Walter Benjamin ✆ Matthew Dear |
“Questo culto è colpevolizzante-indebitante”. Se il debito è
il rapporto sociale che domina e sostituisce ogni altra forma di riconoscimento
intersoggettivo tra gli uomini, esso stabilisce immediatamente anche un nesso
di colpevolezza. Questa
relazione è sottolineata dal termine tedescoSchuld, che significa allo stesso tempo debito e colpa, ed esprime con precisione la morale calvinista del lavoro: chi ha denaro, ed è dunque considerato solvibile, porta in tal modo un segno della Grazia ricevuta, mentre chi resta schiacciato dall’insolvenza e dal fallimento economico mostra di non poter superare lo stato di peccato. “Solvibilità” e redenzione da una parte; debito e colpevolezza dall’altra.
relazione è sottolineata dal termine tedescoSchuld, che significa allo stesso tempo debito e colpa, ed esprime con precisione la morale calvinista del lavoro: chi ha denaro, ed è dunque considerato solvibile, porta in tal modo un segno della Grazia ricevuta, mentre chi resta schiacciato dall’insolvenza e dal fallimento economico mostra di non poter superare lo stato di peccato. “Solvibilità” e redenzione da una parte; debito e colpevolezza dall’altra.
Tuttavia –a lungo termine- nessuno può evitare interamente
di entrare nella parte del debitore inadempiente: quanto più procedono i
processi di accumulazione e concentrazione del capitale, sempre più vaste masse
vengono a trovarsi nella condizione di non poter restituire il danaro ricevuto
a credito e gli individui cadono nella percezione reciproca della propria
colpa. Durante una crisi economica (negli anni Venti ma anche in quella che ora
viviamo) il debito sovrasta come destino a cui è impossibile sfuggire, vero
stato di dannazione. Lo stesso imprenditore capitalista deve ricorrere
inevitabilmente al prestito bancario, per poi poter riavviare il ciclo
economico del suo capitale.
Il frammento di Benjamin illumina una soglia di rottura,
liminare e utopica allo stesso tempo, in cui il succedersi delle crisi è così
generalizzato e inevitabile che nessuno può interamente sottrarsi
all’incombere della Schuld: giunti a questa linea nodale, il dio astratto
del capitale domina col suo movimento impersonale ogni vivente, denunciando la
sua debitorietà, la sua irredimibilità. L’uomo è allora dominato dalla Cura (Sorge),
per il proprio essere insolvente, dal senso della sua mancanza e insufficienza,
dall’impossibilità di trovare una “via d’uscita”; questa situazione non è però
solo materiale ma diventa il suo abito sociale permanente, la Cura diviene
angoscia come condizione eminentemente dotata di uno spirito oggettivo, benché
malato: “Le ‘Cure’ nascono nell’angoscia per l’assenza di vie d’uscita che
pertiene alla comunità, e non è individuale-materiale”(49).
Questo stadio utopico-distruttivo o terminale del
capitalismo, è dominato da una ambiguità paradossale, perché comporta la
colpevolizzazione-indebitamento di dio stesso e “il raggiungimento di una
condizione di disperazione cosmica in cui proprio ancora si spera…L’estensione
della disperazione a condizione religiosa cosmica dalla quale ci si attende la
salvezza”(43). Di quale Dio stiamo parlando? Di un Dio che è divenuto
interamente immanente al destino dell’uomo, che non ha più alcuna calvinistica
trascendenza, ma si afferma nel centro stesso della storia.
Questa paradossale coincidenza di speranza e disperazione
può intendersi in vari modi. Benjamin inizia con l’identificarne tre, in cui
tuttavia non si riconosce e che considera significative ma inadeguate
soluzioni: quelle offerte da Nietzsche, Marx e Freud, i quali non sono affatto
–nella sua visione- “maestri del sospetto”, ma cercano invece di forgiare una
soggettività superiore adeguata all’estremo corso del capitale. Essi non
vogliono neppure sospenderne l’evoluzione destinale e catastrofica, ma si
aspettano che proprio da questo estremo incremento distruttivo si apra la
prospettiva del rivolgimento, l’affermazione e la forgia di un soggetto alla
sua altezza. Il salto apocalittico del superuomo non costituisce un
“rivolgimento-conversione” (Umkehr) del destino del capitale, ma un
“potenziamento” (Steigerung) in apparenza continuo, ma che alla fine esplode in
discontinuità”(45).
L’intensificazione estrema della colpa-debito, del movimento
e dello sviluppo stesso del capitale, dovrebbe produrre la sua crisi terminale,
da cui emergerebbe l’Uomo-Dio: non un uomo diverso, che abbia estinto le sue
cure, ma anzi un soggetto eroico, che ha assunto positivamente e
affermativamente il proprio destino tragico, sostiene con decisione la
sua colpa. E’ il Superuomo di Nietzsche, ma forse ancor più di Dostoevskij, un
Raskolnikov che accetta perfino il delitto come vocazione superiore: “Il
superuomo… inizia coscientemente a realizzare la religione capitalista”. Non la
liberazione-redenzione dal destino, ma l’intensificazione-accettazione dello
stesso, e dunque l’affermazione del capitale come Essere assoluto. La religione
demoniaca del capitale giunge all’autocoscienza dello Spirito, e –come nel
Faust di Goethe- le basse arti di Mefistofele si trasfigurano nella volontà
imperialista del Mago-Eroe. Secondo Benjamin, questa discontinuità
superomistica è un’apparenza o una fantasmagoria e un’immagine di sogno[3], mentre in realtà la struttura dell’indebitamento resta
inalterata. Nietzsche propone una soggettività che sembra superare la logica
borghese-capitalista, ma in effetti si limita a una immedesimazione col suo
spirito profondo.
Ciò vale anche per Marx, per quella parte della sua opera in
cui il superamento del capitalismo sembra dipendere dall’incremento del suo
stesso sviluppo e dalla contraddizione tra forze produttive e rapporti di
produzione (come se l’indebitamento generalizzato dovesse produrre –a
interesse- il socialismo; un simile spirito riproduce spontaneamente una
situazione debitoria tra l’elite capace di interpretare il mutamento e le
masse che lo subiscono passivamente); e vale anche per Freud, riguardo a cui
però il passo di Benjamin è davvero criptico e ci consente solo un’ipotesi vaga
sul suo significato. Come afferma C. Salzani, “…soprattutto in Totem e
tabù…e più precisamente nel mito dell’orda primigenia…Freud pone all’origine,
non solo della religione, ma dell’organizzazione sociale tout court, la
colpa originaria (Urschuld) per l’uccisione del padre. Questo è ‘il grande
avvenimento da cui è iniziata la civilizzazione e che da allora non ha cessato
di tormentare l’umanità’. Questa struttura è in fondo, per Freud, un modo più o
meno razionale di gestire lo Schuldgefühl, che è e rimane ineliminabile”[4].
Il superuomo (Nietzsche), l’Uomo Nuovo (Marx), L’Io adulto
(Freud), più che superare la logica debitoria, la sublimano in una assunzione
immedesimante, che -nella terminologia del Passagenwerk- può essere
definita come identificazione e interiorizzazione dell’essenza del credito.
Volontà di potenza disperata, determinismo delle forze produttive, ribellione
nevrotica degli impulsi inconsci, confermano –invece che sospendere- la
percezione del mio essere in debito e in colpa. Anche se nel frammento Benjamin
non lo dice espressamente, riconoscere in quelle tre forme soggettive il Dio
nascosto, o finale, o in maturazione, della religione capitalista, significa in
realtà trasfigurarlo in apparenza e fantasmagoria: perché il vero Dio di questo
contesto resta il danaro e la sua logica creditizia-debitoria, che non viene
scalfita. All’ambito “sacerdotale” del culto capitalista appartengono dunque in
qualche modo anche Nietzsche, Marx, Freud. Tuttavia Benjamin pensa a partire
dallo stesso limite tragico in cui si colloca il loro pensiero, nell’epoca del
compimento del capitalismo, benché la sua risposta si voglia più radicale. Fra
una teologia dis-torta e il suo “aggiustamento” messianico, come abbiamo visto
a proposito del saggio su Kafka, esiste uno scarto minimo e insieme essenziale.
Nota. Il nesso debito-colpa-capitalismo-religione nei
termini benjaminiani trova un interessante parallelo in due testi di Mallarmé.
Il primo –Oro-[5] rielabora un articolo scritto in occasione del disastroso
affare di Panama (uno dei più grandi scandali finanziari del secondo
Ottocento): “Che vanissima divinità universale senz’esteriorità né pompe!…una
Banca si abbatte e tutto è vago, mediocre, grigio. Il numerario, congegno di
terribile precisione, perde persino un senso. Quando nei fantasmagorici
tramonti, crollano solitarie nubi, ed una liquefazione di tesori rutila
serpeggia, all’orizzonte, allora ho la nozione di quel che possono essere le
somme, a centinaia o più, il cui enunciato ci lascia, durante la requisitoria
di un processo finanziario, quanto alle loro esistenze, increduli”. Nella
fantasmagoria dissolvente della crisi, i segni del danaro non significano più
nulla, come i sogni umani, che in essi si erano immedesimati; le cifre che
pretendevano alla precisione del dare e dell’avere, del “giusto” ma
irragiungibile equilibrio del debito e del credito, si annullano
(“liquefazione”!), si spostano “nell’improbabile, aggiungono zeri che tali
restano”: significando che il “totale equivale, spiritualmente, a nulla, o
quasi”. La conclusione di Mallarmé identifica il Dio che si è ritratto nelle
tenebre, accennando una critica del capitale finanziario e un elogio del
capitale produttivo: “La mancanza di meraviglia, anzi di interesse [intérêt,
che è anche l’interesse da capitale, qui venuto meno] dimostra che non si ha da
eleggere un Dio per confinarlo nell’ombra di cofani ferrati e di tasche”.
Nel secondo scritto, Magia[6], Mallarmé rinvia alla tradizione alchemica e alla
fabbricazione dell’oro, che è insieme il metallo prezioso, il sostegno
materiale della valuta, ma anche l’essenza spirituale ottenuta dalla
trasmutazione liquefacente della materia. La sua essenza è spirito assoluto e
nello stesso tempo assolutamente immanente e materiale: “La pietra nulla,
sognatrice dell’oro, detta filosofale: ma essa annuncia, nella finanza, il
futuro credito, che precede il capitale o lo riduce all’umiltà di moneta”. In
realtà, lo spirito in questione è profondamente fantasmagorico e –come il
credito- sembra creare ricchezza dal non-essere; “sognatrice” è la pietra
nulla, o –come dicono Shakespeare e più di recente un celebre detective- essa è
composta della stessa materia di cui son fatti i sogni.
Di fronte a questi fantasmagorici e alchemici misteri,
Mallarmé osserva, non troppo diversamente da Marx: “Alla ricerca mentale non
esistono aperte che due vie, e basta, in cui si biforca il nostro bisogno, vale
a dire l’estetica da una parte, e l’economia politica dall’altra…”.
2. Pare che Benjamin, nel momento in cui scrive il
frammento, avesse letto poco di Marx: eppure i passi marxiani che si
riferiscono a una vera e propria “religione del capitale” sono numerosi. Una
considerazione storica generale si trova nel I libro del Capitale: “Per
una società di produttori di merci”, che giunge alla concezione del lavoro
umano eguale e qualitativamente indifferente, “il cristianesimo con il suo
culto dell’uomo astratto, e soprattutto nel suo svolgimento borghese, nel
protestantesimo, deismo, ecc., è la forma di religione che più gli corrisponde”[7].
A questa anticipazione del pensiero di Weber seguono in
capitoli successivi considerazioni sul debito e sul credito, assai vicine a
quelle di Benjamin. A un certo grado di sviluppo della circolazione delle
merci, il rapporto tra venditore e compratore muta carattere e una sottile
disuguaglianza si instaura all’interno dello scambio: “Il venditore diviene creditore,
l’acquirente diviene debitore”[8]. Questa discrasia poco appariscente si allarga però in una
crepa minacciosa e costituisce ancor oggi un elemento drammatico delle crisi
monetarie: “L’opposizione tra la merce e la sua figura di valore, il denaro, è
spinta durante la crisi fino alla contraddizione assoluta”[9].
La contraddizione assoluta, già per Hegel, è quella che non
consente né sintesi, né conciliazione, se si permane sul terreno dei due
opposti in conflitto: essi collassano entrambi, esigendo un salto qualitativo,
che sposta il punto di vista essenziale della coscienza (Hegel) o il principio
costitutivo del modo di produzione (Marx). Gli opposti vanno entrambi a fondo,
dissolvendo l’orizzonte epistemico di un’epoca e determinando il suo dissesto.
