Romance con una quimera ✆ Dorina Costras |
Ovviamente il coraggio e la creatività tattica dei
dimostranti progressisti e anti-fascisti sono motivo di entusiasmo. Queste sono
cose veramente importanti. Sono cose nuove? Niente affatto. Esse sono gli
elementi invariabili di ogni vero movimento di massa: egualitarismo, democrazia
di massa, invenzione di slogan, coraggio, velocità di reazione… Sono cose che
abbiamo visto, con la stessa energia – un’energia gioiosa e sempre un po’
ansiosa – nel Maggio del 1968 in Francia. Le abbiamo viste più recentemente a
Piazza Tahrir, in Egitto. Sicuramente esse dovevano essere all’opera anche ai
tempi di Spartaco
o di Thomas Münzer.
o di Thomas Münzer.
Ma proviamo a muoverci, provvisoriamente, da un altro punto
di partenza.
La Grecia è un paese con una storia molto lunga e dal
significato universale. Un paese la cui resistenza a varie oppressioni e
occupazioni che si sono susseguite è dotata di particolare intensità storica.
Un paese in cui il movimento comunista, anche nella forma della lotta armata, è
stato particolarmente potente. Un paese in cui, ancora oggi, i giovani danno
l’esempio sostenendo rivolte di massa e tenaci.
Un paese in cui, senza dubbio, le forze reazionarie
classiche sono ben organizzate, ma in cui vi è anche la risorsa coraggiosa e
copiosa di grandi movimenti popolari. Un paese in cui ci sono senza dubbio organizzazioni
fasciste forti, ma anche un partito di sinistra con una base elettorale e
militante apparentemente solida.
Ora, ogni cosa in questo paese accade come se nulla
riuscisse a fermare il totale dominio capitalista, sprigionato dalla crisi in
cui il paese stesso versa. È come se, sotto la direzione di comitati ad hoc e
governi servili, il paese non avesse alternativa a seguire i decreti
selvaggiamente anti-popolari della burocrazia europea. In realtà, rispetto alle
questioni che si pongono e alle loro “soluzioni” europee, il movimento di
resistenza sembra essere più una tattica di posticipazione che una fonte di
reale alternativa politica.
Questa è la grande lezione del nostro tempo; una lezione che
ci invita non solo a sostenere il popolo greco con tutta la nostra forza, ma
anche ad accompagnarlo in una riflessione su cosa vada pensato e fatto affinché
questo coraggio non sia un coraggio disperatamente inutile.
Ciò che colpisce – in Grecia soprattutto, ma anche altrove,
in particolare in Francia – è l’evidente incapacità delle forze progressiste di
costringere i poteri economici e di stato – quei poteri che stanno apertamente
cercando di sottomettere la gente alla nuova (sebbene di lunga data e
fondamentale) legge del liberismo assoluto – alla benché minima ritirata.
Non solo le forze progressiste non stanno facendo alcun
progresso e non riescono a ottenere anche solo un successo limitato. Ma le
forze fasciste sono addirittura cresciute e, sullo sfondo illusorio di un
nazionalismo xenofobo e razzista, ora rivendicano la leadership
dell’opposizione ai decreti delle amministrazioni europee.
La mia sensazione è che alla fine la radice di questa
impotenza non sia l’inerzia della gente, la mancanza di coraggio o il sostegno
della maggioranza per dei “mali necessari”. Molte testimonianze ci hanno
mostrato che le risorse per una resistenza popolare, vigorosa e di massa
esistono. Tuttavia questi tentativi non hanno prodotto alcun nuovo modo di
pensare la politica. Nessun nuovo vocabolario è emerso dalla retorica di
protesta e i rappresentanti sindacali sono alla fine riusciti a convincere
tutti che occorre aspettare… le elezioni.
Penso che quello che sta accadendo oggi sia che le categorie
politiche che gli attivisti stanno cercando di utilizzare per pensare e trasformare
la situazione in cui ci troviamo siano ampiamente inoperative.
