dei gruppi dominanti e il loro travestimento ideologico che,
oltre ad essere creduto da una quota dei dominanti, consente loro di formare
interi blocchi sociali al seguito. Non tornerò su questi problemi nel presente
contesto.
Il contrasto tra i cotonieri del sud e gli industriali del
nord ha accompagnato quasi tutta la storia degli Usa dalla loro fondazione dopo
la guerra contro l’Inghilterra a fine secolo XVIII. Quando nel 1825 – dopo
breve carcerazione nel suo paese, il Württemberg, e successivo invio in esilio
– List arrivò nel “nuovo mondo”, egli partecipò pure ad una impresa industriale
in campo ferroviario, ma soprattutto cominciò a sviluppare le sue idee in
contrasto con la teoria ricardiana del libero mercato in campo internazionale
(non meno che in quello nazionale), che negli Usa (del sud) aveva come suo
alfiere Thomas Cooper, mediocre economista. Le idee di List – contrario ai
principi liberisti solo in riferimento alla fase iniziale di
industrializzazione di un paese (periodo della “industria nascente”) – si
consolidarono poi al ritorno in Germania (1832, poco prima del varo
delloZollverein) e portarono al suo testo fondamentale del 1841 Il sistema
nazionale dell’economia politica.
Qui ci interessa comunque il dissidio che, in merito ai
problemi dello sviluppo industriale, nacque tra Stati del nord degli Usa e
quelli del sud. I cotonieri di questi ultimi, al di là del loro credere o meno
nei principi del libero commercio, avevano un precipuo interesse a quest’ultimo
perché esportavano cotone nel paese centrale del capitalismo industriale,
l’Inghilterra, che ovviamente non vedeva di buon occhio l’eventuale sviluppo
dell’industria statunitense, possibile e temibile concorrente. Gli Stati del
nord degli Usa erano, altrettanto evidentemente, favorevoli ai dazi doganali
per incentivare appunto la crescita della loro industria, in arretrato rispetto
a quella inglese; il che comporta sempre maggiori costi poiché non si gode di
sufficienti economie interne (soprattutto legate alla scala di produzione)
ed esterne (dovute all’agglomerazione di più settori industriali in
date aree), ecc. Tuttavia, l’Inghilterra minacciava per ritorsione di
accrescere l’importazione di cotone dall’Egitto e dall’India a danno di quella
dagli Stati meridionali americani. Al di là, dunque, della polemica sullo
schiavismo in questi Stati, le condizioni oggettive di un acuto conflitto tra
nord e sud degli Stati Uniti si aggravarono fino allo scoppio della ben nota
guerra di secessione (o civile) del 1861-65, violentissima ed estremamente
sanguinosa.
La vittoria del nord (Unione) è stata il vero atto di
nascita della grande potenza statunitense che insidiò quella inglese e poi la
sostituì, ma nel giro di molti decenni. Non ripeto il ragionamento per la
Prussia (divenuta nel 1871 Germania assieme ad altri Stati). Anche qui, gli
Junker, aristocrazia terriera prussiana particolarmente conservatrice, era
interessata allo scambio di prodotti agricoli con l’industriale Inghilterra.
Malgrado Bismarck fosse un membro di tale classe, alla fine vinse l’industria
interessata alla competizione con quella inglese. In quest’ultima si mantenne a
lungo la preponderanza dei settori tessili, mentre in Germania andarono
sviluppandosi la chimica, l’acciaio, ecc., le branche tipiche della seconda
rivoluzione industriale. Lo stesso dicasi degli zaibatsu giapponesi,
grandi concentrazioni industriali (e finanziarie) inizialmente, e a lungo,
famigliari. La nascita delle potenze è allora l’effetto di mutamenti
intervenuti nella struttura produttiva? E magari si può pensare che, come primo
atto, sia necessario accumulare grandi mezzi finanziari e creare un complesso e
articolato sistema di istituti – le banche, le grandi società per azioni,
predisponendo inoltre un sempre migliore funzionamento delle Borse valori – in
grado di fornirli copiosamente al sistema produttivo, in specie industriale?
Vediamo.
5. La sequenza dei fenomeni non rispetta sempre i principi del rapporto causa/effetto, che dovrebbe vedere la prima anticipare il secondo. Esprimiamo meglio tale concetto. In realtà, la causa precede l’effetto; solo che non sempre i due fenomeni si verificano allo stesso livello della “realtà”. Mi rifaccio all’esempio dei terremoti. Il “volgo” avverte la terribile scossa terrorizzante e poi, nel mentre cerca di riorganizzarsi e riprendere il controllo della situazione, assiste al cosiddetto sciame delle minori scosse dette “di assestamento”. La sensazione empirica, la più immediata, è che la scossa più forte sia la causa fondamentale del dissestarsi del terreno, mentre poi i vari strati di quest’ultimo, nelle scosse più deboli, si vadano dislocando via via in posizione reciproca tale da ripristinare un certo equilibrio di maggiore stabilità.
La causa del sisma consiste invece nell’accumularsi durante
lunghissimi periodi di tempo di una energia crescente per la frizione e urto
tra strati di terreno situati a grande profondità, dove è difficile vedere e
controllare adeguatamente la situazione (comunque non lo si può “a occhio
nudo”). Ad un certo punto, la causa provoca il suo sconvolgente effetto,
scaricandosi verso la superficie dove tutto è ben colto dai sensi umani
(trascuro il fenomeno secondario dell’eventuale prodursi di alcune minori
scariche di “avvertimento” precedenti il sisma). Le scosse di “assestamento”
sono in realtà residui dell’energia accumulata per decenni (e più ancora) e
liberatasi per la maggior parte nel primo prodursi del suo rilascio. Il
terreno, nelle sue profondità recondite, si è già per l’essenziale assestato
quando si produce la prima scarica energetica principale, effettodi
quella causa rappresentata dalla lunga frizione tra i suoi strati.
Come si vede, però, il linguaggio comune, e talvolta perfino quello dei
sismologhi, induce a pensare che sia soprattutto il violento fenomeno di
superficie a produrre in seguito progressivi assestamenti del terreno.
La stessa cosa deve dirsi per ciò che concerne le crisi
economiche. Non lo si è afferrato, io credo, perché indubbiamente il passaggio
alla formazione sociale capitalistica, e tanto più dopo la rivoluzione
industriale, ha catturato l’attenzione dei pensatori di questioni politiche e
sociali, dando fra l’altro inizio alla prima vera scienza di tale ramo che è
stata, non a caso, l’economia politica. Per millenni e millenni, la lotta tra
dati gruppi (classi) sociali al fine di conquistare e mantenere la preminenza
in date fasi storiche è stata condotta nella sfera politica (con la sua
decisiva appendice bellica) e in quella ideologica (di solito religiosa). La
sfera economica, in minima parte interessata dalla produzione di beni per lo
scambio mercantile, era appannaggio di gruppi (classi) subordinati, soggetti a
servitù, in ogni caso estranei alla lotta tra dominanti per la supremazia e
solo spinti, ma in rari momenti, a violente ribellioni quasi sempre soffocate
nel sangue.
Con il passaggio al capitalismo si è verificata la
progressiva liberazione dei dominati da ogni vincolo servile e l’estendersi
impetuoso del mercato per ogni produzione, proprio a partire dalla necessità
dei “liberati” di vendere come merce la propria forza lavorativa; ed è indubbio
merito di Marx l’aver individuato in tale processo, costitutivo del lavoro
salariato, la reale causa del generalizzarsi della forma di merce dei vari
prodotti. Egli è in pratica l’unico ad averlo pensato perché gli altri (dal
grande storico Braudel a Polanyi, ecc.) hanno sempre messo la merce in prima
posizione. Non posso qui adesso diffondermi sulla rilevanza veramente
rivoluzionaria dell’impostazione marxiana, che ha pensato l’affrancamento del
produttore da ogni servitù e il suo trasformarsi in lavoro salariato
quale fulcro della transizione dal feudalesimo al capitalismo, senza
farsi distrarre dalla lunga permanenza di forti sopravvivenze feudali in quanto
limiti e intralci alla libera contrattazione di quella merce speciale che è la
capacità lavorativa umana (del resto mi sono prodigato in tale analisi in altre
sedi).