La contraddizione è assoluta anche perché avviene tra due estremi che di per sé
esigono una prossimità indissolubile, una consonanza nella dissonanza, e solo
compenetrandosi sopravvivono: finchè il conflitto non ne impedisce comunque la
compatibilità. Così si compongono e infine si distruggono, in Hegel, la legge
divina che protegge i defunti, difesa da Antigone, e quella della Polis,
imposta da Creonte; così si sostentano l’un con l’altro la merce e il denaro, in
Marx, che però nelle crisi divorziano litigando l’una dall’altro: sicchè il
denaro si svirilizza in un’animula priva di corpo e la merce marcisce,
degradando rapidamente dall’organico all’inorganico, da lucente fantasmagoria a
rifiuto tossico maleodorante.
Il denaro –anche per Marx- sembra richiedere un vero e
proprio “culto” permanente e continuo[10], tanto che nel cap. 27 del primo libro del Capitale si
configura un rapporto strutturale di ordini simbolici, fra la trinità cristiana
e quella del capitale. Non è una formulazione ironica e tanto meno una battuta
blasfema. Categorie teologiche –dis-tolte dal loro contesto originario ma non
distrutte e cancellate dalla secolarizzazione- si sfigurano in fasi del
movimento del capitale: così che la fede nel suo sviluppo e la sua creazione di
ricchezza hanno buon gioco a occupare le primitive caselle simboliche della
Grazia e della Redenzione, sostituendole nell’animo dei credenti, ma
conservandone intatto il potenziale affettivo, emozionale, psichico.
Così il danaro è simile e insieme dissimile dall’immagine
del dio cristiano: non è trascendente e pure è soprasensibile nel pieno e nel
mezzo dell’immanenza. E’ forse questo paradosso a suggerire a Marx il paragone
con l’alchimia, intesa come il rovesciamento simmetrico, ma non come la
cancellazione dello spirito cristiano: “Tutto si può vendere o acquistare. La
circolazione diviene la grande storta sociale dove tutto affluisce per uscirne
di nuovo come cristallo di danaro. Nulla resiste a questa alchimia, neppure le
ossa dei santi…”[11]. In effetti il capitale si appropria del patrimonio culturale
di tutto il passato dell’umanità, reinterpretando dis-torcendo a sua
giustificazione ogni simbolo e significato. L’ironia di Marx è una negazione
della negazione, un détournement correttivo dello scherno
effettivamente deformante che il capitale rivolge al passato: “La società
moderna che appena nata tira giù pei capelli Plutone e lo trae fuori dalle
viscere della terra, saluta nell’aureo Graal la meravigliosa personificazione
del suo più alto principio vitale”[12].
Il capitale, pur affinandosi rarefatto nell’astrazione
sovrasensibile del denaro e del credito, è dunque capace di un’immensa potenza
di fascinazione, che giustifica la servitù volontaria a cui spinge i suoi
sudditi. L’effetto fantasmagorico delle merci nel mercato e nel processo di
circolazione è più rilucente ed esibito: ma lo stesso feticismo delle merci
–per quanto decisivo- è per Marx una fantasmagoria di secondo grado, rispetto a
quella che trasfigura la potenza del movimento del capitale in sé e per sé, il
suo processo di produzione e l’apparenza della sua autogenerazione.
L’identificazione e l’immedesimazione col danaro in sé, da parte degli adepti
virtuosi del capitale, sono perfino più straripanti di quelle sollecitate dalle
immagini della moda. Invece di rappresentare rapporti di merce –scrive Marx- il
valore “si distingue, in quanto valore originario, da se stesso in quanto
plusvalore, così come Dio Padre si distingue da se stesso come Dio Figlio, e
ambedue sono coetanei e sono in effetti una sola persona, giacché le centodieci
L.st. anticipate divengono capitale solo per mezzo del plusvalore di dieci L.
st., e una volta divenute capitale, una volta generato il figlio e tramite esso
il padre, la loro distinzione sparisce di nuovo ed entrambi sono uno,
centodieci L.st.”[13]. Debito pubblico, saccheggio coloniale e pirateria,
espropriazione dei beni comuni, sono la trinità demoniaca che permette
l’accumulazione originaria del capitale, in una reciprocità persistente di
indebitamento e di colpa.
Solo l’archetipo religioso, e la millenaria familiarità con
esso, in cui l’economico precipita come in una forma cava, può rendere
comprensibile l’altrimenti enigmatica sottomissione volontaria a ciò che è
Spirito supremamente astratto: il danaro come segno e mezzo di misura
dell’automovimento del capitale. Solo questo dio e la sua promessa di riportare
il regno dei cieli in terra può permettere che il lavoro, la prassi
sensibile-creativa dell’uomo, si dis-torca in fenomeno ed effetto derivato di
una potenza sovrasensibile (il valore di scambio).
Una prospettiva simile –a testimoniare della sostanziale
continuità del pensiero di Marx su questo punto- si trova nei manoscritti
giovanili su J. Mill, dove compaiono in una prima formulazione alcuni temi poi
sviluppati nelle opere mature, come l’essenza mediatrice del danaro e
l’affinità tra la struttura trinitaria cristiana e quella del movimento del
capitale[14]. Ma è soprattuto decisivo in questo scritto la connessione
ineludibile stabilita fra debito economico e colpa morale, in una direzione
sostanzialmente simile a quella di Benjamin e che aiuta a decifrarne i motivi:
“Il credito è il giudizio economico sulla moralità di un uomo”.
Il debitore ha fiducia nel suo debitore, se gli ha prestato
denaro; ma già in questa relazione apparentemente innocua si occulta una forma
distorta di riconoscimento. Su cosa si basa questa fiducia? Sul fatto che io lo
ritenga onesto. E in cosa consiste l’onestà? Nella sua capacità dipagarmi: “Si
pensi a tutta l’infamia che c’è nello stimare un uomo in danaro, come
accade nel rapporto di credito…Non è già il denaro ad esser superato nell’uomo,
nel rapporto di credito, ma è l’uomo stesso che viene mutato in denaro,
ovvero è il denaro che si è incorporato in lui”; la mia intera esistenza, il
mio corpo e la mia anima, sono divenuti fenomeni dello “spirito del denaro”[15].
In ultima analisi, l’instaurarsi del rapporto di credito
distrugge la possibilità del riconoscimento paritario tra uomini ed è la sua
diretta antitesi: l’esser riconosciuto viene distorto nell’esser solvibile e
completamente sostituito da questo, in una dissimetria irrimediabile della
parte creditrice e della parte debitrice; esse si pongono nella relazione del
servo e del padrone di Hegel, trasposta da Marx nella sfera economica, ma
sostanzialmente vigente nella sua struttura profonda. Ma cosa accade se –come
abbiamo detto- il debito non può essere pagato mai, se questa condizione
si generalizza indipendentemente dall’agire del singolo, entro una devastante
crisi monetaria e finanziaria? Il non poter pagare il mio debito diviene
allora immediatamente la mia colpa, la prova della mia scelleratezza o
della mia incapacità. In una parola della mia dannazione. Così il senso
economico e quello morale si fondono: “…Questa ipocrisia ed impostura reciproca
viene spinta fino al paradosso che al semplice giudizio su chi è privo di
credito, che cioè egli è povero, si aggiunge anche il giudizio scellerato che
egli non è degno di fiducia né di riconoscimento e che, dunque, è un paria
della società, è un uomo corrotto”[16]. Ma in questa degradazione, in questa discesa agli inferi,
c’è ancora qualcosa di peggio e cioè il fatto che realmente il povero
insolvente diviene ignobile ed è costretto a comportarsi come tale, se vuol
sopravvivere, realmente egli diventa il servo nel suo stato di
massima abiezione, cosalità indifferente: “…Egli stesso deve fare di sé una
falsa moneta, deve carpire con inganno il credito, deve mentire, ecc. e questo
rapporto di credito…diventa oggetto di commercio, oggetto di inganno e abuso
reciproco”[17]. La conclusione è drastica ed esprime quella stessa
condizione senza speranza, che il debito-colpa generalizza ad ogni livello
della vita, secondo Benjamin: “La sua vita appare come sacrificio della sua
vita, la realizzazione della sua essenza come vanificazione della sua vita”;
“il culto del denaro diventa fine a se stesso”.
Nota. Il II Faust di Goethe[18] è una quasi inesauribile riserva di allegorie e
simulacri, che rinviano alla divinità del danaro, alla magia demonica del
credito, alla Cura e all’imperialismo finanziario. Se il I Faust descrive
lo Streben, lo spirito soggettivo del nascente eroe borghese capitalista
(e ne smaschera anche il posticcio romanticismo), la seconda parte dell’opera
si disinteressa ormai della psicologia dei personaggi e procede spedita a
descrivere lo spirito oggettivo del capitale e le sue apparenze. Goethe
intuisce che il personaggio, l’individuo, diviene secondario e superfluo di
fronte al procedere della gigantesca macchina allegorico-fantasmagorica,
dinanzi a cui non c’è più bisogno di alcuna interiorità.
Nell’atto primo del II Faust, una progressione di
fantasmi porta alla rivelazione-svelamento del danaro come ultima divinità.
L’Impero si trova in una situazione di crisi economica così grave da sembrare
irreversibile e preludere alla sua disgregazione: “L’Impero, quant’è grande,
sembra un incubo, dove/l’informe genera l’informe,/lecitamente l’illecito
comanda/e di errore tutto un mondo si dispiega”(443).
L’indebitamento generale, che avviene nella forma dell’usura
bancaria, è talmente diffuso da essere insostenibile perfino per la Corte e
l’élite dominante: “E a me tocca pagare e far tutti contenti:/con me l’Ebreo
non farà complimenti,/lui anticipa versamenti/che un anno consumano prima
dell’altro”(447). E’ come se nell’indebitamento scatenato gli anni si
accorciassero fino a contrarsi, consumandosi con una velocità inusuale e
imprevedibile: ogni attimo è sovrastato e dominato dall’imminente scadenza,
sempre uguale presente di ciò che è dovuto. Ogni passato confluisce nel debito
dell’ora, ogni presente vincola il futuro al debito contratto. Costituzione
debitoria del tempo!
Faust e Mefistofele, al servizio dell’Imperatore, dovrebbero
porre rimedio alla violenza e al caos che incombono: la prima soluzione offerta
è il passaggio dalla tesaurizzazione alla circolazione. Grazie alla magia di
Mefistofele, si tratta di rimettere in movimento tutto l’oro e i tesori sepolti
senza frutto sotto la terra, trasformarli da beni immobili inattivi in capitale
circolante e investito. Il luogo dove si trova l’oro è del resto sotterraneo e
ctonio, e per trovarlo occorre abbandonare le regioni della vita organica e
legarsi alla morte: “Laggiù c’è il morto; c’è là il tesoro!”(457). In questa
sorta di alchimia invertita e rovesciata, la potenza spirituale si demonizza e
si concretizza nel metallo prezioso, si condensa in una materia, che gli dèi
onorano e celebrano. Certo anch’essi non sono più quel che erano una volta e si
sono ridotti a ornamentali allegorie della ricchezza, come quelle che poi
compiranno la loro ultima epifania nella cartamoneta del secondo Ottocento:
“Perfino il Sole è di oro perfetto./Mercurio, il messo, lo serve, pagato e
protetto, Madama Venere vi ha incantati tutti quanti,/ la casta luna ha lune e
grilli per la testa…”(455).
Qui sembra già dispiegarsi quella fantasmagoria antiquaria e
arcaicizzante che si sovrapporrà come una prima forma di giustificazione
pubblicitaria alle merci esposte, nei Passages studiati da Benjamin.
In particolare l’elogio e l’apologia dell’oro si fonda sulla sua capacità di
garantire l’assoluto trionfo del possibile, oltre ogni condizione fisica e
materiale, materialità preziosa che garantisce una onnipotenza sovrasensibile:
“Si può avere ogni altra cosa,/palazzi, parchi, piccoli seni, gote di
rosa;/tutto il molto sapiente uomo vi trova/che fa quanto fra di noi nessuno
può”(455).