Dopo i movimenti di massa degli anni Sessanta e Settanta,
abbiamo ereditato un periodo contro-rivoluzionario molto lungo: dal punto di
vista economico, politico e ideologico. Questa contro-rivoluzione ha
efficacemente distrutto la fiducia e il potere che una volta erano in grado di
saldare la coscienza popolare alle parole di emancipazione politica più
elementare –parole come, per citarne alcune, “lotta di classe”, “sciopero
generale”, “rivoluzione”, “democrazia di massa” e tante altre. La parola chiave
“comunismo”, che aveva dominato il panorama politico sin dall’inizio del XIX
secolo, è stata relegata a una sorta di infamia storica. Il fatto che
l’equazione “comunismo = totalitarismo” sembri naturale e sia accettata in
maniera unanime indica quanto pesantemente, nei disastrosi anni Ottanta, i
rivoluzionari abbiano fallito. Ovviamente non possiamo nemmeno evitare una
critica severa e incisiva di ciò che gli stati socialisti e i partiti comunisti
al potere, specialmente in Unione Sovietica, erano diventati. Ma questa critica
dovrebbe essere la nostra critica. Dovrebbe nutrire le nostre teorie e
pratiche, aiutandole a progredire, tuttavia senza guidarci in una tetra forma
di rinuncia e senza gettare via il bambino con l’acqua sporca. Poiché questo ci
ha condotti a uno stupefacente stato di cose: nel guardare a un episodio
storico di importanza capitale per noi, abbiamo adottato, praticamente senza
alcuna restrizione, il punto di vista del nemico. E coloro che non l’hanno
fatto hanno perseverato nella vecchia lugubre retorica, come se nulla fosse
accaduto.
Fra tutte le vittorie del nostro nemico, questa vittoria
simbolica è una delle più importanti.
Ai vecchi tempi del comunismo ci prendevamo gioco di quello
che chiamavamo langue de bois, il linguaggio trito e stereotipato fatto di
parole vuote e aggettivi pomposi.
Certo, certo. Ma l’esistenza di un linguaggio comune è anche
l’esistenza di un’idea condivisa. L’efficacia della matematica nelle scienze –
e non si può negare che la matematica sia una magnifica langue de bois –
ha a che vedere con il fatto che essa formalizza l’idea scientifica. La
capacità di formalizzare velocemente l’analisi di una situazione e le
conseguenze tattiche di quell’analisi. Questo è richiesto anche in politica. È
un segno di vitalità strategica.
Oggi, una delle grandi capacità dell’ideologia democratica
ufficiale consiste nel fatto che essa ha a sua disposizione una langue de
bois parlata su tutti i media e da ciascuno dei nostri governi, senza
eccezioni. Chi crederebbe che termini come “democrazia”, “libertà”, “diritti
umani”, “bilancio in ordine”, “riforme” e così via non sono altro che gli
elementi di un’onnipresente langue de bois? Siamo noi, militanti senza una
strategia di emancipazione, a essere (ormai da un po’) i veri afasici! E non
sarà il linguaggio simpatico e inevitabile della democrazia movimentista che ci
salverà. “Basta questo o quello”, “tutti insieme vinceremo”, “fuori”
“resistenza!”, “ribellarsi è un diritto”… Queste formule sono in grado di
coalizzare i sentimenti collettivi e sono, dal punto di vista tattico,
estremamente utili; ma lasciano completamente irrisolta la questione di una
chiara strategia. Questo linguaggio è troppo povero per una discussione sul
futuro delle azioni di emancipazione.
La chiave del successo politico risiede nella forza della
ribellione, nel suo scopo e nel suo coraggio. Ma anche nella sua disciplina, e
nelle dichiarazioni di cui essa è capace – visto che le dichiarazioni hanno a
che fare con un futuro strategico positivo che riveli una nuova possibilità
rimasta fino ad allora oscurata dalla propaganda del nemico. È per questo
motivo che l’esistenza di movimenti popolari di massa non fornisce di per sé
alcuna visione politica. Ciò che tiene insieme un movimento sulla base di
sentimenti individuali è sempre un elemento negativo: quella cosa che procede a
partire da negazioni astratte –come “basta capitalismo”, o “basta
licenziamenti”, o “no all’austerità”, o “abbasso la troika europea” – che hanno
solo l’effetto di saldare il movimento con la fragilità dei suoi sentimenti.