In ogni caso, con l’avvento del capitalismo, la sfera
economica, duplicatasi necessariamente in produttiva e finanziaria
(“produzione” e commercio di denaro nelle sue svariate forme), diventa pur essa
luogo di scontro per la supremazia nella società. Mentre la scienza del
“capitale” (dei dominanti) vede nel mercato il luogo precipuo della
competizione, considerata virtuosa perché condotta secondo i metodi del
miglioramento e innovazione delle tecniche produttive e dei prodotti, Marx
individua la reale diseguaglianza esistente tra i soggetti implicati
in questo specifico ambito (questione da me chiarita molte volte e anche
nell’ultimo saggio uscito adesso come e-book). Tuttavia, egli pensa come
fondamentali i rapporti sociali esistenti nell’ambito della produzione e punta
l’attenzione sulla proprietà dei mezzi produttivi da parte di particolari
soggetti riuniti nel concetto di classe borghese, considerati in netto
antagonismo rispetto ai non proprietari e controllori della sola forza
lavorativa venduta appunto in qualità di merce.
In realtà, per quanto sia stata indubbiamente un mutamento
rilevante l’estensione del conflitto per la supremazia dalle sfere politica e
ideologico-culturale a quella economica (produttiva e finanziaria), è rimasto
un elemento di “invarianza” che attribuisce determinati connotati comuni alle
diverse formazioni sociali conosciute. Marx lo capì quando scrisse (Manifesto del
’48) che tutta la storia fino a quel momento era stata caratterizzata dalla
lotta tra “classi”. Sbagliò però – ovviamente secondo la mia personale opinione
– nel pensare che tale lotta si fosse principalmente svolta tra dominanti e
dominati; e nel sostenere che la società del capitale (del rapporto
capitalistico nella produzione) sarebbe stata l’ultima interessata da un simile
conflitto giacché la sua specifica dinamica – centralizzazione dei capitali,
separazione tra proprietà dei mezzi di produzione e direzione delle unità
produttive, con formazione dei rentier, da una parte, e del lavoratore
collettivo, dall’altra – avrebbe comportato la fine di un conflitto
antagonistico precisamente nella sfera economica, con progressivo esaurimento
dello stesso nelle altre sfere, considerate “sovrastrutture” rispetto alla
“base determinante in ultima istanza”. Sarebbero certamente rimasti contrasti
più o meno acuti di tipo interindividuale, ineliminabili pure per Marx, giacché
non vi era in lui alcuna idealizzazione dei soggetti umani. Tuttavia, tali
contrasti non vanno assimilati ai problemi del predominio e dell’appropriazione
di pluslavoro (“sfruttamento”) in varie forme (fra cui quella di valore, tipica
della società capitalistica).
6. La liberazione
dai vincoli di servitù personale (non avvenuta dappertutto in concomitanza con
lo sviluppo della formazione sociale capitalistica), il generalizzarsi della
forma di merce dei prodotti a partire dalla riduzione a merce della forza
lavorativa, il conseguente estendersi della lotta per la predominanza
all’ambito economico – prima solo fondamentale per la sopravvivenza della
società, mentre le questioni del potere e della competizione per conquistarlo
si risolvevano nelle altre due partizioni della società – hanno comportato
mutamenti profondi in detta lotta. I mezzi economici, quale strumento di
quest’ultima, hanno acquistato rilevanza. Le forma di merce generalizzata ha
ovviamente comportato l’uso pur esso generalizzato del denaro nelle sue varie
forme monetarie e a queste assimilabili in quanto ricchezza liquida, facilmente
mobilizzabile. Gli stessi mezzi bellici, nel processo della loro acquisizione
(dopo la necessaria produzione, che richiede anche ricerca scientifica,
innovazione, ecc.), implicano l’uso di mezzi monetari e finanziari.
Soprattutto, però, l’economia, una volta generalizzatosi il
mercato, ha visto entrare in scena, dopo i semplici mercanti, i produttori di
merci. Una volta dimenticata la disuguaglianza reale dei soggetti
implicati nei settori della sfera economica (chi possiede i mezzi produttivi e
chi fornisce a quest’ultimo la propria forza di lavoro per vivere), la
produzione è apparsa appannaggio dei possessori dei mezzi che mettevano in
piedi date unità poi denominate imprese. I loro conduttori, all’inizio anche
proprietari e in seguito prima di tutto manager – organizzatori e dirigenti
delle imprese, ivi comprese quelle che commerciano e forniscono il denaro, il
mezzo di scambio delle merci e di accumulazione di ricchezza – sono stati
considerati i soggetti centrali di una società divenuta estremamente dinamica
quanto a sviluppo delle forze produttive, perché interessata dall’accelerato
progresso tecnico in stretto intreccio con l’avanzamento della scienza.
I liberal-liberisti, che non vanno oltre la superficie
mercantile con tutti i soggetti che in essa si
presentano formalmente (e giuridicamente) quali possessori di merci
in libera contrattazione, si sono fermati a tale centralità dell’imprenditore
nella nuova formazione sociale. Essi criticano l’economicismo marxista, ma sono
i più rozzi e schematici economicisti che ci siano; il mercato è per loro
il deus ex machina di ogni situazione. E anche quando uno di loro, in
seguito allo choc della grande crisi del 1929, ha apportato una serie di
critiche al liberismo tradizionale (si tratta ovviamente di Keynes), non è
andato oltre l’indicazione di una spesa pubblica che sapesse rinvigorire la
domanda privata in caduta, senza però mutare l’organizzazione produttiva e
mercantile capitalistica, né la concezione degli imprenditori in quanto reali
artefici della produzione e di quest’ultima quale effettiva causa della
dinamica dei paesi capitalistici.
Marx, quanto meno, andò oltre la superficie e vide chi era
effettivamente il propulsore della produzione nell’ambito di una separazione
tra proprietà dei mezzi produttivi (e dunque del denaro per acquistarli) e mero
lavoro salariato. Egli, non sempre però in modo chiaro e con piena coerenza,
indicò quest’ultimo come l’insieme dell’attività lavorativa, intellettuale e
manuale, direttiva ed esecutiva. Ed infatti, nelle Glosse a Wagner, egli
riconobbe che, nella prima fase del capitalismo, il proprietario era anche il
dirigente della produzione, contribuendo perciò a creare quel plusvalore di cui
poi si appropriava. Poi, nel prosieguo dello sviluppo, la direzione sarebbe
confluita nel lavoro salariato mentre la proprietà sarebbe stata appannaggio di
una classe simil-signorile, assenteista e parassitaria. Il lavoratore
collettivo (mente e cervello in cooperazione pur nella divisione del lavoro)
l’avrebbe facilmente sotterrata mediante rivoluzione.
I marxisti successivi si accorsero che lo sviluppo
capitalistico non andava in quella direzione, che i dirigenti salariati
restavano “specialisti borghesi” (Lenin), quindi legati alla proprietà, al
capitale. Essi ridussero allora la classe rivoluzionaria a quella operaia in
senso stretto e limitativo, le cosiddette tute blu. Malgrado tutte le
chiacchiere sulla possibile cooperazione degli operai, quali proprietari in
collettivo di alcune imprese (poi dirette sempre da nuclei che si staccavano
dalla massa lavoratrice) – ciance riprese in forze da quello stolto movimento
“borghese” che si sbracò nel ’68 e anni seguenti – la classe operaia (nel senso
dei lavoratori esecutivi, spesso manuali) non ha mai avuto capacità egemoniche
e alla fine è divenuta, in tutti i paesi in cui si è svolta la rivoluzione
industriale, “tradunionista” (che significa di fatto corporativa) e del tutto
integrata ai meccanismi di riproduzione dei rapporti della formazione sociale
del capitale (non più borghese). Chi ha guidato effettive trasformazioni
sociali radicali (da Lenin a Mao, ecc.) ha trasferito la qualifica di “soggetto
rivoluzionario” da detta classe all’alleanza tra operai e contadini. Tuttavia,
quest’ultima si è rivelata sempre meno operaia e sempre più contadina man mano
che le rivoluzioni dette “proletarie e socialiste” si andavano trasferendo nei
paesi del terzo mondo, largamente precapitalistici.
Malgrado l’affermazione di Marx, secondo cui il capitale non
è cosa ma rapporto sociale – già un passo avanti rispetto a tutte le concezioni
dominanti, che parlano di capitale con riferimento al denaro e al cosiddetto
“fattore” rappresentato dai mezzi di produzione – il marxismo non si è staccato
dall’economicismo: i suoi rapporti sociali sono quelli vigenti nell’ambito
della produzione e dello scambio contrattuale tra i possessori di merci. Certo,
grande cosa aver capito la differente natura sociale delle merci rappresentate
dalla proprietà dei mezzi produttivi e dalla “proprietà” di mera forza lavoro.