Il possesso dell’oro, scavato nelle miniere e sottratto a
chi lo possedeva in forma di tesoro, come bene immobile, è in effetti un
momento importante dell’accumulazione originaria del capitale e della sua
espansione coloniale dopo la scoperta delle Americhe. A preparare
l’introduzione della moneta da parte dei due demonici compari, si dispiega
fastoso e iridescente il mondo carnevalesco delle merci e della Moda. La festa
nell’ Ampia sala è in, prima che qualsiasi altra cosa, una sfilata in
cui si dichiara e si annuncia il trionfo della Moda, fin dal primo gruppo
allegorico, quello delle Giardiniere, che celebra così la propria
acconciatura o cappellino: “Sono ritagli colorati/messi in giusta
simmetria:/ogni parte, in sé, è risibile/ma l’insieme piacerà…/perché in donna
è la natura/molto prossima ad un’arte”(465).
L’Araldo è l’imbonitore che presiede all’esposizione:
“Venditrici e merci meritano/che si faccia cerchio intorno…”(466), le corone e
le ghirlande di fiori artificialmente prodotti parlano esse stesse, come se
l’anima della merce acquisisse il dono della parola: “Inconsueti alla natura/è
la moda che li crea”(467), frase che già sembra un motto esposto in una vetrina
a rendere appetibile il cartellino del prezzo. Segue una lunghissima sfilata di
merci e allegorie antichiste, che riassumono l’intero passato culturale,
culminando in una sorta di Trionfo di Pluto, che è allo stesso tempo la
versione grottesca e profana di un mistero dionisiaco.
Perché tutto questo funzioni occorre però l’ultimo atto di
mefistofelica magia e cioè la creazione del danaro e del suo sistema
creditizio: “Tutti i conti son saldati/le grinfie degli strozzini
ammansite…udite dunque la fatidica carta/che ha tramutato ogni dolore in
gioia”(532-533). E’ la nuova legge dell’Impero: “Fermare quei fogli è
impossibile./Si sono dispersi in un lampo./Le banche stanno sempre aperte:/ là
te lo onorano ogni biglietto/-certo, con uno sconto- in oro e argento”(537);
“Ma spiriti degni di guardare in profondo confidano/illimitatamente in quel che
è senza limiti”(539). Solo che a un certo punto la catena dell’indebitamento
porta alla liquefazione della sua base aurea, all’eccesso del segno sul
corrispettivo metallico, e a una crisi ancor più devastante di quella iniziale.
La “magia” si conclude nella guerra e nella necessità dell’espansione coloniale
a cui si dedica infine il Faust-imprenditore: ma il suo successo è devastato da
quella stessa frenetica inquietudine e dal deprimente spleen, che
caratterizzano la Cura, ricordata da Benjamin. Prima della fine appaiono a
Faust le quattro donne grigie, le spettrali annunciatrici di una crisi
irrimediabile: Mancanza, Insolvenza, Distretta, Cura, e infine la più cupa
sorella, la Morte.
Nell’aria “densa di fantasmi”, domina la Cura: “Sotto
parvenza mutevole/la mia potenza è feroce: “Quando ho qualcuno in mio potere/il
mondo gli diventa inutile./Su lui cala buio eterno/sole non si alza né
tramonta./Ha perfetti i sensi esterni/ma tenebre intime lo abitano/; e di tutti
i tesori non sa /come prendere possesso./Fortuna e Sfortuna divengono/fantasie
per lui, lo rode/nell’abbondanza l’inedia/e, sia delizia sia
tormento,/qualunque cosa rimanda a domani,/sempre è in attesa del futuro/e mai
gli riesce di concludere”(1008-1009). Questo è lo stato dell’indebitamento-colpevolizzazione
universale di cui parla anche il frammento di Benjamin.
Immotivata e immeritata come la Grazia dei calvinisti appare la redenzione –nonostante tutto- dell’ ”eletto” Faust nel finale dell’opera. “Ogni cosa che passa/è solo una figura./Quello che è inattingibile/qui diviene evidenza”(1055). Siamo qui di fronte –nei termini di Benjamin- a una conversione e remissione del peccato (Umkehr) o a una “intensificazione”(Steigerung) quasi nietzscheana del superuomo Faust, che al vertice della colpa assume il suo destino tragico? Vera salvazione o ironico Puppenspiel? Più probabile che “l’immortalità cui i Beati Infanti accompagnano Faust sia una straziante mascherata, un’altra fra le molte della tragedia”(Fortini, p. XXIV) oppure la fantasmagorica trasfigurazione della religione del capitale, a cui Faust si è così radicalmente votato.
Immotivata e immeritata come la Grazia dei calvinisti appare la redenzione –nonostante tutto- dell’ ”eletto” Faust nel finale dell’opera. “Ogni cosa che passa/è solo una figura./Quello che è inattingibile/qui diviene evidenza”(1055). Siamo qui di fronte –nei termini di Benjamin- a una conversione e remissione del peccato (Umkehr) o a una “intensificazione”(Steigerung) quasi nietzscheana del superuomo Faust, che al vertice della colpa assume il suo destino tragico? Vera salvazione o ironico Puppenspiel? Più probabile che “l’immortalità cui i Beati Infanti accompagnano Faust sia una straziante mascherata, un’altra fra le molte della tragedia”(Fortini, p. XXIV) oppure la fantasmagorica trasfigurazione della religione del capitale, a cui Faust si è così radicalmente votato.
3. Le considerazioni su Nietzsche, in Capitalismo come
religione, ricordano soprattutto laGenealogia della morale, dove è esplicitata
la connessione debito-colpa: “…Già Nietzsche afferma che il ‘basilare concetto
morale di colpa (Schuld) ha preso origine dal concetto molto materiale di debito(Schulden)’
e riconduce genealogicamente l’origine dei concetti morali di colpa, coscienza
e dovere alla sfera del diritto delle obbligazioni”[19]. La critica dell’idea di incremento (Steigerung) da parte di
Benjamin non esclude d’altronde il riconoscimento che “il potenziamento in
apparenza continuo”, proposto da Nietzsche, “alla fine esplode in
discontinuità”: questa accentuazione del salto, della cesura all’interno del
tempo storico, è pur sempre un tratto di affinità con l’intezione di Benjamin,
anche se adombra ancora una relazione di causa a effetto.
Un altro riferimento possibile è l’Anticristo, dove
Nietzsche –più che semplicemente polemizzare con il cristianesimo- delinea il
dualismo costitutivo e profondo che ne connota la storia. Non si può immaginare
–secondo Nietzsche- contrasto più violento di quello tra il messaggio
originario di Cristo e la sua interpretazione ad opera di Paolo. La teologia di
Paolo è già un dis-toglimento, dis-torsione della Buona Novella, uno
spostamento sensibile e decisivo del suo asse portante.
Si può così sintetizzare la differenza: se Cristo scioglie e
sospende semplicemente e immediatamente la logica del debito-colpa, non
“saldando i debiti” ma radicalmente annullando il concetto stesso di debito
–Paolo, al contrario, la istituzionalizza in ambito morale e su di essa
costruisce la sua immagine di redenzione come assoluzione (e cioè perdono per
l’insolvente, anche se necessariamenteinsolvente). “In tutta quanta la
psicologia del ‘Vangelo’ -commenta Nietzsche- manca la nozione di colpa e di
castigo; come pure quella di ricompensa. Il ‘peccato’, qualsiasi rapporto di
distanza tra Dio e l’uomo, è eliminato -precisamente questa è la ‘buona
novella’ “[20]; prima che l’idea del sacrificio espiatorio trasformasse
Cristo in vittima per la remissione dei peccati, “Gesù aveva abolito lo stesso
concetto di colpa (Schuld), -egli ha negato ogni abisso tra Dio e uomo, ha
vissuto l’unità del Dio fatto uomo come la sua ‘buona novella’…e non come
privilegio!”[21]. E’ qui presa di mira la dottrina della predestinazione e
della distinzione calvinista tra Eletti (detentori della Grazia) e
peccatori-debitori costretti a riconoscere la propria miseria.
Nel passo immediatamente precedente, Nietzsche descrive
invece la dis-torsione operata dal “dis-angelista”, dal “falsario” Paolo, che
consiste precisamente nel fondare la dottrina cristiana sul concetto di colpa.
Il termine Schuld compare più volte in pochissime righe: “Il
sacrificio espiatorio (Schuldopfer) e proprio nella sua forma più ripugnante e
barbarica, il sacrificio dell’innocente(Unschuldigen) per i peccati dei
colpevoli (Schuldigen)”[22]. L’idea della resurrezione –imposta da Paolo- sostituisce
quella della beatitudine, come pratica e condotta di vita, predicata da Cristo.
L’impostura di Paolo è profonda e sottile: dopo aver riconosciuto che la Legge
stessa produce il peccato, ed è anzi istituita non perché possa davvero essere
adempiuta, ma perché l’uomo riconosca il proprio scacco di fronte ad essa e la
colpevolezza originale che lo determina, la sua strategia non mira a
sospenderne la vigenza nella beatitudine e nel distacco, ma nell’incrementarne
a dismisura gli effetti.
Poiché la Legge non viene semplicemente sospesa, poiché il peccato continua a scaturire come un liquido infetto dalla trasgressione di essa, allora è necessario l’intervento della Grazia, che elegge i salvati. Apparentemente Paolo dà seguito all’intenzione di Cristo di sospendere la Legge e sostituirla con l’amore; ma in realtà egli la lascia agire, nel suo atto specifico di produrre la creatura colpevole, e la sua sospensione appare allora come una miracolosa remissione dall’alto del debito-colpa. La logica di tale debito-colpa rimane però intatta, laddove Cristo ne cancellava il principio alla radice.
Poiché la Legge non viene semplicemente sospesa, poiché il peccato continua a scaturire come un liquido infetto dalla trasgressione di essa, allora è necessario l’intervento della Grazia, che elegge i salvati. Apparentemente Paolo dà seguito all’intenzione di Cristo di sospendere la Legge e sostituirla con l’amore; ma in realtà egli la lascia agire, nel suo atto specifico di produrre la creatura colpevole, e la sua sospensione appare allora come una miracolosa remissione dall’alto del debito-colpa. La logica di tale debito-colpa rimane però intatta, laddove Cristo ne cancellava il principio alla radice.
Questa scissione caratterizza il divenire stesso del
cristianesimo, ripresentandosi nei momenti cruciali della sua storia, come
conflitto tra la religione dell’amore e quello della colpa. Il primo assolve e
dissolve ogni debito, il secondo da un lato pretende che sia pagato, dall’altro
–concedendo una grazia- lo condona (il che significa comunque riconoscerne il
valore). Questa seconda forma di cristianesimo è propriamente quella su cui il
capitalismo –nella formulazione di Benjamin- può innestarsi come parassita.
Quanto al riferimento di Benjamin a Freud –come già
accennato- è talmente conciso, da rendere aleatoria qualsiasi interpretazione.
Si può solo ricordare che nell’opera di Freud il danaro compare associato a una
pulsione arcaica infantile di carattere anale, associato a tutto il sistema
metaforico della merda; il suo installarsi a dio invisibile sollecita dunque
uno strato psichico profondo, che seduce ad accoglierlo e a consegnarsi anche
affettivamente nelle sue mani, vivendo la propria servitù volontaria come
appagamento dis-torto del desiderio: “In realtà dovunque la forma arcaica del
pensiero è stata ed è rimasta dominante –nelle civiltà antiche, nei miti, nelle
favole, nelle superstizioni, nel pensiero inconscio, nel sogno e nella nevrosi
–il denaro è stato posto in strettissimo rapporto con lo sterco”[23]. E’ partendo di qui che Ferenczi ha potuto parlare di una
vera e propria “pulsione capitalista”: “Il carattere libidico e irrazionale del
capitalismo, non riducibile a una mera finalità pratica, si tradisce altresì a
partire da questo stadio…La pulsione capitalista contiene quindi…una componente
egoista e una componente anale erotica”[24].
4. In tedesco il termine Schuld ha un terzo
significato, quello di causa. Secondo W. Hamacher, inCapitalismo come religione esso
dovrebbe essere tradotto con tre denotazioni simultanee: debito-colpa-causa.
Con questa complessità esso appare in un frammento di Benjamin del 1918, dove
viene indicato come categoria di esplicazione del divenire storico, in opposizione
a Ursache, “causa”, quest’ultima, che rinvia a un fondamento
necessario e deterministico: al contrario, Schuld si riferisce a una
causazione morale o giuridica, nel senso in cui si dice che qualcuno è “causa”,
è “responsabile” del suo atto (simile per questo aspetto al greco aition –fa
notare Hamacher). Ma perché Schuld sarebbe “la più alta” categoria di
esposizione della storia e in che modo avrebbe a che fare col debito e la
colpa?
