"Ogni realtà sociale è, per prima cosa, spazio" | Fernand
Braudel
Pierfranco
Pellizzetti | Un "grande libro" merita di essere
considerato tale non sulla base delle ipotetiche verità che racchiude tra le
sue pagine, quanto per i processi mentali a catena che innesca. Titolo, quello
di grande libro, che - per l'anno 1994 - spetta senza dubbio a Il lungo XX
secolo diGiovanni Arrighi storico dell'economia milanese, emigrato
negli Stati Uniti quindici anni prima, nel 1979. Un periodo, durato fino alla
sua morte, avvenuta nel 2009, in cui
Arrighi ha insegnato alla State University di New York e cooperato al Fernand Braudel Center, diretto da Immanuel Wallerstein sempre nella Grande Mela.
Arrighi ha insegnato alla State University di New York e cooperato al Fernand Braudel Center, diretto da Immanuel Wallerstein sempre nella Grande Mela.
Un milieu dove si coltivava - nel ricordo del
maestro francese della longue durée e della civiltà materiale - una visione
sistemica dei processi economici in totale contrasto con il paradigma
dominante dell'epoca: il mainstreammicroeconomico al servizio di
operazioni ideologiche, cornice concettuale della thatcher-reaganomic;
strumenti di guerra accumulati negli arsenali della controrivoluzione
neoliberista - appunto - nell'ultimo quarto del XX secolo.
Insieme all'importante trilogia di Wallerstein sul
sistema-Mondo (Il sistema mondiale dell'economia moderna, pubblicato da il
Mulino), il testo di Arrighi è il contributo più significativo della scuola nata
sulle due sponde dell'Atlantico. Essenziale per una profonda ritaratura degli
schemi concettuali che guidano la riflessione sulla crisi economica globale, a
fronte della palese incapacità del pensiero dominante di interpretarne le
cause, macroeconomiche e dunque sistemiche.
Il lungo XX secolo ne mette a fuoco gli aspetti più
significativi: in particolare, l'inarrestabile processo di finanziarizzazione
(produzione di denaro a mezzo denaro) quale idealtipico sbocco di lungo periodo
dell'economia "reale", e le conseguenze che ne derivano per nuovi
cicli di accumulazione capitalistica.
Lo schema con cui Arrighi sviluppa il ragionamento è una
potente metafora di periodizzazione, dai tratti di profondamente diversi
rispetto a quella che - sempre nel fatidico 1994 - aveva proposto un altro
storico di vaglia, più interessato alle dinamiche socio-politologiche e
antropologico-culturali che a quelle economiche: Il secolo breve di Eric
J. Hobsbawm, sorta di "sandwich epocale" in cui il trentennio della
cosiddetta "Età dell'oro", dal secondo dopoguerra alla metà degli
anni Settanta, risulta intrappolato tra due catastrofi (la guerra civile
europea dal 1914 al 1945; la decomposizione fin-de siècle).
Il lungo XX secolo propone una rettifica adottando ottiche
a campo lungo; con la ricerca, rispetto alle lunghe derive di un plurisecolare
spazio economico capitalistico, degli elementi di continuità e delle inferenze
in un periodo composto ditre fasi:
1. l'espansione finanziaria della fine del XIX e degli inizi del XX secolo, nel corso della quale furono distrutte le strutture del 'vecchio' regime britannico e furono create quelle del 'nuovo' regime statunitense;2. l'espansione materiale degli anni cinquanta e sessanta, durante la quale il dominio del 'nuovo' regime statunitense si tradusse in un'espansione del commercio e della produzione di dimensioni mondiali;3. l'attuale espansione finanziaria, nel corso della quale vengono distrutte le strutture del 'vecchio' regime statunitense e vengono presumibilmente create quelle di un 'nuovo' regime».
Recente e benemerita iniziativa dell'editore il Saggiatore è
la ripubblicazione dell'importante opera, ormai introvabile, con l'aggiunta di
un poscritto che l'autore aveva steso per la nuova edizione in lingua inglese.
Un breve testo ricco di spunti, che prende le mosse da dove il saggio aveva
concluso la propria analisi. Ossia i tre possibili esiti per la crisi
terminale della "fase americana" nel sistema-mondo: un impero a guida
occidentale, virando a dominio la strapotenza militare che i pur declinanti
Stati Uniti continuano a mantenere; una società di mercato globale imperniata
sull'Asia orientale; e infine l'orrore di un "caos sistemico"
come liquidazione di qualsivoglia forma di governance. Temi già ripresi
nel 2007 con Adam Smith a Pechino, in cui Arrighi faceva i conti con un
fenomeno che al tempo del suo precedente saggio ancora non si era evidenziato
in tutta la sua pienezza: l'ascesa della Cina quale possibile asse di un
riassestamento mondiale.
