“Tres pasiones, simples, pero abrumadoramente intensas, han gobernado mi vida: el ansia de amor, la búsqueda del conocimiento y una insoportable piedad por los sufrimientos de la humanidad. Estas tres pasiones, como grandes vendavales, me han llevado de acá para allá, por una ruta cambiante, sobre un profundo océano de angustia, hasta el borde mismo de la desesperación” — Bertrand Russell

6/11/13

Le superstizioni comunarde di Toni Negri

Sebastiano Isaia  |  Kautsky immaginava il socialismo alla stregua di un Capitalismo conquistato alla razionalità scientifica. Negri lo immagina come Capitalismo conquistato alla prassi del “comune”: almeno certe sue riflessioni “comunarde” mi inducono a pensare questo. Un esempio: «Confrontandosi poi al paradosso della proprietà, qui non sembrano darsi altre vie che quelle che spingono al confronto ed allo scontro con i poteri monetari e finanziari. Se la moneta è mezzo di conto e di scambio difficilmente eliminabile, gli va tuttavia tolta la possibilità di essere strumento di accumulazione di potere contro i produttori. Come si possono imporre alla Banca centrale le finalità di una produzione dell’uomo per l’uomo, di piegarsi cioè ad una configurazione biopolitica degli assetti sociali?» (1). Ragionando dalpunto di vista umano, ossia osservando il mondo asservito ai rapporti sociali capitalistici «dalla prospettiva che lascia intravedere, nel bel mezzo del Dominio, la possibilità della liberazione universale», come recita la manchette del mio blog, la risposta non può che
essere univoca: la configurazione umana degli assetti sociali può darsi solo nella Comunità che non conosce il denaro, la merce (a partire dalla forza-lavoro), il mercato e tutte le altre categorie dell’economie politica che presuppongono la società capitalistica.  Ma questo è, secondo gli standard postmoderni dell’intellettuale padovano, un modo vecchio di ragionare, forse valido ai tempi del trincatore di Treviri, quando il “Comune” poteva essere immaginato solo nei termini di una possibilità post-rivoluzionaria, ossia come radicale cesura di un’intera epoca storica, mentre oggi esso si dà già come una concreta realtà, che per dispiegarsi completamente aspetta solo di venir liberata dalla sovrastruttura ideologica del Dominio.

In realtà egli polemizza non con la posizione anacronistica che ho appena sinteticamente abbozzato, la quale agli occhi dei comunardi non merita di venir presa neanche in considerazione, ma con i suoi amici progressisti: «Il problema non è tanto quello di separare le “banche di deposito” da quelle “di investimento” [roba d’altri tempi anche questa: e qui il nostro amico ha ragione da vendere], quanto quello di dirigere risparmio ed investimento verso equilibri che garantiscano la produzione dell’uomo per l’uomo [e qui, invece, impugno la pistola. Anzi no: mi piego dalle risate!]. Questa è battaglia politica da ingaggiare subito. Essa consiste – questa volta senza resipiscenze ideologiche e senza indugi – nel rifiutare la governance monetaria del biopotere, cioè nell’introdurre la possibilità di una rottura e nell’imporle una dimensione “democratica”. Una “moneta del comune” è quella che garantisce la riproduzione e la quantità di reddito necessario ad ogni cittadino ed il sostegno alle forme di cooperazione che costituiscono la moltitudine». Prendi le categorie dell’economia politica, appiccicagli la parola magica “comune” e il gioco è fatto! Ecco allora che anche la «domanda di proprietà privata del singolo cittadino», il «desiderio proprietario che esprimiamo», tutto ciò non fa «che interpretare il bisogno di stare insieme, di produrre insieme»: «il paradosso della proprietà privata si scontra qui allora con la realtà del comune». Come se ne esce? «Il paradosso sarà superabile solo eliminando il capitalista». Il capitalista o il rapporto sociale capitalistico? Lo riconosco Professore: più che una domanda questa è una provocazione alla sua intelligenza rivoluzionaria. E tuttavia… Anche perché quando sento parlare di «democratizzazione a partire dal basso delle attività di governo e di nuove costituzioni del vivere comune» qualche dubbio bussa alla mia testa. E con una certa insistenza.