Probabilmente siamo di fronte a una prima configurazione di
quel “tempo omogeneo e vuoto”, che sarà oggetto della critica di Benjamin, fino
alle tesi sul concetto di storia: il suo apparente e ininterrotto divenire è in
realtà la perpetuazione e la ripetizione di un continuo stato di mancanza, in
cui è assente ogni vero segno di discontinuità e di novità sostanziale. Non ci
sono brecce della libertà in questo tempo, che scorre all’insegna di
un deficit e di una colpa sempre uguali. Dal punto di vista ontologico, “Schuld è
di volta in volta fondamento di un’assenza, di una mancanza, di un deficit…Ogni
situazione mondana è Schuld, nella misura in cui genera un’altra
situazione deficitaria, e ad essa trasferisce laSchuld. Ogni situazione è
dunque incompiuta, manchevole in senso morale o giuridico”[25].
Dal punto di vista generazionale la Schuld implica
la trasmissione di una costellazione colpevole dai genitori agli eredi: così,
nelle famiglie di Green o di Kafka –come nota Benjamin nei saggi dedicati a
questi scrittori- fra padre e figlio esiste un nesso di colpevolezza reciproca,
un passaggio patologico di mancanze, che si ripetono di generazione in
generazione. Come la colpa destinale dei tragici greci, l’atto manchevole o
colpevole trasferisce inalterata la sua potenza dall’uno all’altro, è causa
dell’incompiutezza che colpisce l’epoca successiva e che essa trasmetterà a sua
volta in eredità: la breccia della libertà dovrebbe spezzare questa catena
genealogica, che ha trovato la sua espressione più recente nella concezione
edipica di Freud, dovrebbe separarsi “da ogni elemento del mito, dalla colpa (Schuld)
determinata genealogicamente, dalla trasmissione, dall’effetto e dalla sua
causazione, dalla successione familiare e cronologica”[26]. La storia come sequela continua e colpevole di causa e
conseguenza, altro non è che il destino mitico, la violenza perpetua e
mimetica, di cui Bemjamin parla nel saggio Per la critica della
violenza.
La breccia della libertà non si pone come ulteriore
causazione di un ordine, di un diritto, di una istituzione, di una
costellazione familiare, ma come interruzione e azione imprevedibile, nel senso
proposto da H. Arendt: non fondazione di un nuovo ordine giuridico e penale, ma
sostituzione della logica della Giustizia a quella del diritto. Si può
ipotizzare che questo significhi la rottura col rapporto dissimmetrico
servo-padrone, che persiste nella costellazione debitore-creditore, padre-figlio,
sovranità-servitù volontaria: la storia come perpetua fondazione, Schuld,
di catene di dipendenza asimmetrica, è interrotta dalla relazione di
riconoscimento, in cui affermo l’alterità dell’altro, condivido l’essenza umana
con l’altro, decido della nostra situazione comune con l’altro. Lo
spazio del giudizio politico come luogo affidato al “senso comune”, alla
persuasione reciproca, e alla decisione non predeterminata da una causa, da un
debito, da una colpa, si oppone alla eterna ripetizione del giudizio mitico e
alla sua uniformazione della storia.
Secondo Hamacher la concezione mitico-storica della Schuld,
finisce per determinare anche l’immagine di Dio nel cristianesimo, per
chiamarlo in causa, per renderlo affine al Dio immanente del capitalismo. Il
Dio della predestinazione “deve seguire immutabilmente la Sua
decisione, è sottoposto ad un meccanismo a Lui immanente, che lo pone con se
stesso in un rapporto da fondamento a risultato e dunque in un rapporto di Schuld.
La predestinazione è predestinazione attraverso dio, perché essa è
innanzitutto predestinazione in dio”[27].
In questo senso si può forse spiegare l’apparentemente paradossale affermazione di Benjamin, per cui Dio stesso è trascinato e coinvolto nel contesto del debito e della colpevolezza. In questa sua obbligazione permanente verso la propria decisione, il Dio della predestinazione è privo di vera Grazia, dell’eccezione che potrebbe spezzare la decisione stessa, e si palesa simile al fato e al destino mitico. Non essendo altro che questa relazione con sé, circolarmente chiusa, “Dio è pura Schuld: nel senso diaition, causa, ratio e fundamentum, e nel senso di debitum e culpa”[28]. Su questa concezione del cristianesimo e del divino, il capitalismo può innestarsi come parassita, che tuttavia realizza una potenzialità distorta già presente nell’albero di cui si è impossessato.
In questo senso si può forse spiegare l’apparentemente paradossale affermazione di Benjamin, per cui Dio stesso è trascinato e coinvolto nel contesto del debito e della colpevolezza. In questa sua obbligazione permanente verso la propria decisione, il Dio della predestinazione è privo di vera Grazia, dell’eccezione che potrebbe spezzare la decisione stessa, e si palesa simile al fato e al destino mitico. Non essendo altro che questa relazione con sé, circolarmente chiusa, “Dio è pura Schuld: nel senso diaition, causa, ratio e fundamentum, e nel senso di debitum e culpa”[28]. Su questa concezione del cristianesimo e del divino, il capitalismo può innestarsi come parassita, che tuttavia realizza una potenzialità distorta già presente nell’albero di cui si è impossessato.
Il capitale non si presenta solo come rapporto debitorio e
neanche solo nella colpevolizzazione generalizzata; ma anche come causa e
fondamento autogenerantesi di se stesso. Esso ha l’apparenza di un divenire, in
cui ogni movimento è causa di un ulteriore incremento, e deforma la storia in
una causazione predeterminata, da cui sono escluse le azioni e le brecce della
libertà. L’incremento è reso necessario per evitare l’altrimenti minaccioso
stato di mancanza e di deficit -e tra questi due poli non c’è né alternativa,
ne discontinuità possibile: ad ogni generazione si perpetua la Cura, cioè
il fantasma di una mancanza, a cui occorre supplire con una ulteriore
causazione di capitale, che tuttavia riproduce potenziato lo spettro
deficitario. In questa circolarità demonica si muove lo spirito inquieto del
denaro. Ne consegue la “moderna dottrina che un popolo diviene tanto più ricco,
quanto più s’empie di debiti. Il credito pubblico diviene il “credo” del
capitale. E sorto l’indebitamento dello Stato, il peccato contro lo spirito
santo, imperdonabile, cede il posto alla mancanza di fede verso il debito
pubblico”[29].
5. La critica a Marx, presente in Capitalismo come religione, risulta in certa misura problematica, perché l’idea che un incremento esponenziale delle forze produttive del capitale possa portare ad una sua Umkher non è estranea allo stesso pensiero di Benjamin. Il frammento del 1921 doveva confluire in un libro, Il vero politico, nel quale un saggio su Scheerbart, oggi perduto, avrebbe probabilmente costituito la parte conclusiva. Proprio negli scritti conservati su questo autore compare l’idea che la tecnica capitalista, col suo carattere radicalmente distruttivo dell’esperienza tradizionale, apra lo spazio verso nuove forme di percezione e soggettività. Se il capitale porta nella disperazione assoluta, nella rovina dell’essere, “senza vie d’uscita”, ebbene proprio la tecnica da esso sviluppata conduce –almeno in potenza- al di là dei suoi limiti e prefigura un nuovo essere del collettivo. L’inumano diffuso dal capitale –e così contrapposto al superumano di Nietzsche- deve essere padroneggiato, non attenuato. Questo polo “tecnologico-distruttivo” del pensiero di Benjamin coesiste in modo contraddittorio con la sua riflessione sull’immagine e sulla memoria almento fino all’inizio degli anni Trenta, prima di trovare la sua formulazione più complessa e matura nell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e nell’insieme del Passagenwerk.
Il primo saggio su Scheerbart è del 1919, precedendo così di poco il frammento, e contiene già la congiunzione tra la forza distruttiva e quella liberatrice della tecnica: “…L’oggettività e riottosità del processo tecnico è diventata il simbolo di un’idea reale…Gli intrecci dell’amore, i problemi della scienza e dell’arte, sì, la stessa prospettiva etica sono interamente esclusi, per poter sviluppare, tramite i fenomeni più puri e inequivocabili della tecnica l’immagine utopica di un mondo spirituale astrale”[30].
5. La critica a Marx, presente in Capitalismo come religione, risulta in certa misura problematica, perché l’idea che un incremento esponenziale delle forze produttive del capitale possa portare ad una sua Umkher non è estranea allo stesso pensiero di Benjamin. Il frammento del 1921 doveva confluire in un libro, Il vero politico, nel quale un saggio su Scheerbart, oggi perduto, avrebbe probabilmente costituito la parte conclusiva. Proprio negli scritti conservati su questo autore compare l’idea che la tecnica capitalista, col suo carattere radicalmente distruttivo dell’esperienza tradizionale, apra lo spazio verso nuove forme di percezione e soggettività. Se il capitale porta nella disperazione assoluta, nella rovina dell’essere, “senza vie d’uscita”, ebbene proprio la tecnica da esso sviluppata conduce –almeno in potenza- al di là dei suoi limiti e prefigura un nuovo essere del collettivo. L’inumano diffuso dal capitale –e così contrapposto al superumano di Nietzsche- deve essere padroneggiato, non attenuato. Questo polo “tecnologico-distruttivo” del pensiero di Benjamin coesiste in modo contraddittorio con la sua riflessione sull’immagine e sulla memoria almento fino all’inizio degli anni Trenta, prima di trovare la sua formulazione più complessa e matura nell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e nell’insieme del Passagenwerk.
Il primo saggio su Scheerbart è del 1919, precedendo così di poco il frammento, e contiene già la congiunzione tra la forza distruttiva e quella liberatrice della tecnica: “…L’oggettività e riottosità del processo tecnico è diventata il simbolo di un’idea reale…Gli intrecci dell’amore, i problemi della scienza e dell’arte, sì, la stessa prospettiva etica sono interamente esclusi, per poter sviluppare, tramite i fenomeni più puri e inequivocabili della tecnica l’immagine utopica di un mondo spirituale astrale”[30].
In Erfahrung und Armut, del 1933, la formulazione è più decisa. Benjamin scrive di una barbarie che si annuncia ridendo, che colpisce l’eredità culturale della borghesia, producendo un radicale impoverimento dell’esperienza: questa condizione –che in prima istanza si manifesta come ulteriore desolazione e dominio- contiene però i germi del superamento degli attuali rapporti di produzione. L’astrazione tecnica non è liberatoria per i suoi effetti progressivi e conciliativi del conflitto di classe, come credeva la socialdemocrazia, ma proprio per la sua inflessibile azione corrosiva, che apre le porte all’ “uomo politecnico” immaginato dalla rivoluzione sovietica. Un uomo che ha distrutto il principio di identità, caratteristico della tradizione europea almeno da Descartes in poi, e crea una inedita innervazione tra la sua singolarità e il collettivo.
In ambito artistico questa immagine della tecnica emerge in Ensor, Klee, Loos, i cubisti: “Una totale mancanza di illusioni nei confronti dell’epoca e ciò nonostante un pronunciarsi senza riserve per essa, questo è il loro carattere distintivo”[31]. Essi “rifuggono dall’immagine umana tradizionale, solenne, nobile, fregiata di tutte le offerte sacrificali del passato, per rivolgersi al nudo uomo del nostro tempo”[32]. Il tratto comune dell’arte “tecnica” è la disumanità, cioè proprio quella condizione di disperazione di cui parla il frammento e in cui tuttavia si spera nonostante tutto. In Klee compaiono angeli e bambini, ma scompare la figura umana, le case descritte da Scheerbart sono dominate dal materiale vetro, trasparenti e inadatte alla privatizzazione: in esse il marchio personale del proprietario svanisce e non è possibile lasciare tracce di sé. Che ciò avvenga proprio nella condizione disperata descritta dal frammento sulla religione del capitale non è dubbio: in effetti, “la crisi economica è alle porte, dietro di esse un’ombra, la guerra che avanza”. Il principio dell’indebitamento si è esteso perfino all’eredità culturale, depositata “al Monte di pietà a un centesimo del valore, per riceverne in anticipo la monetina dell’ ‘attuale’”[33].
Gli artisti distruttivi-costruttivi fanno buon uso della
desolazione e dell’astrazione dilaganti: con un atteggiamento sostanzialmente
diverso da quello che sarà prevalente nel Passagenwerk, qui il passato non
va salvato o redento dalla sua incompiutezza, estraendo da esso i possibili
dimenticati, ma semplicemente liquidato. In modo sorprendente, Benjamin ricorre
agli stessi termini, che aveva usato in senso negativo nel frammento del 1921,
per esaltare la potenza di rovesciamento implicita nella tecnica capitalista.