Anche in forme di negazione più specifica, il cui obiettivo è preciso e che
coalizzano diversi strati popolari, come “basta Mubarak” durante la primavera
araba, esse possono produrre un risultato ma non possono mai costruire la
politica di quel risultato.
Ogni politica diventa l’irreggimentazione di ciò che afferma
e propone, non di ciò che nega e rifiuta. Una politica è una convinzione attiva
e organizzata, un pensiero in azione che indica possibilità nascoste. Motti
come “resistenza!” sono certamente auspicabili al fine di mettere insieme le
persone, ma rischiano anche di trasformare questa assemblea in nulla più che un
misto gioioso ed entusiasta di esistenza storica e fragilità politica, per poi
diventare, una volta che il nemico (che è politicamente, discorsivamente e
governamentalmente meglio attrezzato) ha la meglio, un amaro doppione e una
ripetizione di un fallimento.
Non è nel contagio di un sentimento negativo di resistenza
che troveremo ciò che serve per produrre una seria ritirata delle forze
reazionarie che cercano oggi di disintegrare qualsiasi forma di pensiero e
azione che rifiuti di assecondarle; ma nella disciplina condivisa di un’idea
comune e nell’utilizzo diffuso di un linguaggio omogeneo.
La ricostruzione di questo linguaggio è un imperativo
fondamentale. È con questo fine che ho cercato di reintrodurre, ridefinire e
riorganizzare tutto ciò che dipende dalla parola “comunismo”. La parola “comunismo”
denota tre cose fondamentali. In primo luogo, essa denota l’osservazione
analitica secondo cui, nelle società dominanti contemporanee, la libertà, la
cui feticizzazione democratica è nota a tutti noi, è, di fatto, interamente
dominata dalla proprietà. La “libertà” non è altro che la libertà di acquistare
ogni bene possibile senza alcun limite prestabilito, e il potere di fare “ciò
che si vuole” si misura direttamente dalle dimensioni di questo acquisto. Chi
ha perso ogni possibilità di acquistare qualcosa non ha, di fatto, alcuna
libertà, come i “vagabondi” che gli inglesi liberali del capitalismo emergente
condannarono a morte e impiccarono, senza scrupoli. Per questa ragione Marx,
nel Manifesto, dichiara che tutte le ingiunzioni del comunismo possono, in un
certo senso, essere ridotte a una: l’abolizione della proprietà privata.
Inoltre, “comunismo” significa l’ipotesi storica secondo cui
non è necessario che la libertà sia governata dalla proprietà, e che le società
umane siano dirette da una ristretta oligarchia di potenti uomini d’affari e
dai loro servi politici, la polizia, l’esercito e i media. È possibile una
società in cui ciò che Marx chiama “libera associazione” predomini; in cui il
lavoro produttivo sia collettivizzato; in cui abbia inizio la dissoluzione
delle grandi contraddizioni non-egualitarie (tra lavoro intellettuale e
manuale, tra città e campagna, tra uomini e donne, tra amministrazione e
lavoro, etc…); e in cui le decisioni che concernono tutti siano davvero un
affare di tutti. Dovremmo trattare questa possibilità egualitaria come un
principio di pensiero e di azione, e non abbandonarlo.
Per finire, “comunismo” designa il bisogno di
un’organizzazione politica internazionale. Esso cerca di mettere in moto le
capacità delle persone e di costruire, in contrasto con lo stato di cose
esistente, un potere interno a ogni situazione data. Per questo potere
l’obiettivo è di essere in grado di piegare il reale nella direzione prescritta
tenendo insieme i principi e la soggettività attiva di tutti coloro che
intendono trasformare la situazione in questione.
English | PDF |
http://www.lavoroculturale.org/ |