Non era però sufficiente; si è rimasti incantati, anche in questa corrente di
pensiero rivoluzionaria, dal passaggio del conflitto – tra gruppi sociali per
la preminenza – dalle sfere politica (con appendice bellica) e
ideologico-culturale a quella economica; passaggio appunto caratteristico
della transizione al capitalismo.
Questo l’errore decisivo che ha bloccato tale teoria della
rivoluzione, indirizzando la sua concreta pratica sempre più lontano da ogni
dichiarata nuova transizione alla società senza più classi in contesa
per dominare. L’errore in questione ha comportato il sostanziale
misconoscimento del conflitto caratterizzante il 90% (e più) degli eventi
storici: non l’antagonismo tra dominanti e dominati, ma tra gruppi in lotta per
la supremazia, ivi compresi quelli dirigenti di masse subordinate in movimento
(in specifiche contingenze storiche), che hanno sempre funzionato
– oggettivamente, malgrado una diversa ideologia, spesso soggettivamente creduta
dai dirigenti in questione e di cui essi si sono fatti portatori –
da blocchi sociali orientati allo scopo di conseguire mutamenti
radicali dei rapporti sociali.
7. Qui arriviamo
al clou della questione; e del fraintendimento in cui incorrono le varie
correnti teoriche in discussione sulla società capitalistica: che si tratti
degli sciocchi e superficiali creduloni in fatuo dibattito sulle crisi
finanziarie (e oggi sullo spread, il massimo dell’imbecillità di sedicenti
esperti, ben pagati da gruppi dominanti ormai putrefatti per raccontare
frottole) o invece di più seri analisti della crisi nel suo
aspetto reale o di coloro che sappiano compiere un ulteriore salto di
qualità ponendo in luce la radicale diversità di condizioni di partenza tra chi
controlla masse monetarie e mezzi di produzione, ecc. e chi ha da vendere la
sola forza lavoro che poi, in situazione di crisi, nemmeno trova più nel
mercato una domanda adeguata. Si deve accedere ad un altro livello teorico,
apparentemente troppo astratto o poco importante – per i suoi effetti di lunga
lena – rispetto ai “terremoti” di più breve momento che sconvolgono la vita
delle popolazioni in date congiunture storiche. Eppure da lì si deve partire,
altrimenti continuiamo nelle ciance sempre più inconsistenti e vane.
Penso sarebbe fuorviante rifarsi alla “natura” umana, a
caratteri insiti in essa, ecc. E’ sufficiente riferirsi alla storia delle
diverse società, che sempre – anche nel tanto declamato “comunismo primitivo”,
animato dal presunto spirito comunitario che unirebbe certe orde cooperanti ai
fini della sopravvivenza in condizioni di bassissimo livello produttivo – hanno
conosciuto il conflitto tra individui, e più generalmente tra gruppi di
individui, per assumere la posizione di vertice e comando nelle varie fasi
della loro storia. La lotta tra individui e gruppi si svolge in base a sequenze
di mosse, studiate anche per rispondere a quelle degli avversari, che sono più
o meno complesse strategie atte a conquistare la vittoria; questa spetta poi, per
periodi di tempo più o meno lunghi e con una preminenza più o meno netta, ad un
gruppo nei confronti degli altri, i perdenti. Tali mosse di un combattimento
per affermarsi precipitano sempre in apparati di vario tipo, che rappresentano
la parte più “densa” (“materiale”) e strumentale delle strategie
stesse.
Sono le strategie ad essere la causa – il movimento degli
“strati di terreno” più profondi in reciproco urto e frizione – dell’impiego,
più o meno sconvolgente, degli apparati nelle sfere della politica e
dell’ideologia, le due sfere sociali in cui per millenni si è svolto l’urto tra
i vari gruppi in contesa. Gli apparati sono meno flessibili e mutevoli delle
strategie, permangono di solito a lungo nella loro “condensazione” e
“materialità”; anzi, spesso sembrano gli stessi anche quando ormai altri gruppi
sono al comando ed essi, di conseguenza, acquistano connotati e svolgono
funzioni differenti nel corso dell’evoluzione storica. Le strategie del
conflitto sono quelle che denomino, in mancanza di un termine migliore,
lapolitica nel suo senso più proprio; mentre gli apparati detti politici
(ed oggi, primieramente, quelli denominati Stato nel loro insieme) sono
suoistrumenti di esercizio, esattamente come solo strumenti sono
quelli in cui si va condensando la lotta ideologica (anche nel senso di scontro
di “idee sul mondo”), aspetto certo rilevante ma non quello “decisivo in ultima
istanza” nel conflitto per prevalere.
Nel passaggio alla formazione capitalistica con
generalizzazione degli scambi mercantili – implicante la produzione nelle unità
denominate imprese e la duplicazione della sfera economica in produttiva e
finanziaria (quest’ultima fornendo il denaro necessario agli scambi, senza i
quali non si mette in moto la produzione di forma capitalistica) – ciò che si
“allarga” dagli ambiti politici e ideologici a quello appunto economico è
innanzitutto la politica, l’insieme delle mosse strategiche del conflitto
tra gruppi per la predominanza. E’ precisamente tale “movimento” decisivo –
vera causa della transizione dal precapitalismo al capitalismo – ad essere
stato messo in secondo piano rispetto allo “scintillio” (solo apparente) della
novità insorta: gli imprenditori (i capitalisti in quanto proprietari dei mezzi
produttivi e del denaro) diventano figure del combattimento in corso; mentre,
in precedenza, i produttori in condizione servile erano puramente e
semplicemente dei soggetti dominati (posti appunto “in soggezione”) da chi
deteneva il potere nelle altre due partizioni della formazione sociale.
I capitalisti partecipano però alla lotta per la prevalenza
in quanto siano capaci di svolgere la politica, le strategie della lotta;
i loro strumenti, ma solo strumenti, di battaglia sono le imprese, sono i
mezzi produttivi e il denaro da essi controllati. Questi strumenti sono
divenuti, sia nelle teorie apologetiche che in quelle critiche del capitalismo,
l’aspetto centrale, la vera causa della dinamica di tale società. Questo è
stato l’errore fondamentale di apologeti e critici insieme. E’ la politica il
fulcro di detta dinamica, non meno che nelle società precapitalistiche; solo
che nella nuova formazione sociale essa si è estesa alla sfera dell’economia, a
sua volta scissasi nelle due sottosfere già più volte indicate.
Nelle società precapitalistiche, la produzione era svolta
nel prevalente settore agricolo coadiuvato da una produzione manifatturiera di
tipo artigianale; e con scambi mercantili limitati ad eventuali sovraprodotti
di società organizzate per l’autosussistenza. Le crisi potevano provenire solo
dall’agricoltura, trattandosi quindi soprattutto di carestie con malnutrizione,
epidemie gravi, ecc. Nella società capitalistica, ormai a preminente
industrializzazione e con scambio mercantile generalizzato, non vi è più
problema di sottoproduzione. Le crisi avvengono per scoordinamento nel
tumultuoso processo di sviluppo delle forze produttive con periodiche fasi di
grandi innovazioni, dovute fra l’altro al forte intreccio tra scienza e settori
produttivi.
Dal punto di vista limitatamente economicistico, l’aspetto
più proprio della crisi capitalistica è l’anarchia mercantile; solo una cattiva
considerazione, nemmeno specificamente dovuta a Marx, della centralizzazione
dei capitali – con idee sostanzialmente errate in merito sia alla formazione
del monopolio, in quanto intralcio e poi blocco dello sviluppo delle forze
produttive, sia all’impoverimento crescente della gran massa dei salariati – ha
potuto far formulare altre tesi come la tendenziale sovrapproduzione o
sottoconsumo o la caduta del saggio di profitto, di rara sterilità conoscitiva.
L’anarchia mercantile – e ancora una volta va segnalata la capacità intuitiva
di Lenin che, pur invischiato in una errata ortodossia, nemmeno marxiana ma
solo marxista (kautskiana), vide l’inizio della crisi appunto nell’inceppamento
del sistema degli scambi, dovuto al movimento anarchico della produzione
capitalistica – coglie almeno un segnale dello scoordinamento causato dal
conflitto politico, dallo scontro tra strategie tese alla supremazia. Ed è
ovvio che il settore, dove circola la ricchezza in forma liquida – necessaria
all’esecuzione degli scambi da cui inizia l’atto produttivo per ogni unità
(impresa) coinvolta in questa organizzazione storicamente specifica della sfera
economica della società – diventa il primo, in superficie, ad essere
interessato dai movimenti tellurici.