Nel testo più antico: “E lo stesso vale per Marx: il capitalismo che non cambia
rotta diventa socialismo con interessi semplici e composti, che sono funzione
del debito-colpa”; inEsperienza e povertà: “…L’umanità si prepara a
sopravvivere alla cultura, se questo è necessario. E quel che è più importante,
lo fa ridendo. Forse a tratti questo riso suona barbaro. Bene. talvolta il
singolo può pure cedere un po’ d’umanità a quella massa, che un giorno gliela
renderà con interessi semplici e composti raddoppiati”[34]. Qui sembra divenuto auspicabile quell’indebitamento con la
logica del capitale, che nel frammento veniva rifiutato. Si deve pur dire che
il “riso”, più che barbaro, diventerà nel corso degli anni Trenta decisamente
sinistro.
Nello stesso senso va la conclusione del saggio su Kraus, in
cui Benjamin scrive: “L’inumano sta tra noi come messaggero di un più reale
umanesimo”[35]. L’ Angelo Nuovo di Klee non ha qui il profilo malinconico,
che lo caratterizza nelle “Tesi” o nel frammento Agesilaus Santander; al
contrario esso esprime “un’umanità che si afferma nella distruzione”,
riprendendo la “memorabile dichiarazione” di Loos: “Se il lavoro umano consiste
soltanto nella distruzione, allora è veramente un lavoro umano, naturale,
nobile”[36].
Difficile negare che in questi passi Benjamin sostenga che
proprio l’incremento distruttivo delle forze produttive del capitale porti alla
necessità obiettiva di rovesciare i suoi rapporti di produzione, recuperando
così la magia dialettica, altrettanto inaspettata della salvazione di Faust,
che Marx aveva a sua volta ripreso da Hegel: “Ma la produzione capitalistica
partorisce dal suo seno, con la necessità di un processo della natura, la
propria negazione. E’ la negazione della negazione”[37].
6. Nella XI tesi sul concetto di storia, Benjamin modifica
la posizione espressa in Esperienza e povertà e distingue
radicalmente due forme di tecnica: all’idea di un illimitato sfruttamento della
natura, che si ritorce contro la sopravvivenza dell’umano, si oppone l’immagine
di una techne che, invece di distruggere il cosmo o trattarlo quale
inerte materiale di dominio, lo considera come un grembo in cui sono in germe
inedite creazioni. Fra la tecnica capitalista e quella “nuova” non c’è continuità
alcuna, sia pure nella modalità del rovesciamento, ma un salto discontinuo e
qualitativo, che può essere prodotto solo dall’azione politica. Non è più lo
sviluppo della forza produttiva a fornire il fondamento per una forma di vita
liberata dal dominio, ma è la costituzione di un essere-in-comune
rivoluzionario a determinare le condizioni di possibilità in cui diviene
pensabile un uso liberatorio della scienza.
Alla tecnica come sfruttamento se ne oppone un’altra, tesa
alla liberazione di forze latenti, che attendono l’intervento
dell’essere-in-comune per nascere e dispiegarsi. E` questa una versione
materialistica della cooperazione tra umanità e natura, che negli scritti
giovanili veniva attribuita al rapporto linguistico tra di esse. Nominando la natura,
l’uomo le permetteva di uscire dal suo doloroso mutismo, ne liberava l’anima
interna e cooperava alla sua redenzione: questa non poteva che coinvolgere allo
stesso tempo l’essere umano e il cosmo[38].
In senso analogo, nella tesi XI, Benjamin parla di un lavoro
capace di sgravare la natura delle creazioni in essa latenti, senza esaurirne
le risorse in modo estremo e distruttivo. Questa concezione, disattesa dal
marxismo tecnocratico, era invece presente nel socialismo utopistico e
soprattutto nel suo massimo rappresentante, Fourier.
Nell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità
tecnica, Benjamin distingue due forme di tecnica: una è dominata da
un’intenzione arcaica, simile a quella della magia, diretta al dominio dellaphysis e
all’affermazione della volontà di potenza[39]. Essa poteva pure essere inevitabile fin quando la natura era
percepita come una forza ostile, sovrastante e invincibile; diviene tuttavia
sempre più unilaterale e rischia di esaurire le risorse elementari della vita.
Esiste invece una seconda forma di tecnica, che tende a sviluppare un legame
armonico tra l’umanità e il cosmo; essa mira – come si dice nell’edizione
francese dell’opera –ad un “jeu armonien”[40], che riguarda anche il rapporto reciproco degli uomini, e
questo termine è ispirato direttamente dalle utopie di Fourier.
Tale relazione si oppone a quella del lavoro e dello
sfruttamento: essa non implica affatto un salto nell’arbitrio o nell’irrazionalità.
Il gioco indica lo spazio aperto dell’intersoggettività non più dominata in
modo esclusivo dal rapporto mezzo-fine; esso è però articolato da regole
reciproche e condivise, da un assenso comune, che richiede l’accettazione di un
limite alle mie possibilità di azione e di espressione. Tale misura non
è tuttavia imposta da un’autorità superiore, gerarchica o paterna, ma dal
“pensare in comune”, dalla persuasione in atto del “pensiero ampliato”, come
diceva Arendt. Essa è determinata dal rispetto per la presenza e la differenza
dell’altro e dalla reciprocità che ogni azione possiede. Il gioco implica la
possibilità di un accordo tra pari, che convengono su un limite accettato in
comune ed elaborano questa intesa in un sistema simbolico.
Il conflitto stesso – per non divenire guerra – è trasferito
entro un codice linguistico. Il gioco è perciò fondato su un principio di
eguaglianza che si oppone a quello asimmetrico del lavoro sfruttato, dominato
dalla relazione servo-padrone; su un criterio di riconoscimento, che sospende e
disattiva l’astrazione capitalista. Esso arresta dunque l’intenzione magica
della volontà di potenza, caratteristica della “prima tecnica” e si realizza
grazie a una “seconda tecnica”, non più finalizzata necessariamente allo sviluppo
e all’incremento delle quantità prodotte, ma alla qualità delle relazioni umane
fra produttori. Questa è fondata su un limite accettato nel rapporto
con la natura, che non viene cancellata, ma intensificata, rispettandone
le energie primarie ed elementari. Di qui le conseguenze fantastiche che
Fourier attribuiva a questo tipo di tecnica: “Tutto ciò illustra un lavoro che,
ben lontano dallo sfruttare la natura, è in grado di sgravarla delle creazioni,
che, in quanto possibili, sono sopite nel suo grembo”[41].
Già nell’ultimo aforisma di A senso unico, Benjamin
metteva in rilievo il pericolo estremo che l’umanità corre restando legata alla
“prima tecnica”[42]. La logica dello sviluppo e dell’incremento illimitato di
potenza conduce alla guerra, che di essa rappresenta l’intensificazione
inevitabile. La storia della techne è segnata da snodi discontinui e
decisivi, in cui viene operata una decisione a favore dell’una o dell’altra
delle due forme. In effetti il passaggio dalla “prima” alla “seconda” tecnica,
dalla necessità al gioco, non ha in se stesso nulla di necessario; e anzi le
due concezioni possono allontanarsi in modo irrimediabile l’una dall’altra. L’opzione
per la “seconda” tecnica è compito proprio della decisione politica, ed essa
dipende dai rapporti di forza, dallo stato della lotta di classe, e dal
prevalere – o meno – del principio d’uguaglianza su quello di dissimmetria e di
padronanza.
Per queste ragioni, Benjamin descrive l’accettazione dello
sfruttamento della natura da parte della socialdemocrazia e del marxismo
staliniano come un tradimento (tesi X) e come la premessa per la
tecnicizzazione e la burocratizzazione della società. Il dominio della “prima
tecnica” porta infatti alla trasformazione in macchina funzionale e burocratica
del corpo sociale, alla costituzione di un “apparato incontrollabile”[43], che prolifera in entrambe le forme di totalitarismo. E’ la
presa di coscienza del formarsi di questa nuova forma di potere che induce
Benjamin ad allontanarsi dall’entusiasmo tecnologico di Esperienza e
povertà e a riproporre il problema della tecnica nel senso di una
decisione politica radicale, che non scaturisce automaticamente dal suo
sviluppo stesso, ma si pone nei termini di un conflitto insanabile col suo modello
astratto capitalistico. Il carattere distruttivo resta indispensabile al
pensiero critico: ora però in primo piano non c’è la distruzione
dell’esperienza ad opera della tecnica, ma l’annientamento di quella
tecnica, che impedisce l’utopia realizzabile come “gioco armonico”, capace di
realizzare la Umkher dalla logica del capitale.
La “seconda tecnica” tende a sospendere l’immediatezza del
dominio e dell’asservimento del corpo umano e a sgravarlo delle funzioni del lavoro;
l’archetipo della “prima tecnica”, conforme alla sua radice nella magia, è
invece il sacrificio[44]. Nell’omicidio del capro espiatorio la comunità rituale
rinsalda la propria coesione, di fronte alla violenza che cova al suo interno e
nella natura; nel capitalismo moderno, il principio sacrificale si realizza
nello sfruttamento di ogni singolarità, sottomessa alla macchina e al processo
produttivo. La qualità irripetibile è sacrificata alla quantità e
all’incremento illimitato della produzione.
Per inciso si può osservare che il passaggio dal lavoro
materiale a quello immateriale non cambia di per sé questa intenzione di fondo,
ma la traspone dal piano del corpo a quello della mente. Se l’orientamento al
dominio e allo sfruttamento resta immutato, la mente può essere ora sacrificata
e utilizzata in modo quantitativo, come prima la corporeità. Il passaggio dal
lavoro al gioco non può che essere effetto di un giudizio politico.
Sia pure con molte incertezze e esitazioni[45], nell’Opera d’arte Benjamin si allontana da una
concezione per cui nella tecnica in quanto tale sarebbe custodito un intelletto
oggettivato, che eccede i limiti del capitale. Certo, essa contiene in sé una
possibilità di liberazione della percezione e delle facoltà umane, purché
si operi il salto e la discontinuità tra la sua prima e la seconda forma.
Tale salto non è esso stesso tecnicamente precostituito, ma dipende da una
Comune di uomini che si riconoscano reciprocamente. Nessuna negatività estrema
e necessaria porta dallo sviluppo delle forze produttive, quali sono
attualmente, alla liberazione dal lavoro e dallo sfruttamento, neppure
nell’ipotesi di un regime che abolisca la proprietà privata dei mezzi di
produzione.
Il cambiamento dell’intenzione direttiva della tecnica
costituisce per Benjamin un fine rivoluzionario. Fino agli inizi degli anni
Trenta, egli ha creduto che la rivoluzione bolscevica avesse almeno in parte
realizzato un tale obiettivo e un mutamento del rapporto uomo-natura; quando
invece scrive le Tesi, non nutre più una simile illusione. Il marxismo dopo
Marx ha piuttosto accettato – sia nella sua versione riformista, sia in quella
totalitaria – il sacrificio della singolarità umana e della natura, di fronte
al feticcio del piano, dello sviluppo e dell’incremento quantitativo delle
forze. L’intenzione magica della volontà di potenza ha continuato a prevalere
sulla possibilità del “gioco”, preconizzata da Fourier.
Nota. Il motivo escatologico -nella forma radicale con cui
si presenta in Capitalismo come religione e in generale in tutta la
produzione di Benjamin fino ai primi anni Trenta- ha forse qualche radice in
una corrente della mistica ebraica, studiata in più occasioni da Scholem, e
orientata in direzione antinomica. L’idea estrema dei seguaci più radicali di
S. Zevi è che quanto più si distrugge l’ordine simbolico esistente e la Legge
nella sua configurazione attuale, tanto più si affretta e si approssima l’avvento
messianico: “Per compiere la sua missione, il potere della santità –incarnato
dal messia- deve discendere nell’impurità e il bene deve assumere la forma del
male. Questa missione è carica di pericolo, poiché sembra rafforzare il potere
del male prima della sua sconfitta definitiva…Soltanto la trasformazione
completa del bene in male avrebbe esaurito il pieno potenziale di quest’ultimo
e l’avrebbe quindi fatto esplodere, per così dire, dall’interno”[46]. Non si deve dunque attenuare la negatività che minaccia lo
stato attuale del mondo, ma incrementarla il più possibile, fino a che il
Messia non possa più ignorare la necessità del suo intervento. La violazione
della legge vigente, perché si sgombri lo spazio di una nuova configurazione
etica e metafisica, può giungere fino all’apostasia, mentre i comportamenti
sessuali e morali si pongono decisamente “al di là del bene e del male”, nella
loro declinante distinzione attuale.