In ogni caso, Negri pensa, esattamente come Kautsky, che il capitalismo è sempre più «una sopravvivenza puramente ideologica». Ecco, ad esempio, come Negri si esprime intorno alla lotta «biopolitica» condotta dal «proletariato cognitivo» contro la proprietà privata contemporanea: «Sarà nostro compito avanzare su questo terreno sociale per portare a chiarezza lo svuotamento definitivo dei poteri legati alla proprietà privata». Infatti, «Possiamo ora riconoscere al lavoro, trasformato attraverso il lavoro, di essere divenuto il fondamento non dell’affermazione della proprietà privata ma della sua soppressione, di aver tolto a quest’ultima la capacità di essere fonte creativa di se stessa». La proprietà privata non avrebbe più alcuna consistenza oggettiva, alcun reale fondamento economico, perché l’emergere della «realtà del comune» avrebbe modificato strutturalmente il rapporto tra proprietà e lavoro, naturalmente a tutto vantaggio del secondo. Essa vivrebbe in una condizione puramente residuale, addirittura artificiale. Ne consegue che la stessa dimensione della sovranità politica appare viepiù, sempre agli occhi del nostro teorico, come una mera finzione ideologica chiamata a surrogare un potere sociale sempre più evanescente. «Il pubblico sovrano si pone ormai solo in maniera paradossale e piuttosto si dissolve a fronte del comune che emerge, appunto, all’interno dei processi di produzione sociale e nella cooperazione valorizzante. Quando ancora compare, il pubblico sovrano, si tratta di una pura mistificazione del comune». Qui Negri sembra dire che oggi la sola concreta realtà, la sola dimensione sociale avente una dignità ontologica è il «comune»: tutto il resto è ideologia.

Il dominio di classe della borghesia, dunque, non si fonderebbe più su una reale potenza sociale che si sostanzia essenzialmente in termini economici (generazione di valore attraverso lo sfruttamento di capacità lavorative), esso si fonda piuttosto in maniera quasi esclusiva sul dominio politico. Solo rapporti di forza «biopolitici» favorevoli, al momento, alla borghesia ne garantirebbero il dominio. Scusate, ma ancora una volta la mia mente mi riporta al sacerdote supremo dell’ortodossia marxista di inizio Novecento. Perché mai, poi…

Per Kautsky, nella fase del capitalismo monopolistico «il rapporto di lavoro si trasforma sempre di più da necessità economica in un semplice rapporto di forza, tenuto in piedi dal potere dello stato … diventa una mera questione di potere» (2). Alla classe operaia non rimane che organizzarsi ed educarsi in vista dell’inevitabile e sempre più imminente crollo del gigante dai piedi d’argilla. Come scrive Vitantonio Gioia, «alla fine Kautsky smarrisce completamente la connotazione del capitalismo monopolistico come “fase” di un sistema economico particolare, storicamente caratterizzato da uno specifico tipo di sfruttamento della forza-lavoro e di estorsione del plusvalore qual è, appunto, il sistema capitalistico. E questo perché egli per un verso caratterizza come economia capitalistica propriamente detta solo quella fase dello sviluppo capitalistico caratterizzata dalla proprietà privata e personale degli strumenti di produzione [ogni riferimento alla proprietà privata evocata da Negri è ovviamente voluto]; per un altro verso tenta di dimostrare che ormai, nella fase monopolistica, la subordinazione della forza lavoro al capitale non ha più alcun fondamento oggettivo (economico), bensì politico: sono i rapporti di forza ancora favorevoli alla borghesia che giustificano la persistenza dei rapporti sociali borghesi e la sopravvivenza dello stesso sistema economico del capitalismo» (3).

Detto en passant e sempre con un maligno riferimento a Negri (naturalmente mutatis mutandis), anch’io, come Gioia, non condivido la tesi del tradimento dei principi rivoluzionari da parte del «rinnegato Kautsky», nella cui tarda riflessione teorica si riesce a cogliere la radicale continuità con il suo precedente pensiero, continuità che a mio giudizio va rintracciata in un materialismo di matrice borghese, ossia determinista, meccanicista, positivista, scientista, evoluzionista. Ma qui rischio di andare fuori tema.

Negri, come Kautsky, sembra assumere il paradigma della rivoluzione borghese: come la borghesia rivoluzionaria, avendo di fatto già nelle proprie mani il potere materiale, avviò una rivoluzione politica idonea a sincronizzare l’economico con il politico, ossia ad adeguare la «sovrastruttura» con la «struttura», analogamente oggi si tratterebbe per la «moltitudine» di ratificare sul piano politico un dato di fatto che il «biopotere» può solo occultare, ma non cancellare. Infatti, «c’è anche (e comincia a divenire potente nelle coscienze) una figura “buona” del comune che si manifesta come desiderio di cooperazione moltitudinaria delle singolarità impiegate nel processo produttivo». Il futuro è già presente, e scava dall’interno la struttura (ideologica?) del Capitale, il quale appare sempre più simile a un sepolcro imbiancato, o a quelle statue di gesso che all’interno sono cave: il nulla sotto l’ideologia del potere.