Ecco perché ogni crisi capitalistica presenta sempre, nel
suo primo manifestarsi, l’aspetto finanziario che investe le borse valori, il
sistema bancario, ecc.; a volta con il crollo violento e improvviso. Poi però,
in un più lungo lasso di tempo, si vanno manifestando le disfunzioni nei vari
mercati, ivi compreso quello della forza lavoro (le cui conseguenze sociali
diventano particolarmente gravi e avvertite dalla massa della popolazione). E
lo sconvolgimento dei mercati presenta gli aspetti della caduta della domanda
complessiva: degli investimenti (con crisi industriale) e dei consumi per
perdita di salari e di altri emolumenti vari percepiti dai diversi strati
sociali (ivi compresa la falcidia di eventuali risparmi detenuti in titoli,
ecc.). Infine, si presenta quella che, per i liberisti (i più ingenui e rozzi
economicisti), è una “eccezione” legata al comportamento “irrazionale” degli
umani: il regolamento di conti bellico.
Si osservi, sinteticamente, la seguente sequenza tra eventi.
Nella seconda metà dell’800 sospensione delle “meraviglie” del libero commercio
internazionale con protezionismo negli Usa (soprattutto dopo la guerra di
secessione), in Germania e in Giappone. Queste tre potenze iniziano a
crescere e a contestare la supremazia inglese. Lo scoordinamento così
prodottosi, venendo a mancare il monocentrismo dell’Inghilterra,
provoca la grande stagnazione di fine ottocento (circa un quarto di secolo di crescita
poco significativa e sviluppo della seconda rivoluzione industriale, con paesi
in contrasto fra loro). Nel 1907 si presenta la più grave crisi fino a quel
momento, con inizio dalla borsa valori e da New York. Poi si galleggia di fatto
fino alla prima guerra mondiale. Alla fine di questa, soprattutto negli Usa, si
apre un periodo di espansione economica che accentua la preminenza di tale
paese rispetto agli altri. Nel 1929 si verifica il crac finanziario più grave
della storia capitalistica, con il seguito (1931-33) della forte
crisi reale. Si lancia il New Deal, che fornisce un sollievo
momentaneo; indi nuovo galleggiamento fino alla seconda guerra mondiale, dalla
quale emerge, nel mondo capitalistico tradizionale (in realtà già da tempo esso
non è più quello borghese delle origini), un nuovomonocentrismo,
statunitense, che funge da regolatore dell’intero “campo”. Si presentano ormai
soltanto “recessioni” e si teorizza quindi il superamento definitivo delle
grandi crisi economiche.
Da quattro anni è invece iniziata una nuova fase di
stagnazione e galleggiamento, che a mio avviso durerà a lungo spedendo in
soffitta le chiacchiere sul suo superamento a breve, sulla possibile
cooperazione internazionale; mentre invece andrà accentuandosi il
contrasto multipolare. Alla fine, entreremo in un
“bel” policentrismo apertamente conflittuale. Non dico nulla
sull’eventualità di qualche improvviso botto finanziario con “grande crisi”
tipo ‘29. Mi spendo invece per un vigoroso regolamento di conti – in tempi e
con modalità non prevedibili; salvo predire una netta diversità rispetto alle
guerre mondiali del XX secolo – che forse riporterà verso situazioni di
migliore coordinamento; ma attraversando un periodo di gravi eventi traumatici
di difficile sopportazione a causa della loro sempre più sconvolgente
drammaticità. Traiamo ora qualche conclusione. 0
III. Conclusione: la crisi dipende dalla Politica
III. Conclusione: la crisi dipende dalla Politica
1. Nella seconda parte si è chiarita la sequenza logica che va dal “profondo” alla “superficie”, dal “dietro le quinte” al “palcoscenico”, ecc. Bisogna sempre partire dall’indagine intorno alla relazione intercorrente tra le varie parti costituenti la società mondiale; parti che sono da me state denominate formazioni particolari: fondamentalmente i paesi, ancor oggi, spesso, le nazioni. Tali parti sono in perpetua frizione fra di loro; e tuttavia, quest’ultima conosce gradazioni assai diverse d’intensità. In certi periodi storici, si ha quello che ho indicato quale monocentrismo, in cui una parte ha sostanziale preminenza – mai perfetta, mai esente da tensioni e conflitti, in cui essa riesce tuttavia, in diversa guisa, a tenere testa e a prevalere di fatto – sulle altre. Lo squilibrio delle forze in campo, la loro oscillazione vibratoria, provoca scontri tra le varie formazioni: acuti oppure sordi, magari “sotterranei”. Per lunghi periodi sembra sussistere un buon equilibrio, che in genere è quello preso dalle varie teorie come punto di partenza perché ritenuto prioritario. Alla fine, invece, le energie accumulate nelle incessanti frizioni si scaricano e lo squilibrio – la situazione “normale” di un qualsiasi sistema di relazioni – diviene così manifesto; da qui inizia un periodo caratterizzato da urti in via di accentuazione. Si entra allora nelle epoche di multipolarismo e poi di policentrismo fortemente conflittuale che preme verso un regolamento di conti di tipologia bellica (sia pure di vario genere).
Poiché, come appena rilevato, gli ideologi dei dominanti
tendono, salvo rare eccezioni, a mettere in primo piano l’equilibrio quale
condizione “normale”, le varie forze in lotta si illudono a lungo sulla
possibilità di ripristinarlo con mutua cooperazione, continuano ad incontrarsi
e a “parlamentare”, sfruttano organismi e istituzioni (internazionali) creati
nella precedente epoca monocentrica fingendo che essi funzionino
veramente da luoghi di accordo e smussamento dei contrasti, mentre lo erano
soltanto in quanto risultato della netta preminenza di una
formazioneparticolare (o di due come nel mondo bipolare durato
dal 1945 al 1989-91), cui le altre si piegavano per mancanza di capacità
d’opposizione. Simile finzione alla fine non regge più; eppure si continua
ancora ad invocare la ragionevolezza dei gruppi dirigenti, che dovrebbero
comprendere il vantaggio di reciproche concessioni.
In realtà, il brontolio del conflitto, facendosi sempre meno
sordo e più esplicito, viene ritenuto da ognuno dei contendenti quale prova
della mala fede degli avversari; d’altronde, per mantenere il precedente
equilibrio (apparente), sarebbe indispensabile che venisse nuovamente accettata
la preminenza di una formazione particolare, accettazione ormai
impossibile da parte di altre che si sono andate rafforzando. Impossibile
proprio perché la maggiore forza acquisita da queste altre implica una scelta
di fondo: o non la si usa e quella formazione (paese) regredisce, la sua
società nazionale entra in disfacimento, i gruppi al comando in essa vengono
sempre più manifestamente contestati e poi rovesciati da nuovi in crescita con
l’appoggio della maggioranza degli strati sociali di cui consta la sua
popolazione; oppure è necessario farla valere contro le pretese della
formazione particolare tuttora predominante per dimostrarsi degni di
mantenersi al potere, difendendo gli interessi del proprio paese e della quota
maggioritaria del suo popolo.
Nella formazione sociale (questa volta considerata nel suo
aspetto generale, caratterizzante le principali e più avanzate
formazioni particolaridi una data epoca storica) detta capitalistica –
quella società la cui struttura portante è stata considerata dal vituperato
marxismo il modo di produzione specificamente capitalistico, in quanto sua
“anatomia e fisiologia” (Lenin in Che cosa sono gli amici del popolo) – la
cosiddetta sfera economica rappresenta un complesso di strumenti atti al conflitto
tra i vari paesi; sia nella situazione di apparente equilibrio (qui sembra anzi
essere la sfera più impegnata nella competizione, mentre le altre due
dovrebbero servire a smussarla e promuovere accordi cooperativi tra questi
paesi) sia in quella in cui si manifesta la “crisi” di scoordinamento con
tendenziale stagnazione e depressione della maggior parte del sistema mondiale.