Una sistemazione teorica di questa teologia antinomica è
compiuta da Avraham Cardoso, per cui la Legge orale rabbinica corrisponde a
un’epoca in cui domina “l’Albero della conoscenza”, che ora però sta per
essere sostituita da un’altra, governata dall’ “Albero della vita”, per cui:
“Chiunque desideri continuare a servire Dio nel modo attuale…distrugge le
piantagioni e profana lo Sabbat”[47], e non riconosce l’avvento messianico. Abbiamo visto come
anche in Kafka comparisse questa distinzione dei due Alberi, che è in certa
misura già presente nello Zohar. La colpevolizzazione e l’indebitamento
universale del capitale sono omologhi a quelli praticati dalla Legge ormai
pervertita e inefficace del Tribunale del Processo. In questo senso i sabbatiani
interpretavano, certo tendenziosamente, passi delle Scritture e del Talmud: “Il
Talmud dice: “Il figlio di Davide viene soltanto in un’età che o è
completamente colpevole o è completamente innocente”[48].
A questo contesto potrebbe riferirsi l’enigmatica e curiosa
espressione di Benjamin, per cui occorrerebbe “implicare Dio stesso in questa
colpa/debito, al fine di suscitare in Lui stesso interesse per l’espiazione”[49]. Il nichilismo teologico-politico fu poi portato alle estreme
conseguenze da J. Frank e Junius Frey, che partecipò alla Rivoluzione francese.
Esso si diffonde nella “condizione che precede e annuncia la ‘battaglia
finale’: stato di turbamento e di simmetrica sovversione dei valori, in cui
l’esperienza della tenebra diviene matrice di armi contro se stessa; “Non
sarebbe esatto che nel tempo storico erano così calate le immagini e le
prospettive del mito, innanzitutto del mito messianico. Era invece il tempo del
mito che diveniva senza residuo tempo storico…L’utopia era la ‘nuova legge’ che
non procedeva dall’antica, ma antinomicamente e paradossalmente cancellava
l’antica”[50].
Come afferma Scholem, questa particolare tendenza
antinomica, presente in forma moderata nella dottrina di Luria e poi esplosa
con Zevi, ha sicuramente una antica radice gnostica. E’ gnostica infatti l’idea
che la radicale negazione del mondo (e questo comprende più o meno
consapevolmente l’assetto attuale dei suoi poteri e delle sue leggi) sia
indispensabile per il suo totale rovesciamento, per il palesarsi del dio
nascosto e la redenzione delle sue scintille di luce, disperse nelle tenebre
della materia. In modo analogo agli gnostici, anche se rovesciandone
letteralmente i termini, gli ultimi sabbatiani distinguono tra il “Dio
nascosto”, oggetto di conoscenza intellettuale astratta, “e il Dio vivente
della rivelazione –che è per loro il ‘Dio d’Israele’ ”[51]. Nella gnosi, come nella predicazione sabbatiana, “…gli
eletti stanno sotto una nuova legge spirituale e rappresentano una nuova
realtà, e quindi sono anche al di là del bene e del male”[52].
E’ lecito riconoscere nella teologia gnostica un remoto
fondamento dell’impulso sovversivo e rivoluzionario all’interno della cultura
occidentale e sicuramente anche una causa della sua possibile caduta in una Hybris,
in una costellazione minacciosa, entro la quale convivono la credenza in una élitesuperiore
composta solo dai chiamati, la pretesa di possedere la totalità della verità e
un disprezzo illlimitato per i limiti dell’umano: “Il mondo è qui soltanto
oggetto negativo, non anche positivo, del suo [della gnosi] orientamento, ossia
il suo “opposto” incondizionato; la realtà mondana non deve essere sostituita
con un’altra e il cambiamento non riguarda le “condizioni”, ma il contenuto
della convivenza, anzi, idealmente, in primo luogo la singola esistenza più
intima viene già de facto modificata attraverso la sua rivoluzione”[53]. A questi tratti radicali appartengono la fede in un
principio “incommensurabile antimondano”, la concezione del “pneuma” che
“suppone un’idea di libertà e di autocoscienza di genere inaudito”, il
sovvertimento delle leggi morali, e certo anche il rischio di un “delirio di
superiorità”, che poi precipita –per essere contenuto- in forme
ascetico-autoritarie di comunità.
7. All’interno della tradizione cristiana, l’idea
apocalittica suppone l’immagine dell’Anticristo, nella sua ambivalenza demonica
(presente del resto nelle “Tesi” di Benjamin). Il suo carattere è radicalmente
paradossale: bisogna affrettarne l’avvento, dato che il suo apparire è comunque
una premessa necessaria della parusia messianica, e accettare allora
l’intensificazione negativa, che gli appartiene e prelude al rovesciamento del
mondo e alla fine della storia, oppure frenarlo, opporgli un katechon e
contenere il dilagare della distruzione e del caos? Come dice Paolo o un suo
interprete -nella Seconda lettera ai Tessalonicesi: “Il Signore Gesù
non verrà prima del compiersi dell’opera del suo avversario (Antikeimenos). Il
suo giorno dovrà essere preceduto dal pieno dispiegarsi della apostasia (discessio),
del mistero dell’anomia (mysterium iniquitatis) – al mistero che è
l’epifania del Cristo segue l’apocalisse secondo la forza di Satana,
dell’Empio, di colui che finge di essere Dio e come Dio esige di
essere onorato. Il giorno del Signore deve dunque essere atteso, attraversando
questo tempo di immensa devastazione”[54]. E’ probabilmente ai colloqui con F. Lieb, oltre che ad
alcuni suoi saggi, che Benjamin deve la definitiva cristallizzazione
dell’immagine dell’Anticristo nelle “Tesi”.
Negli ultimi scritti sembra comunque esserci una minore
fiducia nella prospettiva escatologica e una particolarissima e originale
riproposizione del katechon, in una forma diversa da quella indicata da C.
Schmitt[55]. In effetti, il confronto col nazismo, a partire dal 1933 in
poi, porta Benjamin a una radicale riflessione sullo stato d’eccezione. Il
mutamento decisivo che si tratta ora di considerare è ladilazione della
catastrofe a condizione storica perpetuabile e permanente.
Mentre dalla prospettiva di Capitalismo come religione,
l’incombere della disperazione e della desolazione portava anche sulla soglia
di una rottura e di un rovesciamento dello spirito demoniaco del capitale, col
nazismo si palesa l’inquietante evidenza che la catastrofe può essere protratta
e dilatata, e il suo tempo divenire durata abitudinaria e quotidiana. Gli Ordini
(statuali, giuridici, ecclesiali) non solo non si pongono più come un katechon che
eviti la distruzione e il caos, ma anzi come i suoi agenti, che producono una
situazione di emergenza permanente: con questa esistenza ossimorica si può e si
deve indefinitamente convivere. A questa condizione imprevedibile, in cui il katechon dilata
a normalità lo stato catastrofico invece di impedirlo o rinviarlo, Benjamin si
riferisce nella celebre tesi IX, dedicata all’Angelus Novus di Klee[56].
Nelle “Tesi” Benjamin scrive anche della rivoluzione come arresto della
catastrofe, distinguendo ilvero stato d’emergenza rispetto a quello falso,
proclamato dal potere vigente, e che in realtà diviene “regola”, condizione
permanente e durata del negativo: “L’istituto dello Ausnahmezustand non
dovrebbe più servire ad assicurare il potere assoluto dello Stato
secolarizzato, come sostiene la teoria della sovranità di C. Schmitt. La
sospensione del diritto dev’essere piuttosto intesa come istituto della
Giustizia e dell’assoluzione del diritto. Ciò ricorda una antica festa
tradizionale ebraica, in cui tutte le obbligazioni erano cancellate, o anche il
Carnevale, in cui per un certo tempo era destituito l’ordine
clericale-feudale…”[57]. La rivoluzione, lo stato d’emergenza proclamato dagli
oppressi e non dai sovrani, mira a sospendere la rovinosa continuità del
dominio (sia nel suo volto politico totalitario, sia come catena del
debito-colpa del capitale). Arresto non vuol dire: evitiamo di
distruggere l’ordine, lo Stato, la legge (d’altronde già ampiamente dissolti
dal movimento contraddittorio del capitale), ma: interrompiamo questa
condizione, in cui proprio la distruzione e l’emergenza sono lo
Stato.
Il capitale si è dimostrato e si dimostra capace di una
indefinita capacità metamorfica, di continue rivoluzioni passive, che
riconducono le brecce escatologiche e rivoluzionarie entro i cardini di un
sistema di potere. Il millenarismo nazista non pone fine alla storia, ma la
trasforma in eccezione permanente. L’utopia del capitale –fantasmagoria di una
potenza che autogenera danaro dal nulla- presuppone la crisi, non più come
emergenza transitoria e superabile, ma come condizione continua e proficua. Il
motivo escatologico è addomesticato e reintrodotto ciclicamente come
“distruzione creatrice” di nuovo valore e di nuovi valori all’interno del
movimento del capitale. L’arresto -di cui parla Benjamin- non è
dunque né il katechon né l’eskaton come tradizionalmente intesi:
col primo ha in comune l’idea di voler evitare il procededere della catastrofe,
col secondo l’idea che proprio per ottenere questo risultato –di per sé katechontico-
occorre ormai rompere definitivamente con l’ordine esistente.
L’accrescersi della potenza del negativo ha perso il suo
carattere escatologico, é diventato paradossale continuazione ad ogni costo, sans
trêve et sans merci, della logica debitoria del capitale. Alla negatività non
c’è fine e non c’è una fine, né un punto limite di ribaltamento necessario.
Essa può approfondirsi illimitatamente in se stessa, senza che si produca una
reazione decisiva, o un salto discontinuo di qualità, fino all’annientamento
del pianeta e della specie uomo. I campi di sterminio –negatività assoluta
realizzata- sono la prova che non esiste alcuna forza mistica della negazione
della negazione, capace di portare alla salvezza gli oppressi.
La rivoluzione come arresto di tale movimento richiede un
“giudizio politico” (Arendt) comune, che apra una breccia nella
dilazione e nel destino del negativo: un’azione radicata nella situazione e
richiesta da essa, ma non garantita da alcun principio storico metafisico e infondata,
scaturita dall’intesa e dal riconoscimento: anarchica nel senso
letterale del termine. L’idea della rivoluzione si separa così dall’orgoglio
della sua tradizione gnostica e si configura come debole forza messianica,
cioè come capacità di intervenire -senza garanzie- nella contingenza della
storia: “La salvazione si affida alla piccola faglia nella catastrofe continua”[58].
Digressione. La negazione della negazione è una sorta di
colpo di stato dialettico, e tale rimane anche nella versione secolarizzata di
Marx, che la fa derivare dalla contraddizione tra sviluppo delle forze
produttive e rapporti di produzione. La fede escatologica che l’estremo della
negatività si capovolga necessariamente nel Mondo Nuovo, nel contesto del
capitalismo attuale, ha tutti i caratteri di un mito storico, con una funzione
analoga a quello della repubblica romana per i rivoluzionari francesi del 1789.
E’ cioè un’immagine di sogno, che richiede interpretazione. Pure, vien
riproposta in varie forme anche nel pensiero critico contemporaneo.
Il passo di Marx sulla negazione della negazione si trova in epigrafe a un importante capitolo del libro Comune di Hardt-Negri e l’idea che dall’interno stesso delle contraddizioni del capitale fioriscano le nuove soggettività che lo abbatteranno è ripetuta più volte nel testo, per esempio: “Questo è il modo in cui il capitale genera i suoi becchini: se vuole perseguire i suoi interessi e vuole autoconservarsi, il capitale deve necessariamente incentivare il potere e l’autonomia della moltitudine che nel frattempo diventano sempre più grandi. Quando l’accumulazione dei poteri della moltitudine oltrepasserà un certo livello, la moltitudine sarà in grado di padroneggiare autonomamente la ricchezza comune”[59]. Il termine moltitudine ha sostituito quello del proletariato, ma la logica del rovesciamento è la stessa.