Com’è noto, per Negri il processo di valorizzazione del capitale non si dà più in forma esclusiva dentro la sfera della produzione industriale (agricoltura inclusa, ovviamente), bensì anche e soprattutto nella sfera che genericamente possiamo chiamare dei servizi: da quelli finanziari a quelli afferenti alle «pratiche di cura», passando naturalmente attraverso la grande prateria dei servizi non finanziari basati sulla tecnologia informatica. «Ora, quando i beni (privati) si presentano come servizi, quando la produzione capitalistica si valorizza essenzialmente attraverso i servizi, la proprietà privata sfuma le sue tradizionali caratteristiche di “possesso” e si rappresenta piuttosto come comando sulla (e/o sfruttamento della) cooperazione che costituisce e rende produttivi i servizi». Ma qui cosa si intende per «produzione capitalistica»: la produzione di beni materiali, oppure la produzione – soprattutto – di servizi? Non mi è chiaro. Formulo perfino l’ipotesi che nel primo caso Negri possa confondere la valorizzazione con la realizzazione, la produzione di valore e plusvalore nelle imprese industriali con la sua realizzazione in denaro nel mercato. Possibile? Onestamente non credo.

Sia come sia, a mio avviso i «processi lavorativi che non hanno la fabbrica come centro della produzione di valore», come scrive Benedetto Vecchi recensendo sul Manifesto il libro di David Harvey Città ribelli, sono processi che, molto semplicemente, non producono plusvalore basico o primario, ossia plusvalore nell’accezione marxiana del concetto (4), e in quanto tali essi possono venir ricondotti alla sfera della circolazione del valore, non a quella della sua produzione. Produrre plusvalore e intercettarlo, sottoforma di profitto e di rendita, attraverso gli strumenti sempre più sofisticati e globalizzati della prassi economica capitalistica (servizi commerciali, servizi finanziari, servizi di cura, servizi ricreativi ecc. ecc.) sono due momenti affatto diversi, anche se non separabili ed anzi intimamente connessi, del processo economico che produce e mette in circolazione la ricchezza sociale nella sua forma capitalistica. A mio modesto avviso ultimamente si fa una gran confusione con i concetti marxiani elaborati come critica dell’economia politica. Molti usano la terminologia marxiana per esprimere concetti che sono più affini all’economia politica, a quella classica e – soprattutto – a quella volgare e financo triviale, che alla critica che ne fece Marx. Come sempre l’ambiguità teorica non può non avere una puntuale ricaduta nella prassi dei soggetti politici. Ad esempio, sempre Vecchi allude, nella recensione menzionata, a «Conflitti che vedono protagonisti precari e lavoratori informali, cioè quel precariato che la controrivoluzione neoliberista ha reso forma dominante nei rapporti tra capitale e lavoro» (5). A parte ogni altra considerazione sui «nuovi soggetti sociali» protagonisti dell’antagonismo sociale, la «controrivoluzione neoliberista» denunciata postula per il passato una «rivoluzione» che mi sono perso? Si allude forse ai «formidabili» e per gli operaisti perfino mitici anni Sessanta e Settanta del secolo scorso?

Scrive Negri: «Sapere e reddito sono obbiettivi che qualificano in maniera fondamentale il proletariato cognitivo – sono dall’inizio obbiettivi “politici” tanto quanto lo era l’aumento salariale per il lavoratore industriale». “La lotta contro la riduzione del salario relativo [e cioè oggi, per un reddito sociale] significa anche lotta contro il carattere di merce della forza-lavoro, cioè contro la produzione capitalistica presa nel suo insieme. La lotta contro la caduta del salario relativo non è più una battaglia sul terreno dell’economia mercantile ma un attacco rivoluzionario alle fondamenta di questa economia; è il movimento socialista del proletariato” (Rosa Luxemburg)». Sul reddito sociale, che bene sintetizza la concezione comunarda della «Vita come plusvalore» (Melinda Cooper), mi viene in soccorso Gianfranco Pala:
«Il carattere sociale del salario non deve assolutamente essere frainteso. Vi sono difatti molti, oggigiorno, che sull’onda delle mode riproduttive e fuori mercato, intendono con codesto tipo di dizioni forme spurie di “salario o reddito garantito” dallo stato, mediante prestazioni più o meno accessorie fornite a lavoratori e disoccupati, donne e giovani, cittadini e utenti. Una tal commistione di categorie – e meglio anzi sarebbe dire una tale lista di attributi tra loro incongruenti – conduce a un pasticcio di rapporti di forza, di lotta e di diritti, di assistenzialismo e di elemosina. L’essere sociale del salario è invece unicamente conse­guenza dell’essere merce della forza-lavoro entro il rapporto di capitalepo­sto da questo modo della produzione sociale. Dunque, esso è tutto interno allacontraddizione della merce stessa, proprio nel luogo più specifico della riproduzione del capitale. Ovverosia il luogo e il motivo per cui il denaro si trasforma in capitale, l’esistenza e l’individuazione di quella merce peculiare – la forza-lavoro, appunto – che sola è in grado di produrre più del proprio valore. Ma qui, nelle società in cui predomina il modo di produzione capita­listico, di produrlo per altri: una classe per un’altra classe. Più “sociale” di così non può essere […] La confusione sul salario sociale offre l’occasione di un chiarimento immediato anche a proposito del significato ultimo di stato sociale (ovvero stato assistenziale o del “benessere”, welfare state). Le provvidenze messe in atto attraverso il suo apparato altro non sono che una risposta, parziale e ridotta, che il capitale dà, per il tramite del suo stato, rispetto al riconosci­mento pieno del salario sociale della classe lavoratrice […] Perciò, quanto appare al senso comune come “stato sociale” è per l’appunto la limitazione che il capitale, dal suo peculiare punto di vista, impone alla rivendicazione di quel sa­lario sociale che rispecchia, invece, il punto di vista della classe lavoratrice. Altresì è ovvio che la “conquista” dello stato sociale assuma la parvenza di una vittoria del proletariato, proprio perché esso è il punto di mediazione del conflitto economico e sociale cui accede lo stato stesso, in nome del capita­le, allorché la lotta di classe si faccia più aspra e le condizioni economiche permettano simili parziali concessioni in cambio di armonia sociale e stabili­tà politica. Si tratta quindi di una risposta politica consensuale, dunque ideo­logica, all’antagonismo di classe, per indurre l’armonia neocorporativa di contro alla conflittualità» (6).
Sul significato teorico e politico del «reddito sociale» mi riservo di ritornare con un post dedicato interamente a questo tema assai dibattuto nei movimenti antagonisti europei.