Dopo alcuni secoli, da quando si è fondamentalmente compiuta
la transizione dal feudalesimo (più in generale, dalle società precapitalistiche)
al capitalismo, ancora permane questa ideologia di fondo, giustificata
all’inizio dalla “sorpresa” di vedere una sfera (solo produttiva), del tutto
subordinata all’esercizio del potere conflittuale negli apparati politici e
ideologici, divenire essa stessa fonte (e non solo fornitrice di mezzi) di
conflitto tra gruppi contrapposti.
Questo ampliamento (nel capitalismo) del campo del conflitto
dalle sfere politica e ideologica all’economica – ampliamento consustanziale
alla trasformazione della produzione in generalizzato apprestamento di merci
con l’estensione dell’uso della moneta e la creazione dei vari apparati
finanziari sempre più complessi – ha completamente obnubilato la vista dei
pensatori che analizzavano il conflitto. La sfera economica è stata così
creduta preminente e determinante: essa orienterebbe la lotta, la quale
servirebbe principalmente (pressoché esclusivamente) gli interessi economici
dei gruppi predominanti, esistenti appunto nell’economia e che prevarrebbero
nettamente sugli altri (quelli della politica e dell’ideologia) asservendoli ai
propri scopi.
Poiché nella sfera economica la componente più mobile e
mobilizzabile è la “ricchezza liquida”, quella nella sua forma monetaria
(quindi appannaggio della sottosfera finanziaria e oggetto delle manovre degli
apparati che in questa operano), la Finanza (in maiuscolo data la venerazione
che le è tributata) appare quale il vero deus ex machina della
situazione. Il movimento in tale sottosfera (le manovre dei suoi apparati) è
pensato come il più decisivo nella società odierna, i finanzieri sarebbero gli
autentici gruppi dominanti in quest’ultima (e senza nemmeno più questione di
nazionalità perché il denaro “non ha patria”). E la crisi, dunque, non potrebbe
che dipendere dalle loro cattive manovre; essi, periodicamente, perderebbero il
senso della realtà, assatanati dalla sete di accrescere i guadagni già ottenuti
in precedenza, con ciò provocando i crac di Borsa, i fallimenti di banche, ecc.
con effetti sconvolgenti sul quadro produttivo, e poi su quello politico, che
invece, se dipendesse solo da loro, sarebbero guidati saggiamente dai gruppi di
vertice preposti a tali settori della società.
2.
L’althusserismo ebbe l’intuizione di una simile deviazione ideologica. Esso si
rifugiò però (e all’epoca non si poteva pretendere di più) nella concezione di
una sfera economica dominante nell’epoca del capitalismo concorrenziale, mentre
con l’avvento del mono(oligo)polio la dominanza sarebbe tornata agli apparati
politici e ideologici; pur se venne mantenuta, per “ortodossia”, una poco
perspicua “determinazione d’ultima istanza” da parte dell’economia. Oggi,
simile concezione si può considerare un errore gravido di spiacevoli
conseguenze teoriche, poiché a mio avviso rischia di confinare troppo con la
riduttiva concezione marxista (non marxiana) della centralizzazione
capitalistica quale regime di mercato (monopolistico) e non come trasformazione
del rapporto sociale che è il capitale con il presunto netto
antagonismo tra capitalista divenuto rentier e lavoratore collettivo
cooperativo (“dall’ingegnere all’ultimo manovale”), previsione rivelatasi
errata con tutte le conclusioni da me tratte, e continuamente rielaborate, da
ormai poco meno di vent’anni a questa parte.
Bisogna più decisamente abbandonare l’ideologia della
preminenza, e determinazione, della sfera economica nel conflitto per la
supremazia che si scatena tra i vari gruppi dominanti e diventa poi scontro tra
formazioni particolari per il predominio sul piano mondiale. La
caratteristica generale di tale lotta – che conosce forme di manifestazione
concreta, empirica, profondamente modificatesi nel corso dei secoli e millenni
– è lapolitica nel suo senso di sequenza di mosse strategiche preordinate
appunto al fine della conquista della predominanza.
Tale politica investe generalmente, e da sempre, le sfere sociali
della politica e dell’ideologia nelle epoche precapitalistiche; essa si estende
poi a quella economica nel passaggio alla formazione sociale (generale)
capitalistica. La cui anatomia, la “struttura ossea”, sarà magari la sfera
economica (se così piace pensare), ma quest’ultima non determina l’andamento
concreto e le finalità perseguite dagli individui in società; proprio come lo
scheletro, o anche il sistema dei vasi sanguigni e linfatici, o anche quello
muscolare, ecc. non determinano la condotta di noi individui umani poiché è il
cervello l’organo direttivo fondamentale, veramente centrale in ogni azione, in
ogni movimento.
Certamente, se non esiste un corpo funzionante, il cervello
semplicemente pensa e non agisce; tuttavia il corpo è l’insieme degli strumenti
indispensabili all’azione, ma da solo non sa che fare, è puro abbrutimento.
Sostenere che, nei vari apparati del corpo, uno (magari il cervello nel suo
lato più materiale e concreto) è più importante degli altri, è senz’altro
possibile ma spesso fuorviante. Meglio, a questo punto, accettare quanto disse
Menenio Agrippa; non con riferimento ai vari gruppi sociali (che secondo lui
avrebbero dovuto cooperare), bensì in quanto insieme di sfere e apparati
indispensabili al conflitto tra tali gruppi affinché uno – o una data alleanza
tra gruppi – prevalga sugli altri (sulle altre). Le varie sfere sociali sono
tutte necessarie (ivi compresa quella economica nella formazione capitalistica),
e s’integrano fra loro – poiché, fra l’altro, la suddivisione della società in
sfere è tutto sommato arbitraria, effettuata per comodità d’analisi –
nell’essere usate per attuare sequenze di mosse strategiche operative forgiate
dal pensiero, in interazione con le strategie degli altri individui (e gruppi
di individui) contro cui si lotta.
E’ dunque la politica, il complesso di strategie
conflittuali, ad essere la causa prima del movimento interattivo tra i vari
gruppi in cui si suddivide una data formazione sociale in una specifica epoca
storica (o nelle varie fasi d’essa). Va anzi subito chiarito che la
suddivisione in questione è frutto della politica stessa. Anche in
tal caso, l’althusserismo ebbe i suoi bravi meriti perché pose all’inizio
la lotta di classe e non le “classi” (i soggetti già formati) in
lotta fra loro. Tuttavia, ancora una volta si fece “distrarre” dall’ortodossia
perché immaginò che la lotta formasse fondamentalmente due classi in
antagonismo, una dominante e l’altra dominata. Non è detto che sia sempre così;
anzi lo è solo nei momenti decisivi di un profondo rivolgimento
(la rivoluzione), quando si affrontano fondamentalmente – e anche allora
in modo tutt’altro che chiaro e netto – due assemblaggi di gruppi (solo “alleati”
fra loro); e l’assemblaggio è sempre diretto da alcuni nuclei dotati delle
strategie (della politica) più adeguate a riunire le due “alleanze” e a
farle scontrare fra loro per la vittoria finale del nucleo dirigente di uno dei
gruppi componenti una delle due alleanze.
Salvo che in questi cruciali tornanti della Storia (che
diventano poi i paletti segnaletici di nuove epoche della formazione sociale o
delle loro varie fasi), lo scontro si svolge tra più gruppi sociali, anzi tra
più nuclei direttivi che tentano di prenderne la testa, cercando di convincere
i gruppi in oggetto d’essere i loro effettivi rappresentanti. La situazione è
ancora più complicata poiché Marx si sbagliò nel ritenere che ormai la storia
sarebbe stata caratterizzata dall’estensione globale della formazione sociale
capitalistica da lui analizzata nell’esemplificazione inglese (ci si ricordi
il de te fabula narratur rivolto agli altri paesi della società
mondiale). Egli attribuì nervatura centrale – la base economica – al modo
di produzione capitalistico (un modo sociale, non certo tecnico, come poi
interpretato in sede sindacale) e dunque pensò certamente a rapporti
sociali, non al semplice sviluppo di mere forze produttive; tuttavia, si
trattava di rapporti sociali esistenti soprattutto nella sfera economica
(produttiva in specie) e quelli decisivi correvano tra i proprietari
(controllori) dei mezzi produttivi (la borghesia) e i possessori e venditori di
merce forza lavoro (operai, i salariati).