Si può obiettare che ora questo ragionamento è giustificato dalle profonde trasformazioni del lavoro e dal suo divenire sempre più immateriale, cognitivo, fondato sull’estensione sociale del comune e della comunicazione. E’ questa produttività mentale, che il capitale non può non incentivare nella sua configurazione attuale e d’altra parte sfugge sempre più intensamente al suo controllo. Così dovrebbeessere: però così non è, ed è necessario spiegare perché ciò che in potenza è liberatorio incrementi in forme inedite la schiavitù dei salariati e la loro dipendenza da rapporti di padronanza: “Anziché focolaio di crisi, la sproporzione tra il ruolo assolto dal sapere e la decrescente importanza del tempo di lavoro ha dato luogo a nuove e stabili forme di dominio”[60]. Difficile pensare che la forza produttiva immateriale, in quanto tale, produca un attenuarsi dello sfruttamento, che invece si estende dal corpo alla mente, cancella ogni confine tra tempo di lavoro e tempo libero, produce tipologie inedite di controllo e di manipolazione: “L’innovazione tecnologica non è universalistica…Il postfordismo riedita tutto il passato della storia del lavoro, da isole di operaio-massa a enclaves di operaio professionale, da un rigonfiato lavoro autonomo a ripristinate forme di dominio personale. I modelli di produzione succedutisi nel lungo periodo si ripresentano sincronicamente, quasi alla stregua di una esposizione universale”[61].
Il passo di Marx sulla negazione della negazione si trova in epigrafe a un importante capitolo del libro Comune di Hardt-Negri e l’idea che dall’interno stesso delle contraddizioni del capitale fioriscano le nuove soggettività che lo abbatteranno è ripetuta più volte nel testo, per esempio: “Questo è il modo in cui il capitale genera i suoi becchini: se vuole perseguire i suoi interessi e vuole autoconservarsi, il capitale deve necessariamente incentivare il potere e l’autonomia della moltitudine che nel frattempo diventano sempre più grandi. Quando l’accumulazione dei poteri della moltitudine oltrepasserà un certo livello, la moltitudine sarà in grado di padroneggiare autonomamente la ricchezza comune”[59]. Il termine moltitudine ha sostituito quello del proletariato, ma la logica del rovesciamento è la stessa.
Si può obiettare che ora questo ragionamento è giustificato dalle profonde trasformazioni del lavoro e dal suo divenire sempre più immateriale, cognitivo, fondato sull’estensione sociale del comune e della comunicazione. E’ questa produttività mentale, che il capitale non può non incentivare nella sua configurazione attuale e d’altra parte sfugge sempre più intensamente al suo controllo. Così dovrebbeessere: però così non è, ed è necessario spiegare perché ciò che in potenza è liberatorio incrementi in forme inedite la schiavitù dei salariati e la loro dipendenza da rapporti di padronanza: “Anziché focolaio di crisi, la sproporzione tra il ruolo assolto dal sapere e la decrescente importanza del tempo di lavoro ha dato luogo a nuove e stabili forme di dominio”[60]. Difficile pensare che la forza produttiva immateriale, in quanto tale, produca un attenuarsi dello sfruttamento, che invece si estende dal corpo alla mente, cancella ogni confine tra tempo di lavoro e tempo libero, produce tipologie inedite di controllo e di manipolazione: “L’innovazione tecnologica non è universalistica…Il postfordismo riedita tutto il passato della storia del lavoro, da isole di operaio-massa a enclaves di operaio professionale, da un rigonfiato lavoro autonomo a ripristinate forme di dominio personale. I modelli di produzione succedutisi nel lungo periodo si ripresentano sincronicamente, quasi alla stregua di una esposizione universale”[61].
Può essere anche vero che il tempo di lavoro, in epoca
postfordista, sia divenuto del tutto inadeguato a misurare il valore della ricchezza
prodotta, come afferma un ormai commentatissimo passo dei Grundrisse di
Marx, e tuttavia questa misurazione continua essere applicata, in modo
spietato. D’altra parte, il progetto attuale del capitale sembra comporre in
Uno tempi e luoghi difformi e apparentemente contraddittori: la diffusione
delle forze produttive cognitive e immateriali non esclude, ed anzi prevede, un
feroce sfruttamento “fordista” o addirittura la violenza dell’accumulazione
originaria (non solo fuori d’Europa, ma anche nelle “periferie” urbane
dell’Occidente). Non si tratta di “ritardi”, che verranno colmati, portando
tutta la produzione al livello del general intellect. C’è un nesso
strutturale fra tipologie di sfruttamento “arcaiche” e l’astratto lavoro
immateriale: “L’accumulazione del capitale si alimenta di ineguaglianze sociali
e spaziali necessarie al suo metabolismo…”[62] e il suo movimento astratto agisce cercando di far
coesistere a proprio profitto le forme di dominio più antiche e il sapere
altamente qualificato della scienza.
Del resto, che il tempo di lavoro sia divenuto misura
inadeguata del valore non vuol dire affatto che si sia trasformato o stia per
trasformarsi in tempo libero. Si può ritenere che la differenza fra i due si
stia sempre più assottigliando a vantaggio di un “tempo di produzione” (Virno)
generico, che comprende anche le ore pseudo-ludiche passate al computer o al
cellulare, addestrando comunque le proprie facoltà percettive e cognitive nel
senso richiesto dalle attuali forme di precarietà; oppure si può mantenere la
vecchia terminologia e considerare “tempo di lavoro” queste stesse attività,
benché si svolgano fuori dai luoghi di produzione tradizionali.
E’ vero che l’operaio posto a controllare una macchina, che
deve premere un pulsante esattamente ogni sessanta minuti, per cinquantanove
resta apparentemente inattivo, sta accanto ad essa senza far niente.
Ma è davvero un far niente? In realtà la tensione muscolare inconsapevole,
l’attenzione rivolta a non mancare il minuto decisivo, la latente “cura” e
apprensione perché l’intero meccanismo funzioni regolarmente, i rumori e le
luci, che comunque gli inviano messaggi dal macchinario, tutto ciò non è ancora lavoro,
dispendio di energia fisica e mentale, sia pure diverso da quello “fordista”?
Computandolo in questo modo, è da dimostrare che il “tempo” ad esso destinato
sia effettivamente diminuito o non piuttosto si si sia esteso a quasi tutta la
vita. Certo si può dire -e in fondo non è molto diverso- che il tempo di produzione
comprende ora “anche il non-lavoro, le esperienze e le conoscenze maturate al
di fuori fabbrica e dell’ufficio” oppure, con una sfumatura diversa dei
termini, che la cooperazione sociale del “lavoro postfordista è sempre, anche,
lavoro sommerso”, e che questo è in primo luogo “vita non retribuita, ossia la
parte di attività umana che, omogenea in tutto a quella lavorativa, non è però
computata come forza produttiva”[63].
Resta il fatto che il tempo dominato e asservito in qual
modo si voglia alla creazione di plusvalore relativo, tende nelle tipologie
attuali di produzione ad aumentare a dismisura e nient’affatto a produrre forme
di potenziale libertà, che attendano solo un colpo di gomito per superare
l’egemonia del capitale. Per interrompere il dominio del lavoro astratto, anche
nel postfordismo, occorre dunque un’azione politica che spezzi la sua
continuità e non nasce dallo sviluppo automatico delle forze produttive
(neanche di quelle cognitive) e delle loro contraddizioni: queste al massimo
producono una situazione di crisi in cui tale azione sarebbe possibile e pensabile,
ma nient’affatto destinale o necessaria.
In che direzione conviene muoversi per costruire una tale soggettività? In un recente e interessante scambio di lettere con M. Hardt, J. Holloway propone un ritorno alla qualità e alla specificità dei valori d’uso, dunque un mutamento della produzione, che dovrebbe orientarsi verso forme comunalistiche, in parte ereditate dal passato, in parte inventate ex novo. Si tratterebbe di opporre il lavoro vivo e concreto a quello astratto del capitale, accettando se necessario un tasso di decrescita e una limitazione dell’attuale sfruttamento delle risorse della terra.
Hardt critica questa prospettiva, giudicandola affetta da regressione romantica verso il mondo artigianale e contadino: “Nella tua riflessione, il lavoro astratto è un antagonista fondamentale e, se capisco bene, lo sono i processi concettuali più generali di astrazione… Un progetto politico che afferma il valore d’uso sul valore di scambio mi sembra un tentativo nostalgico di riedificare un ordine sociale pre-capitalista. Al contrario, il progetto di Marx, come lo capisco io, si apre la strada all’interno della società capitalistica per uscire dall’altro lato. Allo stesso modo, non credo che il lavoro astratto sia l’antagonista. Dire che senza lavoro astratto non ci sarebbe proletariato costituisce una semplificazione (anche se credo sia importante). Se il lavoro del muratore, del carpentiere, dell’agricoltore, del tessitore e del meccanico di automobili fossero concreti e incommensurabili, non avremmo un concetto generale del lavoro (del lavoro umano in generale, a prescindere da come è stato impiegato, come dice Marx) che potenzialmente li vincolino come classe”[64].
Probabilmente entrambi i poli di questa alternativa non giungono a soluzioni interamente soddisfacenti. Le riflessioni di Benjamin possono contribuire forse ancora al dibattito attuale. Sostanzialmente contrario a ogni ritorno al valore d’uso e al premoderno (concepibile solo con la restaurazione di forme mitiche e rituali-magiche di potere), egli è però anche radicalmente critico verso il principio di astrazione sviluppato entro la dimensione del capitale. La seconda tecnica –che pone un rapporto armonico con la natura e una relazione di gioco intersoggettivo- prevede un principio di simbolizzazione altrettanto complesso ma radicalmente alternativo a quello del capitale: non si sviluppa dal suo interno, ma sempre e decisamente contro di esso. Esiste una rottura epistemologica radicale tra prima e seconda tecnica, che presuppone una discontinuità politica altrettanto netta.
In che direzione conviene muoversi per costruire una tale soggettività? In un recente e interessante scambio di lettere con M. Hardt, J. Holloway propone un ritorno alla qualità e alla specificità dei valori d’uso, dunque un mutamento della produzione, che dovrebbe orientarsi verso forme comunalistiche, in parte ereditate dal passato, in parte inventate ex novo. Si tratterebbe di opporre il lavoro vivo e concreto a quello astratto del capitale, accettando se necessario un tasso di decrescita e una limitazione dell’attuale sfruttamento delle risorse della terra.
Hardt critica questa prospettiva, giudicandola affetta da regressione romantica verso il mondo artigianale e contadino: “Nella tua riflessione, il lavoro astratto è un antagonista fondamentale e, se capisco bene, lo sono i processi concettuali più generali di astrazione… Un progetto politico che afferma il valore d’uso sul valore di scambio mi sembra un tentativo nostalgico di riedificare un ordine sociale pre-capitalista. Al contrario, il progetto di Marx, come lo capisco io, si apre la strada all’interno della società capitalistica per uscire dall’altro lato. Allo stesso modo, non credo che il lavoro astratto sia l’antagonista. Dire che senza lavoro astratto non ci sarebbe proletariato costituisce una semplificazione (anche se credo sia importante). Se il lavoro del muratore, del carpentiere, dell’agricoltore, del tessitore e del meccanico di automobili fossero concreti e incommensurabili, non avremmo un concetto generale del lavoro (del lavoro umano in generale, a prescindere da come è stato impiegato, come dice Marx) che potenzialmente li vincolino come classe”[64].
Probabilmente entrambi i poli di questa alternativa non giungono a soluzioni interamente soddisfacenti. Le riflessioni di Benjamin possono contribuire forse ancora al dibattito attuale. Sostanzialmente contrario a ogni ritorno al valore d’uso e al premoderno (concepibile solo con la restaurazione di forme mitiche e rituali-magiche di potere), egli è però anche radicalmente critico verso il principio di astrazione sviluppato entro la dimensione del capitale. La seconda tecnica –che pone un rapporto armonico con la natura e una relazione di gioco intersoggettivo- prevede un principio di simbolizzazione altrettanto complesso ma radicalmente alternativo a quello del capitale: non si sviluppa dal suo interno, ma sempre e decisamente contro di esso. Esiste una rottura epistemologica radicale tra prima e seconda tecnica, che presuppone una discontinuità politica altrettanto netta.
Non si tratta
dunque di opporre techne e comunitarismo artigianale, ma la scienza
su cui fondare un comune capace di sviluppare il gioco e il riconoscimento
intersoggettivo, contro una tecnica magica che sviluppa il dominio.
Non è lo stesso utensile, costruito con lo stesso progetto, che basterebbe
cambiare di mano per renderlo da negativo positivo: è uno strumento
materialmente e idealmente opposto, che prevede la distruzione dell’altro, come
la tecnica delle energie naturali si basa su una visione antropologica e
esistenziale incompatibile con quella fondata sul petrolio o sul carbone. La
rivoluzione epistemologica è altrettanto radicale di quella politica.