Ancora Negri:  
«A questo punto c’è da chiedersi se il concetto di proprietà privata abbia ancora ontologicamente senso. In realtà, il rapporto tra lavoro e proprietà sembra ormai costituito, nella società a rete, quando le mura della fabbrica cedono, quando il lavoro si raffigura tendenzialmente come relazione di servizio e le connessioni produttive si distendono nella metropoli, quando il valore è astratto dall’intero livello produttivo-sociale – bene, la proprietà privata sembra essere divenuta concetto contingente, privo di necessità: sono infatti la moneta, quindi il capitale finanziario e l’azione pubblica, che sembrano qui stabilire ogni rapporto fra lavoro e comando». Per Marx la forma peculiare, storicamente determinata, della proprietà – considerata in tutte le sue diverse configurazioni giuridiche: privata, pubblica, mista ecc.) – (7) si radica nell’appropriazione di tempo di lavoro altrui. A ben vedere, nel Capitalismo ogni cosa appare, ed è, una questione di tempo. Certamente: il tempo capitalistico come maledizione del Dominio, la cui sopravvivenza non ha insuperabili limiti fisici (economico-sociali: vedi alle voci sottoconsumo e anarchia della produzione, e/o geoeconomici: vedi alla voce saturazione mondiale dei mercati), come credevano i crollisti cresciuti alla scuola della Seconda Internazionale (compresa la Luxemburg dell’Accumulazione del capitale critica di Marx), proprio perché il Capitalismo si fonda sull’immaterialità del tempo di lavoro, perfetta metafora del rapporto sociale vigente nella nostra epoca storica: così impalpabile eppure così straordinariamente concreto e potente.
In fondo, anche l’intellettuale padovano può essere collocato nel filone di quel determinismo economico che ha voluto fissare una scadenza fisica (economica) al Capitalismo, il quale sarebbe già morto, o comunque vivrebbe in una condizione di irreversibile agonia, di modo che tutta la sua attuale prassi (compresa quella imperialistica) non sarebbe un segno della sua «mostruosa vitalità» (Marx), quanto piuttosto un inequivocabile segno della sua irreversibile discesa agli inferi. Scriveva Gioia sempre a proposito di Kautsky: «Il capitalismo sembrerebbe, secondo questa logica, sopravvivere alla decadenza del suo sistema economico solo a causa dell’inerzia delle cose, della storia e della pervicace volontà dei capitalisti di difendere i privilegi acquisiti» (8). Una freccia critica che sembra poter colpire anche il nostro amico comunardo.

Insomma, Negri può pensare di essere andato oltre Marx semplicemente perché si è costruito un Marx immaginario rimasto impigliato nella «società mercantile semplice», ossia nelle forme di dominio capitalistico tipiche dell’epoca di Smith e di Ricardo, e non si spiega altrimenti il suo continuo ritornare sulla dimensione sociale del Capitale odierno, come se questa dimensione (a partire dalla tanto enfatizzata cooperazione sociale che, secondo Marx, coinvolge l’intero spazio sociale, e non si arresta alle porte delle fabbriche) non costituisse il punto di partenza della critica marxiana dell’economia politica classica. Il carattere sociale, in un’accezione che i precedenti modi di produzione non avevano mai avuto, del Capitalismo fonda tutta la marxiana teoria del valore, che è poi una teoria dello sfruttamento della capacità lavorativa da parte del Capitale pensato sempre come potenza sociale – concetto che io mi permetto di sintetizzare scrivendo Capitale (e Capitalismo) con la c maiuscola. A questo punto mi permetto una breve digressione, che tuttavia non si allontana di un millimetro dal tema in oggetto.