Si credé che tutta la società mondiale si sarebbe infine
divisa in queste due classi fondamentali, le altre essendo solo “strati
cuscinetto”, mantenuti dal plusvalore (pluslavoro) estratto ai lavoratori
produttivi salariati (dove produttivo, per evitare le solite deviazioni di
pseudomarxisti sprovveduti e ignoranti, significa soltanto creatore di
plusvalore tramite erogazione di lavoro per un tempo superiore a
quello necessario a produrre i beni per la
sussistenza storico-sociale dei lavoratori stessi). Non a caso si
immaginò un inesistente “internazionalismo proletario”, si blaterò intorno agli
operai che non hanno patria, ecc. In realtà, la politica (e spero si
sia infine capito che cos’è!) non è il semplice conflitto tra due classi (una
dominante e l’altra dominata), e nemmeno soltanto quello tra dominanti
considerati nella loro posizione di proprietari capitalisti. E’ un fenomeno
complesso, che vede in campo più gruppi sociali con alcuni nuclei dirigenti fra
loro in lotta, ma anche con la formazione di alleanze promiscue e mutevoli. Il
conflitto tra i vari nuclei dirigenti non può essere analizzato con mero
riferimento alla collocazione funzionale e di ruolo dei differenti gruppi
sociali; è necessario tenere pure conto dell’interrelazione tra diverse
formazioni particolari (paesi, ecc.), della maggiore o minore potenza
delle stesse, delle loro sfere d’influenza (politiche e culturali
oltre che economiche).
3. Ulteriori
considerazioni a tal proposito saranno semmai sviluppate nel saggio sulle tre
tipologie di “guerre” (di conflitti) sociali su cui mi sto arrabattando in
altro luogo. Qui adesso debbo tirare alcune conclusioni sulla “crisi”. Non è
l’economia la sfera in cui si svolge prevalentemente la
lotta politica (le strategie conflittuali), e tanto meno lo è la
sottosfera finanziaria; in detta sfera, inoltre, rileviamo l’esistenza di un
insieme distrumenti (apparati vari, fra cui decisivi sono quelli
denominati imprese) atti a condurre lo scontro secondo le pratiche
specifiche in uso in tale “parte” della società; se ne conclude allora che l’analisi
della politica deve essere svolta nel complesso intreccio tra le
diverse sfere sociali (con i loro apparati politici, ideologici, economici), di
cui non si può indicare per principio qual è la più influente nelle
diverse fasi storiche e nell’interrelazione tra molte
formazioni particolari (pre e subdominanti o addirittura
nettamente subordinate). In linea generale, e teoricamente consistente, va
soltanto affermato che l’aspetto logicamente prioritario, l’anello della
matassa da tirare in ogni e qualsiasi analisi di qualsivoglia fase della
società (mondiale, come anche quella di singoli paesi), è la politica.
Quest’ultima non riguarda esclusivamente la sfera sociale
così denominata (apparati statali e “pubblici” in genere), bensì anche le
altre; le diverse organizzazioni, peculiari di ognuna d’esse, sono
gli attori che la svolgono, ma in quanto meri portatori
soggettivi di un conflitto permanente che – sia pure con momenti di
apparente stasi nelle situazioni di tendenziale monocentrismo –
permea permanentemente l’intera società. E la permea poiché la situazione
“normale” dei rapporti sociali, malgrado in certi casi sembri il contrario, è
quella di squilibrio; ed esso – trasformando la suddivisione della società
complessiva in diversi gruppi sociali e in differenti formazioni particolari,
e alterando i loro rapporti di forza reciproci una volta che gruppi e
formazioni siano venuti ad esistenza – implica necessariamente la lotta per
ripristinare o invece mutare i suddetti rapporti implicanti il predominio di alcuni
e la subordinazione di altri. Ogni forza, dalla quale soltanto dipende il
movimento di tutte le “parti” del mondo, deve ovviamente trovare i
suoi soggetti agenti; ma è la forza a crearli, non i soggetti già bell’e
costituiti a produrla. E il movimento è appunto squilibrio, quindi
gli agenti (i suoi portatori) ne subiscono le conseguenze e
operano in base agli effetti, per loro positivi o negativi, dell’impulso
squilibrante in questione.
Questo è l’autentico spirito scientifico (“astraente” dalla
concretezza delle apparenze reali) che deve guidarci anche nella
trattazione di quella che chiamiamo crisi, e che
i superficiali considerano sempre come prevalentemente economica,
dato che i suoi primi effetti, e per di più sconvolgenti per la vita
empirica degli umani nell’ambito dei rapporti sociali di tipo capitalistico, si
verificano nella sfera in oggetto. Con precedenza di quella finanziaria, dato
che in questa si muovono gli agenti, i portatori soggettivi, in
possesso della “materia” più liquida e mobile che ci sia, la massa monetaria
(ed equipollente), che è il “duplicato” della forma generale di merce assunta
sia dai prodotti sia dalla stessa forza lavorativa umana, liberata da vincoli
servili.
Non è mia intenzione contestare l’attenzione particolare che
gli studiosi di scienze sociali – affascinati, come già rilevato,
dall’estensione del conflitto alla sfera economica, estensione realizzatasi nel
passaggio alla formazione capitalistica – hanno dedicato ai processi
caratterizzanti detta sfera, con il loro andamento sinusoidale per quanto
riguarda la crescita di tutta una serie di variabili (e “parametri”). Non
giudico inutili gli studi compiuti intorno a tale andamento nelle sue varie
tappe, di cui una – la brusca interruzione della crescita con inversione di tendenza
– è definitacrisi, pur essa analizzata e “spezzata” in differenti stadi del suo
verificarsi. Se n’è studiata la lunghezza: i cicli brevi (Kitchin), medi
(Juglar), lunghi (Kondratiev). Così pure per ciò che concerne le sue varie
cause: climatiche (le prime e più rudimentali teorie), monetarie e creditizie,
le innovazioni “a grappoli” (concentrate in vari periodi successivi
intervallati dalla diffusione di quelle già intervenute e non da ulteriori
spinte innovative), la sproporzione dei settori (soprattutto industriali:
produzione di beni di produzione e di consumo, ecc.), la caduta tendenziale del
saggio di profitto (tipica “ossessione” di ambienti marxistoidi, interessati al
capitale come cosa, e quindi al rapporto tra capitale costante, investito
in mezzi di produzione, e variabile, investito nel pagamento dei salari),
ecc.
Come al solito, l’intuizione più congrua mi appare quella di
Lenin che, pur mischiando in verità parecchie causalità (per mantenersi fedele
ad una ortodossia marxista più che di Marx, cioè a quell’ortodossia fondata da
Kautsky e preceduta da Engels), manifestò una qualche preferenza per la causa
rappresentata dall’anarchia mercantile. Perché la ritengo la più utile
intuizione in merito alla crisi? Per il semplice motivo che essa può essere
abbastanza facilmente spinta a travalicare la gretta analisi economicistica –
tipica di tutti gli economisti, e dei sociologi, sia nella formulazione di
teorie dominanti e apologetiche sia in quella di teorie critiche del
capitalismo – fino ad arrivare all’indagine della reale conflittualità
strategica tra gruppi (e formazioni particolari) dominanti per la
supremazia (nell’ambito di una società nazionale o in quello mondiale o
comunque in un’area geografico-sociale di particolare ampiezza: tipo il “campo
capitalistico” nel mondo bipolare del secondo dopoguerra).
Certamente, l’anarchia mercantile resta ancora,
“ufficialmente”, sul terreno della sfera economica capitalistica, considerata
la principale e decisiva pure dal marxismo. Tuttavia, dopo la “quarta
caratteristica dell’imperialismo” – la lotta delle grandi imprese
“monopolistiche” per la spartizione del mercato mondiale – Lenin indicò quella
in realtà più rilevante, la lotta
tra potenze (formazioni particolari assurte al predominio
in date sfere d’influenza) per la preminenza su scala mondiale
(regolamento dei conti “finale” per re-instaurare una condizione
di relativo monocentrismo). Non vi è alcun dubbio, credo, che Lenin,
malgrado la sua formale adesione all’ortodossia marxista della prevalenza dell’economia,
basò la sua prassi rivoluzionaria sullo
scontro politico (cioè conflittuale e strategico) tra gruppi
dominanti; e in particolare su quello scontro che, nel momento cruciale
del policentrismo più aperto, diventa appunto guerra (continuazione della
lotta politica con mezzi più “definitivi”) trapotenze. Non basta però più il
riferimento all’anarchia dei mercati, pur essa fenomeno derivato – rilevante
(soprattutto empiricamente), non vi è dubbio, ma comunque derivato –
e non causa principale.
