Joseph Stiglitz ✆ A.d. |
Joseph Stiglitz
Non ho bisogno spiegare quanto sia drammatica la situazione
economica in Europa, e in Italia in particolare. L’Europa è in
quella che può definirsi una «triple dip recession», con il reddito che
è caduto non una, ma tre volte in pochi anni, una recessione veramente
inusuale. Così l’Europa ha perso la metà di un decennio: in molti
paesi il livello del Pil pro capite è inferiore a quello del 2008,
prima della crisi; se si estrapola la serie del Pil europeo sulla base del
tasso di crescita dei decenni passati, oggi il Pil sarebbe del 17% più alto:
l’Europa sta perdendo 2000 miliardi di dollari l’anno rispetto al proprio
potenziale di crescita.
Oggi abbiamo a disposizione una grande quantità di
dati sull’impatto delle politiche di austerità in Europa. I paesi che
hanno adottato le misure più dure, ad esempio chi ha introdotto i maggiori
tagli al proprio bilancio pubblico, hanno avuto le performance peggiori. Non solo in termini di Pil, ma anche in termini di deficit
e debito pubblico. Era un esito previsto e prevedibile: se il
Pil decresce anche le entrate fiscali si riducono e questo non può far
altro che peggiorare la posizione debitoria degli stati.
Tutto ciò avviene non perché questi paesi non abbiano realizzato
politiche di austerità, ma proprio perché le hanno seguite. In molti paesi
europei siamo di fronte non a una recessione, ma a una depressione.
La Spagna, ad esempio, può essere descritta come un paese
in depressione se si guardano gli impressionanti dati sulla disoccupazione
giovanile di quel paese. La disoccupazione media è al 25% e non
ci sono prospettive di miglioramento per il prossimo futuro (…).
Quali sono le cause? Devo dirlo con molta franchezza:
l’errore dell’Europa è stato l’euro.
Quando faccio questa affermazione voglio dire che l’Euro
è stato un progetto politico, un progetto voluto dalla politica.
Robert Mundell, premio Nobel per l’economia, sosteneva fin dall’inizio che
l’Europa non presentava le caratteristiche di un’«area valutaria ottimale»,
adatta all’introduzione di un’unica moneta per più paesi. Ma a livello
politico si riteneva che la moneta unica avrebbe reso l’Europa più coesa,
favorendo l’emergere delle caratteristiche proprie di un area valutaria
ottimale. Questo non è successo; l’euro, al contrario, ha contribuito
a dividere e frammentare l’Europa.
Gli errori
concettuali
Vediamo gli errori concettuali alla base del progetto
dell’euro (…). Quando si crea un’area monetaria si vanno ad eliminare due
meccanismi di aggiustamento, i tassi di cambio e i tassi di
interesse. Gli shock sono inevitabili e in assenza di meccanismi di
aggiustamento si va incontro a lunghi periodi di disoccupazione.
I 50 stati federati degli Usa hanno un bilancio unitario
a livello federale e due terzi della spesa pubblica negli Stati
Uniti sono a livello federale. Quando uno stato come la California ha
un problema, può contare ad esempio sull’assicurazione pubblica contro la
disoccupazione, che è finanziata da fondi federali. Se una banca in
California è in crisi, viene attivato un fondo di emergenza anch’esso
dotato di risorse federali. Un’altra differenza di fondo tra gli stati che
compongo gli Usa e quelli dell’Unione Europea è che nessuno negli
Stati Uniti si preoccuperebbe per lo spopolamento del Sud Dakota
a seguito di una crisi occupazionale, anzi, l’emigrazione è vista
come un meccanismo fisiologico. Ma in Europa un’emigrazione come quella
che ha caratterizzato la componente più giovane e istruita della
popolazione del sud Europa — dove la disoccupazione giovanile è a
livelli elevatissimi — ha effetti negativi di impoverimento di quei
paesi, con tensioni sociali e frantumazione delle famiglie. Sono
costi sociali che non sono calcolati dal Pil. Tutto ciò era stato in qualche
modo previsto nel momento in cui si è deciso di introdurre l’euro (…).
Quali altri
errori sono stati compiuti? Innanzi tutto l’idea che le cose si sarebbero
risolte se i paesi avessero mantenuto un basso rapporto tra deficit
o debito pubblico e Pil. È l’idea che sta dietro al Fiscal compact.