Chi non conosce le opere “economiche” (notare le virgolette!) di Marx trova quantomeno singolare l’uso dell’aggettivo sociale attribuito al Capitalismo da parte dei “marxisti”. Il più delle volte l’equivoco sorge sulla scorta di una lettura in chiave etica di quell’aggettivo: la socialità come socievolezza, come apertura al «prossimo», contrapposta all’antisocialitàdi chi si vuole isolare dal e nel mondo, e nega alla vita in comune valori etici intrinseci.

Diversi “marxisti”, poi, qualificano come sociale solo il Capitalismo di Stato, peraltro da essi scambiato proprio come Socialismo, sebbene «reale». Essi prendono sul serio quanto ebbe a dire una volta Margaret Thatcher: «la società non esiste», e così contrappongono il Capitalismo (o «socialismo») di Stato, pregno, a loro dire, di autentici e condivisibili contenuti sociali, al Capitalismo liberista, fondato sulla libera, e persino «selvaggia», iniziativa privata tetragono a quei contenuti.

Tuttavia, per Marx la natura sociale del Capitalismo non ha nulla a che vedere con la fenomenologia della proprietà capitalistica – «pubblica» piuttosto che «privata» o di altro tipo. Egli qualificò l’economia capitalistica come la prima vera economia sociale della storia perché essa trasforma di fatto i singoli processi produttivi e i singoli atti economici in genere in processi e atti oggettivamente sociali, il più delle volte alle spalle dei singoli attori economici. L’astuzia della ragione (storica ed economica) di Hegel e di Smith forse allude in qualche modo alla dialettica del processo sociale capitalistico svelata da Marx. Anche il concetto di «eterogenesi dei fini» ha un suo reale sostrato materiale.

Il carattere sociale del Capitalismo trova la sua massima e più adeguata espressione neldenaro, il cui regno di elezione è la sfera della circolazione, è il mercato: delle merci, dei capitali e del lavoro, il quale è poi una merce, sebbene assai speciale in quanto fonte del valore – di scambio.

Nonostante il processo di valorizzazione capitalistica abbia luogo nella sfera della produzione, è tuttavia nel mercato che esso manifesta concretamente la sua natura sociale. Infatti, è nel mercato che convergono tutte le azioni individuali volte a generare valore e plusvalore; è in esso che si compie quella trasformazione dei valori in prezzi di produzione, basata sulla determinazione del saggio generale (media sociale) del profitto, così importante ai fini della comprensione della reale dinamica del processo capitalistico di produzione colto nella sua totalità. Nel mercato il valore individuale di una merce prodotta da una specifica e singolare impresa deve confrontarsi con il valore dello stesso tipo di merci ma prodotte da altre imprese, la cui composizione organica di capitale, ossia il rapporto tra il capitale investito in mezzi di produzione e materie prime e quello investito in capacità lavorativa, è diversa nelle differenti imprese della stessa branca industriale. «Capitali di grandezza uguale producono merci di valore uguale, se il rapporto fra i loro organici è il medesimo, se investono porzioni di eguale grandezza in salario e in mezzi di produzione … Capitali di eguale grandezza producono al contrario merci di valore molto ineguale quando la loro composizione organica è differente, specialmente se la parte esistente come capitale fisso è proporzionalmente molto diversa dalla parte investita in salario» (9). Ma capitali di eguale grandezza aspirano naturalmente a profitti eguali, e perché ciò sia possibile «bisogna che i prezzi delle merci, in quanto determinati dal saggio generale del profitto, siano molto differenti dai valori delle merci». È precisamente la concorrenza che realizza nel mercato «questo saggio generale di profitto», il quale «non è in generale altro che la perequazione dei differenti saggi di plusvalore nelle differenti merci prodotte da capitali eguali» (ivi, p. 51).

Il denaro può funzionare come valore di scambio universale proprio perché presuppone ed esprime il carattere sociale del lavoro, visto però non dal lato del valore d’uso (la tecnologia e le materie prime che arrivano da diverse parti del mondo), ma da quello del valore di scambio (la composizione organica del capitale), il quale rappresenta il marchio di fabbrica, è proprio il caso di dirlo, della vigente epoca storica. Il denaro è, al contempo e attraverso una dialettica che, almeno prima facie, ha del paradossale, la forma più lontana e più vicina al lavoro considerato nella sua dimensione sociale, peraltro la sola dimensione a esso adeguata. Nel denaro scompare l’essenza sociale della ricchezza capitalistica: lo sfruttamento del lavoro nel vivo processo produttivo; eppure esso può essere nella moderna società borghese ciò che in effetti è, ossia equivalente universale di tutte le merci, solo in grazia della natura sociale del lavoro come sostanza del valore, mentre il tempo di lavoro ne è la misura. Il denaro creditizio, che ha storicamente e attualmente il suo presupposto nella produzione capitalistica di valore, va visto come la confluenza di un numero straordinariamente enorme di attività che hanno luogo nelle diverse sfere dell’economia alla scala mondiale, e sotto questo riguardo il suo mercato è reale almeno quanto lo è la cosiddetta «economia reale» che piace tanto ai nemici della «finanziarizzazione» dell’economia, i quali subiscono il feticismo del denaro di cui parlava l’esorcista di Treviri.