Non ogni astrazione coincide necessariamente con quella sviluppata dal capitale: “…L’astrazione reale che Marx pone a base della sua analisi del Capitale…non è l’astrazione logico-mentale, che è propria dei processi conoscitivi”[65]; questa capacità generalmente umana di simbolizzazione più che coincidere con la particolare figura della scienza capitalista collide con essa e con la sua intenzione di fondo, e da questa viene negata e atrofizzata. Si può invece concepire un lavoro della mente altamente complesso, che si oppone alla sua contraffazione nel “lavoro mentale” e non mira alla negazione dell’essere psichico-affettivo dell’uomo, ma al suo affinamento simbolico e intersoggettivo: “…In esso il soggetto umano entra in un rapporto, non di scissione e contrapposizione, ma di distanziamento e simbolizzazione con il proprio corpo emozionale…”[66], l’attività mentale e la physis si affinano reciprocamente nel “gioco” descritto da Benjamin e da lui opposto alla “magia” del lavoro astratto. Né ritorno al valore d’uso, né proseguimento della logica dell’astrazione reale, ma costituzione di un essere in comune antagonistico rispetto a quello del capitale. L’attività simbolica e non l’astrazione capitalistica è una “funzione trascendentale dell’esperienza umana”[67] o –per usare un termine che verrà chiarito in seguito- un esistenziale storico.
Non ogni astrazione coincide necessariamente con quella sviluppata dal capitale: “…L’astrazione reale che Marx pone a base della sua analisi del Capitale…non è l’astrazione logico-mentale, che è propria dei processi conoscitivi”[65]; questa capacità generalmente umana di simbolizzazione più che coincidere con la particolare figura della scienza capitalista collide con essa e con la sua intenzione di fondo, e da questa viene negata e atrofizzata. Si può invece concepire un lavoro della mente altamente complesso, che si oppone alla sua contraffazione nel “lavoro mentale” e non mira alla negazione dell’essere psichico-affettivo dell’uomo, ma al suo affinamento simbolico e intersoggettivo: “…In esso il soggetto umano entra in un rapporto, non di scissione e contrapposizione, ma di distanziamento e simbolizzazione con il proprio corpo emozionale…”[66], l’attività mentale e la physis si affinano reciprocamente nel “gioco” descritto da Benjamin e da lui opposto alla “magia” del lavoro astratto. Né ritorno al valore d’uso, né proseguimento della logica dell’astrazione reale, ma costituzione di un essere in comune antagonistico rispetto a quello del capitale. L’attività simbolica e non l’astrazione capitalistica è una “funzione trascendentale dell’esperienza umana”[67] o –per usare un termine che verrà chiarito in seguito- un esistenziale storico.
Note
[2] Capitalismo come religione, cit. p.43. D’ora innanzi
numero di pagina nel testo.
[3] Vedi infra, pp. xxx, per i concetti di fantasmagoria
e immagine di sogno.
[4] C. Salzani, Politica profana…, cit. pp. 25-26.
[5] S. Mallarmé, Opere, Lerici, Milano 1963, pp.
303-304. Cfr. L. Parinetto, Faust e Marx, Mimesis, Milano 2004, sul
sistema metaforico dell’opera di Marx.
[6] Ivi, pp. 311-313.
[7] K. Marx, Il Capitale, Newton Compton, Roma 2011, p.
81.
[8] Ivi, 117.
[9] Ivi, 119-120.
[10] Cfr. nei Grundrisse: “Il culto del danaro ha il suo
ascetismo, la sua rinuncia e suoi sacrifici: la parsimonia e la frugalità, il
disprezzo per i godimenti terreni, temporali e transitori: la caccia al tesoroeterno.
Di qui la connessione tra il puritanesimo inglese o anche il protestantesimo
olandese e il far denaro”(K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica
dell’economia politica, Einaudi, Torino 1976, p. 173).* Il tema della condotta
di vita ascetica dei primi imprenditori capitalisti sarà sicuramente un tema
weberiano. Cfr. La tesi di dottorato di G. Ferraro, Economia del
disincanto, Dipartimento di filosofia e scienze sociali dell’Università del
Salento. In questo passo tuttavia è da notare l’associazione tra “culto” e
circolazione del danaro”.
[11] K. Marx, Il capitale, cit. p. 115.
[12] Ivi, p. 116.
[13] Ivi, p. 131. Cfr. il saggio di W. Hamacher,
“Schuldgeschichte”, in Kapitalismus als Religion, cit., in particolare p.
94 e sgg.
[14] Sul denaro come dio e intermediario (K. Marx, Opere,
vol. III, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 230)*: “Attraverso questo
intermediario estraneo [il denaro] –mentre è l’uomo stesso che dovrebbe essere
l’intermediario per l’uomo- l’uomo vede la sua volontà, la sua attività ed il
suo rapporto con altri come una potenza indipendente da lui e dagli altri. La
sua schiavitù giunge dunque al culmine. Che adesso questo intermediario divenga
il Dio reale è chiaro, infatti l’intermediario è il potere reale su
ciò con cui esso mi media. Il suo culto diventa fine a se stesso”. Sulla
struttura trinitaria: “Ma Cristo è il dioalienato e l’uomo alienato. Dio
ha ormai valore soltanto in quanto rappresenta Cristo, e l’uomo ha valore in
quanto rappresenta Cristo. La stessa cosa vale per il danaro”(Ivi, p. 231).
Cfr. B. P. Priddat, “Deus creditor: Walter Benjamins ‘Kapitalismus und
Religion’ “, in Kapitalismus als Religion, cit. pp. 218 e sgg.
[15] K. Marx, Opere, vol.III, cit. pp. 233-234.
[16] Ivi, p. 234.
[17] Ibidem.
[18] Cit. in seguito con numero di pagina nel testo, dalla
trad. di F. Fortini, Mondadori, Milano 2001.
[19] C. Salzani, “Politica profana, o dell’attualità di Capitalismo
come religione”, in W. Benjamin,Capitalismo come religione, cit. p. 20.
[20] F. Nietzsche, L’anticristo, ed. Mondadori p. 163.*
[21] Par. 41. Trad. mia.*
[22] Ivi.*
[23] S. Freud, “Carattere ed erotismo anale”, in Opere
complete, vol. 5, Bollati Boringhieri, Torino 1972, *Il passo così continua:
“E’ noto che l’oro che il diavolo regala alle sue drude si tramuta, quando egli
se n’è andato, in sterco; e certamente il diavolo non è altro che la
personificazione della vita pulsionale inconscia rimossa. Nota è anche la
superstizione che collega la scoperta dei tesori con la defecazione, e così
pure tutti ricordano la figura del ‘cacatore di ducati’. Fin nelle dottrine
dell’antica Babilonia, l’oro è lo sterco infernale”.
[24] Cit. in G. Dostaler, B. Maris, Capitalismo e
pulsione di morte, La Lepre, Roma 2009, p. 52.
[25] Hamacher, “Schuldgeschichte…”, cit. 80-81.
[26] Ivi, 83. Cfr. il saggio di W. Benjamin “Per la critica
della violenza”, in Opere complete, vol. I, Einaudi, Torino 2008, p. 480.
[27] Ivi, 95-96.
[28] Ivi, 96.
[29] K. Marx, Il capitale, cit. p. 542.
[30] W. Bemjamin, Opere complete, vol. I, cit. p. 463.
[31] W. Benjamin, Opere complete, vol. V, Einaudi,
Torino 2003, p.541.
[32] Ibidem.
[33] Ivi, p. 543.
[34] Ivi, p. 544. Ho adeguato la traduzione delle parole
finali della citazione, che sono uguali nei due testi tedeschi.
[35] W. Benjamin, Avanguardia e rivoluzione, Einaudi,
Torino 1973, p. 132.
[36] Ibidem.
[37] K. Marx, Il capitale, cit. p. 548.
[38] Cfr. W. Benjamin, “Sulla lingua in generale e sulla
lingua dell’uomo”, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, pp. 53 e sgg.
[39] “Tuttavia va qui osservato che il ‘dominio della natura’
definisce l’obiettivo della seconda tecnica solo in modo estremamente
discutibile; esso lo definisce dal punto di vista della prima tecnica. La prima
ha realmente l’intenzione di dominare la natura; la seconda, invece, mira
piuttosto a un’interazione tra natura e umanità”. (W. Benjamin, Opere
complete, vol. VI, Einaudi, Torino 2004, p. 280). Si tratta della prima stesura
del saggio (almeno nella numerazione seguita dall’edizione italiana), che è
alla base della versione francese, l’unica pubblicata in vita da Benjamin. Per
la complessa vicenda dell’opera, cfr. pp. 571ss.
[40] Ivi, nota 3, p. 532.
[41] W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit. p. 41.
[42] “Ma poiché l’avidita` di profitti della classe dominante
contava di soddisfarsi a spese di essa, la tecnica ha tradito l’umanità e ha
trasformato il letto nuziale in un mare di sangue”; invece essa dovrebbe essere
“non dominio della natura, dominio del rapporto tra natura e umanita”. W.
Benjamin,Opere complete, vol. II, Einaudi, Torino 2001, p. 462.
[43] W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit. p. 39.
[44] “Per la prima tecnica, l’impresa più grande è in un
certo senso costituita dal sacrificio umano”, W. Benjamin, Opere complete,
vol. VI, cit., p. 279. Il tema sarà poi ampiamente sviluppato da
Adorno-Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1997.
[45] Innanzittutto la distinzione tra le due tecniche si trova
in forma esplicita solo nella versione tedesca, contemporanea o quasi alla
versione francese pubblicata. Scompare nella versione ulteriore, pubblicata
postuma e considerata un tempo canonica. D’altra parte, esistono nel testo
passi che possono far pensare a una continuità progressiva nello sviluppo
dall’una tecnica all’altra, quasi fossero due stadi successivi, piuttosto che
due forme contrapposte.
[46] G. Scholem, Sabbetay Sevi. Il messia mistico,
Einaudi, Torino 2001, p. 786.
[47] Cit. ivi, p. 802.
[48] G. Scholem, Le grandi correnti della mistica
ebraica, Il Saggiatore, Milano 1965, p. 424.
[49] W. Benjamin, Capitalismo come religione, cit. p.
43.
[50] F. Jesi, Mitologie intorno all’Illuminismo,
Lubrina, Bergamo 1990, p. 21 e p. 71.
[51] G. Scholem, Le grandi correnti della mistica
ebraica, cit. p. 430.
[52] Ivi, p. 425.
[53] H. Jonas, Gnosi e spirito tardoantico, Bompiani,
Milano 2010, pp. 296-297.
[54] M. Cacciari, Il potere che frena, Adelphi, Milano
2013, p. 12. Cfr. su questo e sul rapporto Benjamin- Lieb, M. Cappitti, “Brevi
note sull’Anticristo. Lieb lettore di Solov’ëv”, in Il volto dell’altro,
L’ospite ingrato, Quodlibet, Macerata 2011, p. 225 e sgg.
[55] Rinvio per la concezione di Schmitt al mio La
memoria del possibile, cit. p. 89.
[56] “Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a
cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie
davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso è questa bufera”.
[57] B. Lindner, “Der 11.9.2001 oder Kapitalismus und
Religion”, in Ereignis. Eine fundamentale Kategorie der Zeiterfharung,
cit. p 208.
[58] W. Benjamin, Charles Baudelaire. Un poeta lirico
nell’età del capitalismo avanzato, a cura di G. Agamben, B. Chitussi e C.C.
Härle, Neri Pozza, Vicenza 2012, p. 591. D’ora innanzi CB.
[59]M. Hardt, A. Negri, Comune. Oltre il privato e il
pubblico, Rizzoli, Milano 2010, p. 310. Per inciso, la dialettica astratta
della negazione della negazione è quella contro cui più giustamente si sono
puntati gli strali di Kierkegaard, in modo –direi- definitivamente letale; per
contro, la parte viva della dialettica hegeliana è quella della “negazione
determinata”, che però non consente di dedurre -senza una discontinuità
assoluta- il positivo dal negativo.
[60] P. Virno, Grammatica della moltitudine: per
un’analisi delle forme di vita contemporanee, DeriveApprodi, Roma 2003, p. 105.
[61] Ivi, p. 112.
[62] D. Bensaid, Le Pari mélancolique, pos. Ebook 610.
[63] P. Virno, Grammatica…, cit. p. 109.
[64] Da http://www.democraziakmzero.org/ebook/:
M. Hardt, J. Holloway, Creare il comune, incrinare il capitalismo.
[65] R. Finelli, Tra moderno e postmoderno, Pensa, Lecce
2005, p. 244.
[66] Ivi, p. 246.
[67] Ivi, p. 245.
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