4. Va manifestato
il massimo disprezzo per come la crisi iniziata nel 2008 è stata trattata da
sedicenti “esperti”, che hanno solo enfatizzato le crisi di Borsa,
l’abominevole tema dello spread, al massimo criticando i “cattivi
finanzieri”, magari per carenza di etica, ecc. Alcuni studiosi di economia più
seri hanno affrontato il problema con altri strumenti e con una migliore
conoscenza delle varie teorie sulla crisi formulate da autori ormai divenuti
dei “classici”. Non ritengo inutile il lavoro di questi studiosi odierni, ma
qui mi interessa, come ormai sottolineato più volte, la motivazione “profonda”
e cogente delle crisi (di tipologia variabile), quella motivazione che non
attiene alla pura economia, bensì alla politica nel suo significato
già chiarito.
Da tale punto di vista, la recente crisi – e fin da subito,
i lettori lo ricorderanno, la assimilai a quella di fine ‘800 – va considerata
il segnale d’apertura di una nuova epoca di accentuato
scontro multipolare, che comporta lo scoordinamento delle complessive
relazioni tra le numerose formazioni particolari e dunque pure del
cosiddetto mercato globale. Non si tratta in realtà affatto del semplice
mercato, bensì di un riposizionamento delle formazioni in questione nei loro
rapporti di forza in merito al controllo di determinate sfere d’influenza.
Lo squilibrio – manifestatosi nel passaggio dal
tendenziale monocentrismo Usa (1991-2001) al nuovo e più instabile
(dis)ordine mondiale, ponendo in crescita dipotenza nuovi agenti –
potrebbe anche riportare infine nella posizione di supremazia gli Stati Uniti,
nel qual caso assisteremmo al ritorno verso una configurazione di nuova
centralità coordinatrice del paese ancor oggi più forte.
Tuttavia, propendo per la prosecuzione, sia pure non lineare
bensì con andamenti a sbalzi, del
suddetto multipolarismo (attualmente ancora molto imperfetto) in
direzione dell’usuale policentrismo che annuncerà un periodo di
acutizzazione del conflitto per il predominio mondiale; e non certo di tipo
prevalentemente economico, bensì soprattutto politico e bellico. Ed è al
servizio di quest’ultimo che funzionerà, in definitiva, l’economia di vari
paesi in fase di trasformazione decisamente innovativa. Si verificheranno pure,
soprattutto nei paesi in questione, modificazioni non indifferenti delle
“strutture” sociali (delle forme dei rapporti tra gruppi sociali). La crisi,
nel suo aspetto più “superficiale”, quello economico appunto, sarà lunga e
tormentosa, strisciante e priva di impennate verso alti ritmi di crescita; nel
contempo, non dovrebbe nemmeno condurre a catastrofici sprofondamenti. E’
probabile qualche crac finanziario, più difficilmente bruschi e autentici
crolli nei settori della produzione; almeno per alcuni anni a venire. La sfera
economica sarà però investita da mutamenti intersettoriali, da avanzamento di
date branche (alcune anche nuove) con arretramento di altre.
Anche se, com’è stato sostenuto, è lo squilibrio,
grazie al movimento incessante da esso indotto, a creare i suoi portatori
soggettivi (gli “attori” in lotta), questi ultimi non sono tuttavia
strettamente determinati, non sono privi di una qualche libertà di scelta. Vi è
pur sempre un ventaglio, non ovviamente aperto a 360° (e nemmeno a 180°), di
possibilità d’azione da parte dei “soggetti”. Inoltre, quando si fa riferimento
almono o policentrismo, al multipolarismo, ecc. balzano in
evidenza, quali agenti (creati dal movimento squilibrante), le
formazioni particolari:predominanti (le potenze), subdominanti o
più nettamente subordinate. Tuttavia, in queste formazioni (paesi, nazioni,
ecc.) sono presenti diversi raggruppamenti e gruppi sociali; e anche questi
sono “creati” – con i vari nuclei dirigenti che di fatto li orientano, tali
nuclei essendo dunque i più autentici agenti – dal flusso di
conflitti generatosi nell’oscillazione vibratoria.
Ecco allora che il discorso sulla crisi apre in realtà la
porta ad una ben più rilevante, e complicata, discussione sui vari tipi di
conflitto (di “guerra” in senso lato) che si scatenano ai diversi livelli della
formazione sociale nel suo aspetto generale (globale): scontro tra le
sue partizioni di tipo geografico-sociale – le varie
formazioni particolari (paesi, nazioni, ecc.) – per il predominio
mondiale o quella che fu indicata a lungo come “lotta di classe”, cioè urti e
frizioni tra gruppi sociali all’interno delle formazioni in questione. Non sono
però tanto questi gruppi (le “masse in movimento”) a definire la prevalenza di
uno o più d’essi (o le alleanze fra certi gruppi, talvolta definibili
quali blocchi sociali) in ogni data formazione. Più decisiva è la discesa
in campo di nuclei dirigenti in competizione più o meno acuta e più o meno
capaci di conquistare il controllo della formazione (paese). I nuclei in
questione – e non le sole “masse in movimento” (cioè i gruppi sociali) – sono
gli autentici portatori soggettiviultimi del movimento squilibrante e del
conflitto da esso indotto; e il prevalere di questo o di quello di detti nuclei
definisce la differente tipologia cui appartiene un determinato paese
(pre o sub dominante, ecc.).
Lasciamo pure gli studiosi (quelli seri però, non quelli
della crisi di Borsa, dello spread e di altri inganni “pagati” da
gruppi subdominanti, i “cotonieri”) discorrere sulle varie cause
economiche delle crisi, sulla loro periodicità e lunghezza, sui mezzi per
contrastarle, quasi sempre con la convinzione che lo si possa fare e che solo
manchi la “buona volontà” o si commettano errori “evitabili”, ecc. Stiamo in
realtà cercando un differente percorso (teorico) utile alla comprensione di ciò
che è il “più generale” e cogente (la cosiddetta “legge”); del tipo
dell’esempio fatto più volte, il “moto rettilineo uniforme”, che non credo
esista mai nella realtà empirica, e tuttavia è servito da base per lo studio
del movimento dei corpi. Non controllo la scienza fisica: credo comunque che
anche il mutamento intervenuto con la relatività – mutamento
da non assimilare certo a quello escogitato dal Nobel dell’Economia
Simon, quando “scoprì” che la “razionalità” (dell’homo oeconomicus) è sempre limitata,
a differenza di quanto supposto dalla scuola neoclassica tradizionale;
“scoperta” che è per me sintomo di decadenza teorica e non di avanzamento nella
conoscenza – non abbia introdotto alcun discorso intorno all’esistenza di
attriti. Se non erro, la teoria einsteiniana ha invece spostato effettivamente
il punto di vista quando ha indicato che il percorso non rettilineo di un
mobile non dipende dalla gravità, intesa come forza attrattiva promanante dalla
massa dei corpi, bensì dalla curvatura dello spazio/tempo, legata a massa ed
energia. Da questo mutamento dipende l’uso delle geometrie non euclidee, di cui
quella euclidea diventa un caso particolare, ecc. ecc.
In ogni caso, nelle ipotesi relative alla crisi, io parto
dal principio che lo squilibrio genera il movimento; e quest’ultimo
ha come effetto il conflitto e la formazione di “punti di
condensazione” rappresentati dai portatori soggettivi, dagli “attori” che
fra loro appaiono in lotta nella realtà più “visibile” (più “superficiale”, “di
palcoscenico”, ecc.). Essendo quelli più visibili, li si osserva muovere,
attribuendo loro e al loro modo d’agire la causa dello scontro e dei suoi
effetti. Si sostiene allora la possibilità di invertire il loro comportamento,
di realizzare accordi, sol che lo si voglia realmente, smorzando così il
conflitto, forse giungendo un giorno alla piena cooperazione, creando infine un
mondo senza più crisi di alcun genere: niente crac finanziari (con “bravi e
virtuosi” finanzieri), niente scoordinamenti né la cosiddetta anarchia dei mercati
o la sproporzione dei settori, ecc., e addirittura niente più guerre, e via
dicendo. Resta, allora, soltanto la “saggezza religiosa” a ricordarci
l’ineliminabilità della lotta tra bene e male; e almeno per questa via ci salva
dalle peggiori sciocchezze del “buonismo” dei dominanti che devono far credere
ai sottoposti molte fanfaluche nel tentativo di perpetrare il loro dominio.