Chiudo la digressione, con la quale ho inteso dire che senza la fondamentale acquisizione circa la natura sociale del Capitalismo Marx non avrebbe potuto sviluppare il concetto di lavoro astratto che gli ha consentito di comprendere pienamente 1. «il doppio carattere del lavoro a seconda che esso si esprima in valore di scambio o in valore d’uso», e 2. la natura «del plusvalore indipendentemente dalle sue forme particolari quali il profitto, l’interesse, la rendita fondiaria, ecc.». Nella lettera a Engels del 24 agosto 1867 Marx confessa di ritenere quegli acquisti teorici «il meglio nel mio libro», soprattutto in riferimento al doppio carattere del lavoro, perché «su di ciò riposa tutta la comprensione dei facts» (10).

Cristina Corradi ha dato, a mio avviso, un’eccellente sintesi del pensiero negriano:
«Facendo riferimento al Capitolo VI inedito del I libro del Capitale, Negri interpreta il nesso tra la fabbrica e la società in chiave di estensione della cooperazione produttiva, di formazione di un lavoratore collettivo che fa venire meno la distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Quando il comando d’impresa si estende alla società e il lavoro produttivo si identifica con il lavoro salariato, sorge la fabbrica diffusa ed emerge la figura dell’operaio sociale: in reazione alla caduta del saggio di profitto, il capitale è costretto a diffondere il processo di valorizzazione alla società, ma la ristrutturazione non può ristabilire margini di profitto perché la diffusione del comando di impresa è anticipata dall’estensione dei comportamenti antagonisti dell’operaio-massa […] Con l’estensione della relazione salariale a tutta la società, la produzione in generale non coincide più con il processo di produzione immediato e viene meno la contrapposizione tra la fabbrica e la società: la società non è più il luogo della passività e della disgregazione, ma diventa il terreno privilegiato del conflitto […] La diffusione della cooperazione produttiva e l’emergenza dell’operaio sociale realizzano, secondo Negri, la tendenza verso la caduta storica della barriera del valore, anticipata da Marx nel Frammento sulle macchine. Nel testo dei Grundrisse Marx metterebbe in crisi la legge classica del valore e svolgerebbe fino in fondo la critica dell’economia politica: l’integrale socializzazione del lavoro provoca la crisi dei rapporti di scambio perché il lavoro singolo non esiste più e il denaro, che non può misurare la forza sociale del lavoro combinato, diventa funzione della riproduzione del rapporto di lavoro salariato […] Per sottolineare che l’autovalorizzazione operaia è esplosione dell’antagonismo, rottura radicale con la totalità dello sviluppo capitalistico, Negri scardina l’impianto dialettico delle categorie marxiane» (11).
In realtà Negri «scardina» innanzitutto la reale dialettica del processo sociale capitalistico, il quale evidentemente non si accorda con il suo noto, quanto del tutto infondato (ideologico) ottimismo della rivoluzione. Le infondate (tanto per ciò che concerne i riferimenti a Marx, quanto, soprattutto, per ciò che riguarda la realtà) teorizzazioni negriane intorno al general intellect mi fanno pensare a quanto disse una volta Marx: «Non sono mai i pensatori originali a trarre le conseguenze assurde. Essi le lasciano ai Say e ai MacCulloch». O ai Toni Negri, sempre cambiando quel che c’è da cambiare – tanto, per la verità.

«Questo termine inglese unico eppure così abusato nell’erudizione marxologica», scrive Pala (La muta intelligenza) a proposito del general intellect. Non solo abusato ma del tutto travisato, come testimonia la riflessione negriana che segue: «Il terzo paradosso è quello che il biocapitale verifica nel suo confronto con i corpi dei lavoratori. Qui lo scontro, la contraddizione, l’antagonismo si fissano quando il capitale (nella fase postindustriale, nell’epoca in cui diviene egemone il capitale cognitivo) deve mettere direttamente in produzione i corpi umani facendoli diventare macchine, non più semplicemente merce-lavoro. Così (nei nuovi processi di produzione) sempre più efficacemente i corpi si specializzano e conquistano autonomia sicché, attraverso la resistenza e le lotte della forza-lavoro macchinica, si sviluppa sempre più espressamente la richiesta di una produzione dell’uomo per l’uomo, cioè per la macchina vivente “uomo”». L’individuo capitalistico ad alta composizione organica dei nostri tempi è qui completamente travisato, e la sua realtà del tutto rovesciata.