Analisi anche in quel caso ricca di spunti, seppure con
qualche agiografismo sinistrese di troppo: pensare che il"modello
Cina" possa fondare un nuovo modello di sviluppo "ecologicamente
sostenibile" contrasta con le perfomance altamente inquinanti che
caratterizzano l'ascesa di questo sistema produttivo manifatturiero (e, del
pari, la sua "sostenibilità sociale" - parole di Arrighi -
stride con il ritorno al lavoro schiavistico nelle malfamate Export Zone,
sorte attorno al delta del Fiume delle Perle).
Sia come sia, nel Poscritto il primo interesse
dell'autore è quello di rettificare la lettura - a suo avviso scorretta - data
dai critici de Il lungo XX secolo: la teorizzazione di un
"eterno ritorno" che connoterebbe le dinamiche del Capitalismo, con
una fase di creazione di ricchezza attraverso attività produttive e di scambi
materiali, una "crisi spia" come esaurimento della spinta propulsiva
dell'economia reale, un passaggio alla finanziarizzazione in cui la produzione
viene soppiantata dall'accumulazione e - infine - la "crisi
terminale", lo spostamento di centralità geoeconomica e un nuovo ciclo di
sviluppo.
Arrighi lo nega, eppure nel modello proposto si coglie un
certo determinismo. Ma non è questo il problema, se si conviene che la valenza
primaria di un'analisi consiste nei processi riflessivi che induce. E quelle
dei braudeliani, europei e americani, favoriscono approcci in controtendenza
particolarmente utili. Specie se si tiene conto delle coordinate temporali
proprie dei loro contributi intellettuali: l'epoca in cui un'intellighenzia embedded della
restaurazione NeoLib propugnava le tesi pericolose quanto autolesionistiche del "Nuovo
Secolo Americano", poi insabbiate in Iraq e disperse tra le giogaie
afgane. Il karakiri dell'Occidente.
Ma il testo tornato in libreria non ha soltanto un forte
valore testimoniale; fornisce strumenti particolarmente utili per posizionare
in una giusta prospettiva la fine dell'unilaterialismo americano, che era
emerso nel dopo Guerra Fredda; tra il crollo del muro di Berlino (1989) e
quello delle Torri Gemelle (2001).
La questione aperta - e dunque attualissima - di un mondo
ormai multipolare e senza più un centro. Un mondo dove si sono determinate
rotture sistemiche che reclamano nuove categorie di analisi; e che - magari -
suonano campane a morto per lo stesso ordine capitalistico. Quell'ordine che ha
egemonizzato i tempi del mondo per l'ultimo mezzo millennio e che potrebbe
persino essere giunto a una fase terminale, insieme alle sue logiche dominanti,
basate sulla possessività e su una forma particolare di simbiosi tra
accumulazione della ricchezza e titolarità delle funzioni regolative (come dice
Braudel, "la stanza, sopra la sfera rumorosa del mercato, in cui il possessore
del denaro incontra il potere politico. Dove si genera il mistero del big
business").
Esito finale: l'arresto della ciclicità capitalistica, quasi
come un auspicio. Un auspicio lasciato sottinteso, eppure individuabile tra le
pieghe della riflessione di Arrighi: il superamento di un ordine che si
puntella - al tempo - sull'esclusione e sullo sfruttamento. Come lui stesso
scriveva in un articolo apparso sulla "New Left Review" del
settembre/ottobre 1991 (World incombe inequalities and the future of socialism):
«i due processi sono distinti ma complementari. Processi di sfruttamento forniscono agli Stati ricchi e ai loro agenti i mezzi per iniziare e mantenere processi di esclusione. E i processi di esclusione generano la povertà necessaria per indurre i governanti e i cittadini degli Stati relativamente poveri a cercare continuamente di rientrare in una divisione del lavoro mondiale strutturata secondo condizioni favorevoli agli Stati ricchi».
Dunque, grazie all'iniziativa de il Saggiatore, il non solo
gradito ma anche utilissimo ritorno di un piccolo grande classico.
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