5. Sul
palcoscenico, una data opera va rappresentata seguendo il testo dell’autore;
certamente, però, la regia introduce curvature particolari e gli attori, se
capaci, mettono in piena luce determinati significati, che devono comunque
essere quelli presenti nel testo in questione, altrimenti abbiamo a che fare
con tutt’altra opera. Il “testo scritto” dal movimento squilibrante, generatore
di conflitti, è quello che è; tuttavia, non si è passivi nella lotta e ci si
deve impegnare nella “migliore rappresentazione” possibile. Nessuno sostiene
che gli “attori” non possano apportare a quest’ultima variazioni anche
significative. I portatori soggettivi non sono determinati nel loro
agire fin nelle minime minuzie, essendo invece in possesso di qualche “grado di
libertà”. L’importante è smetterla di credere che essi siano capaci di ottenere
risultati contrari, opposti, a quelli indicati nel “testo”: già scritto da
tempo immemorabile, dall’intera storia dell’umanità, delle varie formazioni
sociali succedutesi. Sì, lo so, ci si rifiuta a questa “condanna”, si è spesso
convinti che alla fine potrà trionfare la bontà, l’accordo, la pace.
Rifarò ancora in seguito, per l’ennesima volta, la storia
del significato dell’opera di Marx relativamente al comunismo, interpretato
“fantasiosamente” dai suoi seguaci. Marx aveva un’opinione assai amara degli
individui umani, e Lenin ne aveva una anche peggiore. Il loro comunismo non
aveva nulla di utopico come interpretato da alcuni, soprattutto filosofi, che
dei due pensatori rivoluzionari hanno capito assai poco (direi nulla). Quel
comunismo era invece basato sulla previsione di un movimento (tendenziale)
del modo di produzione capitalistico (non del generico capitalismo),
che si supponeva semplificasse la divisione in raggruppamenti (classi) sociali
e conducesse verso la cooperazione tra produttori associati; non però tra
uomini con le loro concrete individualità, non considerati dai due autori sopra
citati come particolarmente buoni e disinteressati, non invidiosi, non
ambiziosi, non animati da propositi di affermazione con vari metodi tutt’altro
che commendevoli, ecc. In ogni caso, come ho mostrato “mille e una” volta
ormai, le previsioni relative alla dinamica di quel sistema di rapporti si sono
rivelate inesatte, ma non peccavano di mancanza di realismo, non erano fantasie
di utopisti. Ci torneremo comunque.
La crisi iniziata da quattro anni ci accompagnerà a lungo.
E’ una tipica crisi di scoordinamento legata
all’incipiente multipolarismo. La vera differenza rispetto a quella, più
volte ricordata, di fine secolo XIX è la deflazione dei prezzi verificatasi
allora. Tuttavia, siamo appena all’inizio di una simile crisi e avremo
probabilmente modo di assistere anche a quel fenomeno. Tuttavia, se
abbandoniamo i paragoni effettuati soltanto in sede di andamento dei processi
economici, riusciremo negli anni a venire ad afferrare meglio una serie di
mutamenti maggiori che si realizzano in periodi storici simili a quello che
prese avvio con la lunga crisi di depressione ottocentesca e che fu
caratterizzato dal declino inglese. Non facciamoci però trarre in inganno
ancora una volta: non fu quel declino il fenomeno più rilevante dell’epoca
(detta imperialistica). Esso, fra l’altro, non era ineluttabile se non con il
solito “senno di poi”. Si verificò allora soprattutto la fine del capitalismo
quale si era formato in Inghilterra, e poi in Europa (e, inizialmente, pure
negli Stati Uniti), il capitalismo borghese, che servì da modello per
l’analisi marxiana e il cui tramonto fu pensato come inizio
della rivoluzione proletaria mondiale, che avrebbe seppellito il
capitalismo tout court.
La depressione di fine ‘800, durata circa un quarto di
secolo, aprì la via alle vere grandi crisi, soprattutto belliche – con
ulteriori riflessi economici critici in date contingenze, tipo quelli
del 1907, “trascinatisi” di fatto fino alla prima guerra mondiale, e del 1929,
anch’essi superati solo con la seconda – che hanno prodotto la radicale
mutazione storico-sociale cui hanno assistito le generazioni del secondo
dopoguerra. L’attuale crisi di relativa stagnazione verrà infine considerata
fra un bel po’ di tempo (diciamo mezzo secolo?) come l’apertura di una nuova
“grande trasformazione”. La “grande illusione” della lotta tra capitalismo e
“socialismo”, tipica dell’epoca del mondo bipolare, ha completamente
sviato l’attenzione degli studiosi, con l’incomprensione totale dell’avvenuto
passaggio dal capitalismo borghese a quello dei funzionari del
capitale(definizione da me escogitata provvisoriamente e che sono il primo a
considerare non del tutto soddisfacente). Adesso siamo entrati in una nuova
epoca di netti, probabilmente violenti, sconvolgimenti con ulteriori
modificazioni della formazione sociale, che continuiamo a definire
genericamente capitalistica in base all’esistenza degli apparati tipici della
sfera economica: il mercato e le imprese, ecc. Stiamo accumulando ritardi su
ritardi e ci impantaniamo nel chiacchiericcio inconcludente più che in
autentiche analisi teoriche.
Ci dimostriamo anzi in possesso di scarse capacità
d’indagine, tutti dediti al “momento presente”. La memoria del passato è
continuamente ignorata; e, quando non lo è, ci si dedica “gioiosamente” al suo
completo travisamento, a raccontarci una storia totalmente svisata e
dunque incompresa. Il futuro è oggetto di stupide discussioni sull’ottimismo o
invece il pessimismo, di fatue promesse tipiche di una “democrazia elettoralistica”,
che ha creato “scimmioni” incapaci di pensare e problematizzare il proprio
vivere per un periodo di tempo che superi qualche mese. L’abissale “idiozia dei
tecnici”, degli “specialisti”, è l’autentica cifra della nostra fase storica,
specialmente in questo “occidente” ormai “stramaturo”, marcio e sfatto.
Ritengo utile prendere intanto atto di una realtà che credo
ci apparirà evidente entro qualche anno: la crisi attuale non è prevalentemente
economica e difficilmente riaprirà la porta a prossimi nuovi boom. Essa ci
farà galleggiare in una situazione depressiva (in molti sensi, probabilmente
pure individuali) e andrà mutando in direzione di più netti sconvolgimenti di
varia forma, ancora per larghi versi imprevedibili. Tuttavia, come già detto, gli agenti (i portatori
soggettivi) dell’“oggettivo” movimento squilibrante, e generatore di conflitti,
non sono del tutto passivi né tanto meno inerte preda di un improvvido Destino,
poiché esistono invece per essi certi “gradi di libertà”. Sarà dunque utile
cercare di afferrare le determinanti e le caratteristiche di massima dei
prossimi conflitti. Un lavoro irto di difficoltà e complesso, che sconterà la
lunga parentesi di paralisi della nostra ricerca.
Lasciando perdere gli inutili cantori della “libera individualità”
nella sua interazione soprattutto mercantile – una concezione di una vecchiezza
insopportabile e ormai ridotta a puro vaneggiamento – dobbiamo superare anche
le stantie concezioni della “divisione in classi”. Tuttavia, è indubbio che
funzionano ancora gruppi sociali (non ben conosciuti e soprattutto affastellati
confusamente nella dizione di “ceti medi”) e si formano – spesso disfacendosi e
riformandosi in periodi ravvicinati data la loro labilità e il loro
pressapochismo – nuclei direttivi dotati di strategie raramente ben fissate e
con obiettivi spesso labili e cangianti. In ogni modo, è in questa direzione
che dobbiamo iniziare la nostra strada di analisi, perché qui incontriamo
appunto gli “attori” che recitano la politica e i “registi” che
mettono in scena il conflitto. Mi sembrano al presente molto scadenti e
gli uni e gli altri; ma così sono e al loro comportamento ci si deve attenere.
Sapendo però distinguere tra portatori soggettivi (sia pure dotati di
una qualche libertà di scelta) e movimento squilibrante che rappresenta il vero
regista d’ultima istanza del conflitto in via di acutizzazione.
Qui siamo e qui dobbiamo muoverci teoricamente.
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