Così scrivevo su un post del 13 agosto 2013: «Come ho scritto altrove, il general intellectè in radice l’intelligenza del Capitale. È vero che, come scrive Marx, “Nella sua nuova forma il capitale s’incorpora gratis il progresso sociale compiuto mentre agiva la sua vecchia forma”, ma esso può farlo perché “Scienza e tecnica costituiscono una potenza dell’espansione del capitale” (Il Capitale, I). Lo sviluppo capitalistico promuove sempre di nuovo l’espansione del “cervello sociale” (scuola, università, agenzie formative, pubbliche e private, di vario genere, relazioni sociali mediate tecnologicamente e via di seguito), e questo a sua volta accresce direttamente e indirettamente la potenza sociale del Capitale, il quale sa come mettere a profitto lo sviluppo complessivo della sua società. Solo il rovesciamento rivoluzionario del Dominio può rendere possibile il pieno dispiegamento delle tendenze emancipatrici di cui è gravida, e non da oggi, la società borghese».
«Scrive Slavoj Žižek: “Poiché ha trascurato la dimensione sociale dell’’intelletto generale’, Marx mancò di immaginare la possibilità della privatizzazione dell’’intel­letto generale’ stesso – e questo è ciò che sta al cuore della battaglia intorno alla “proprietà intellettuale”. Negri ha ragio­ne su questo punto” (12).  Ora, chiunque abbia una seppur superficiale dimestichezza con gli scritti “economici” marxiani sa bene come il critico di Treviri non solo non ha mai mancato di mettere in luce la dimensione sociale del general intellect, ma come tale concetto avesse per lui un significato solo all’interno di quella dimensione. Non si ripeterà mai abbastanza che il punto di vista di Marx è eminentemente sociale emondiale perché sociale e mondiale è la dimensione del Capitale, già nella sua genesi storica».
«La profit­tabilità (ciò che Žižek chiama, un po’ volgarmente, “privatiz­zazione”) dell’intero universo è il respiro economico-sociale immanente al concetto di Capitale, e Marx questo lo ha capito benissimo e ne ha scritto continuamente. Certo, non ha parla­to della “battaglia intorno alla proprietà intellettuale”, e que­sto, occorre riconoscerlo, è una grave mancanza teorica… Può valere come attenuante per il barbuto di Treviri il fatto che ai suoi tempi il web e le tecnologie “intelligenti” che lo hanno reso possibile non fossero stati ancora inventati? La questione rimane aperta. Intanto ci tocca leggere perle ideologiche di questo tipo: “Il capitale non solo è di­venuto dipendente dal sapere dei salariati, ma deve ottenere una mobilitazione ed una implicazione attiva dell’insieme del­le conoscenze e dei tempi di vita dei salariati”. Un capolavoro di pseudo dialettica hegeliana, non c’è che dire. Il servo, in virtù della sua prassi ricca di esperienze e di conoscenze acquisite attraverso la concreta trasformazione della natura, attraverso il lavoro, riesce in qualche modo ad avere la meglio, almeno sul piano etico, sul suo padrone, incapace di vera soggettività edipendente dal servo per ciò che riguarda la sua stessa esi­stenza quotidiana. Ma ovviamente le cose stanno esattamente al contrario, perché soprattutto nel “Capitalismo cognitivo” il soggetto della prassi economica è il Capitale, mentre i sa­lariati ne sono gli oggetti, e tanto più essi credono di poter dettare le regole al primo, quanto più testimoniano la loro reale impotenza sociale. Sul terreno del general intellect il “velo tecnologico” gioca davvero brutti scherzi, e anche le menti più fervide fanno fatica a capire che “La razionalità tecnica di oggi non è altro che la razionalità del dominio”» (13).
Per quanto possa apparire vetusta e oziosa ai teorici del cosiddetto Capitalismo post-industriale nonché rigorosamente cognitivo, la marxiana distinzione tra lavoro produttivo elavoro improduttivo rimane un’ottima bussola per orientarsi all’interno della complessa prassi sociale capitalistica. E questo la dice lunga non tanto sui meriti di Marx quanto soprattutto sui – presunti – acquisti teorici dei comunardi, i quali ricercano una concretezza “rivoluzionaria” che si fa di anno in anno per un verso sempre più irrealistica, e in ciò essa condivide lo stesso destino di molte ricette vetero e post-keynesiane; e per altro verso sempre più spendibile sul terreno del Dominio sociale che, a chiacchiere più o meno intellettualistiche e salottiere, si dice di voler annientare. 

«Non si fanno rivolte per prendere il potere ma per tenere sempre aperto un processo di contropoteri, sfidando i dispositivi di cattura sempre nuovi che la macchina capitalista produce. È su questo terreno che la rappresentanza sovrana va in crisi perché (attratta nel meccanismo della sovranità, distillata nella puzzolente e magica alchimia elettorale) non regge il confronto con la verità e la ricchezza della nuova composizione sociale». Detto che la rivoluzione sociale anticapitalistica non è una rivolta, che il potere non «si prende» (semmai si abbatte), ma lo si costruisce attraverso la prassi rivoluzionaria che annienta il potere politico della classe dominante, e che anch’io ho in odio la «puzzolente e magica alchimia elettorale»; detto questo, non posso esimermi dal dire che i passi negriani appena citati mi puzzano maledettamente di decrepito riformismo piccolo-borghese.

Negri può verificare «ancora una volta la potenza della sua [di Marx] intelligenza rivoluzionaria» solo dopo averne travisato completamente il pensiero allo scopo di mettere in luce la sua (di Negri) intelligenza comunarda, la quale gli avrebbe permesso di penetrare l’essenza della Società-Mondo del XXI secolo. Sempre a chiacchiere, beninteso. «A me sembra», conclude l’intellettuale padovano, «che le conclusioni alle quali arrivo, possano essere (facilmente) tradotte in quelle alle quali arriva Rodotà». Appunto. Ovvero:come volevasi dimostrare. 

Note

(1) T. Negri, Lavoro e proprietà a fronte del comune, Euronomade.
(2) K. Kautsky, La via al potere, pp. 37-38, Laterza, 1974.
(3) V. Gioia, Sviluppo e crisi nel capitalismo monopolistico, p. 189, Dedalo, 1981.
(4) Sulla distinzione tra plusvalore primario o basico e plusvalore secondario o derivato, che ha come presupposto concettuale la marxiana distinzione tra lavoro immediatamente produttivo di plusvalore e lavoro che genera generico profitto (ossia un generico plus di valore rispetto al capitale investito), rinvio al mio studio Dacci oggi il nostro pane quotidiano, il cui PDF è scaricabile dal blog.
(5) B. Vecchi, La Comune delle metropoli, Il Manifesto, 12 settembre 2013.
(6) G. Pala, Zibaldone del tempo di lavoro, pp. 23-24, Franco Angeli, 2000.
(7) In un post del 29 luglio 2011 (Miseria del comune) scrivevo: «La mia tesi – fuori moda, lo ammetto – è che, invece, non esiste alcun Bene Comune, giacché tutto quello che esiste sotto il vasto cielo della società capitalistica mondiale (o “globale”) appartiene con Diritto – ossia con forza, con violenza – al capitale, privato o pubblico che sia. Il capitale non si appropria arbitrariamente il Comune, non lo “privatizza”, ma estende piuttosto continuamente la sua capacità di trasformare uomini e cose in altrettante occasioni di profitto, e può farlo perché l’intero spazio sociale gli appartiene, è una sua creatura, una sua naturale riserva di caccia. Questa mostruosa vitalità espansiva – in termini quantitativi e, soprattutto, qualitativi – rappresenta il tratto più significativo e “rivoluzionario” del capitalismo.
Il lavoro (quello “materiale” e quello “immateriale”, quello produttivo di “plusvalore” e quello produttivo di solo “profitto” o di sola “rendita”), la scienza, la tecnologia, l’arte, la cultura e la stessa natura hanno, nel nostro tempo, un’essenza necessariamente capitalistica, cioè a dire al contempo essi esprimono e riproducono sempre di nuovo il rapporto sociale dominante in questa epoca storica. È precisamente questo rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che riempie di contenuti una “categoria economica antidiluviana” (Marx) come quella di proprietà (proprietà privata, proprietà statale, proprietà collettiva), e il concetto di Diritto a esso correlato. “La proprietà di capitale presenta la prerogativa di esercitare un comando sul lavoro degli altri” (K. Marx, Il Capitale, III, p. 1172, Newton, 2005): questa è la forma peculiare della proprietà capitalistica, la quale si regge, fondamentalmente, non sul possesso di cose materiali, ma su un rapporto sociale, sul cui fondamento prende corpo la società-mondo che conosciamo.
Per gente abituata ad associare il socialismo allo statalismo, al capitalismo di Stato (la cui forma “sovietica” diventò celebre sotto il giustamente famigerato nome di “socialismo reale”), persino il Comune di Negri può apparire quanto di più “sovversivo” e “radicale” si possa trovare sul mercato delle ideologie, come un “Manifesto del Partito Comunista versione 2.0”, per dirla col prestigioso Wall Street Journal. Nientemeno!».
(8) V. Gioia, Sviluppo e crisi nel capitalismo monopolistico, p. 189.
(9) K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, p. 50, Einaudi, 1955.
(10) Marx-Engels, Lettere sul Capitale, p. 80, Laterza, 1971.
(11) C. Corradi, Panzieri, Tronti, Negri: le diverse eredità dell’operaismo italiano, Consecutio Temporum, 6 maggio 2011.
(12) S. Žižek, First As A Tragedy, Than As A farce, p. 148, Verso, 2009.
(13) M. Horkheimer, T. W. Adorno, L’industria culturale, 1942, in Dialettica dell’illuminismo, p.127, Einaudi, 1997. «Ma questo effetto non si deve ad­debitare a una presunta legge di sviluppo della mera tecnica come tale, ma alla funzione che essa svolge nell’economia» (ivi, p. 128). Il post citato ha come titolo Impiccarsi al “comunismo” di Badiou o al “comune” di Negri? Meglio vivere!
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