Ma non c’è nulla nella teoria economica che offra un sostegno ai criteri
di convergenza adottati in Europa. Anzi, la realtà ci mostra come quei criteri
fossero sbagliati: Spagna e Irlanda avevano un bilancio pubblico in
avanzo prima del 2009, non avevano sprecato risorse. Eppure hanno avuto delle
crisi gravissime. Il debito ed il disavanzo di questi paesi si sono creati
successivamente, per effetto della crisi, e non viceversa. Il fatto
di aver introdotto un Fiscal compact che impone vincoli ferrei al disavanzo
e al debito non risolverà i problemi, né aiuterà a prevenire
la prossima crisi.
Un altro elemento che non è stato valutato appieno
è che quando un paese si indebita in euro, piuttosto che in una moneta
emessa dal paese che contrae il debito, si creano automaticamente le condizioni
per una crisi del debito sovrano. Il rapporto debito/Pil negli Stati Uniti
è analogo a quello europeo ma gli Usa non avranno mai una crisi del
debito sovrano come quella che ha investito l’Europa. Perché? Perché l’America si indebita in dollari,
e quei dollari verranno sempre rimborsati perché il governo degli
Stati Uniti può stampare i propri dollari.
La crisi che ha colpito i debiti sovrani di numerosi
paesi europei negli ultimi anni è simile a quanto ho visto molte
volte quando ero capo economista della Banca Mondiale: paesi come
l’Argentina o l’Indonesia hanno vissuto profonde crisi causate proprio
dal fatto che si erano indebitati in valute che non potevano controllare.
Quando questo avviene c’è sempre il rischio di una crisi del debito,
e in Europa le condizioni per questo tipo di crisi sono state create
con l’introduzione dell’euro. L’unica soluzione possibile nell’attuale situazione
europea è piuttosto semplice e si chiama Eurobond. Tuttavia,
sembrano esserci ostacoli politici a questa soluzione che la rendono
impraticabile, ma questa sembra l’unica via d’uscita logica.
Inoltre, con l’euro si è creato un sistema fondamentalmente
instabile. L’obiettivo iniziale era quello di favorire la convergenza tra
gli stati europei, attraverso la disciplina fiscale dei paesi membri. Il
sistema che è stato creato in realtà produce divergenza. Il mercato
unico, la libera circolazione dei capitali in Europa sembrava essere la
strada verso una maggiore efficienza economica. Ma non ci si rese conto del
fatto che i mercati non sono perfetti. Negli anni ottanta c’erano alcuni
economisti convinti del perfetto funzionamento dei mercati, mentre
oggi siamo consapevoli delle innumerevoli imperfezioni che li caratterizzano.
Ci sono imperfezioni da lato della concorrenza, imperfezioni sul versante
del rischio e dell’informazione. I mercati non sono quelli descritti
dai modelli economici semplificati (…).
L’insistenza sulle
riforme strutturali
Oggi si insiste molto sulle riforme strutturali che
i singoli stati dovrebbero introdurre (…) Quando si sente la parola
riforma si è portati a pensare a qualcosa dagli esisti sicuramente
positivi, ma sotto quest’etichetta possono nascondersi misure dagli esiti
profondamente negativi. Le riforme strutturali in realtà sono quasi tutte
viste dal lato dell’offerta, con obiettivi come l’aumento dell’offerta
o della produttività. Ma, è realmente questo il problema
dell’Europa e dell’economia globale? No. I problemi oggi sono
legati a una debolezza della domanda, non dell’offerta. Le riforme strutturali
sbagliate aggraveranno, attraverso la riduzione dei salari
o l’indebolimento degli ammortizzatori sociali, la debolezza della
domanda aggregata, con ovvie conseguenze su disoccupazione e dinamica
macroeconomica. E’ necessario anche riflettere sul momento in cui si possono
adottare tali riforme.
Senza scendere nel merito delle riforme del mercato del
lavoro nei diversi paesi europei, vorrei farvi notare che i paesi caratterizzati
da un mercato del lavoro fortemente flessibile non hanno evitato le gravi
conseguenze della crisi. Gli Stati uniti erano apparentemente il paese con
il mercato del lavoro più flessibile, ma hanno avuto una disoccupazione
al 10%. E anche oggi, quando viene propagandata la grande ripresa
dell’economia statunitense, con una disoccupazione ridotta al 6%, bisogna
pensare che c’è una fetta della popolazione americana sfiduciata al
punto tale da aver smesso di cercare un’occupazione. Il tasso di disoccupazione
reale degli Stati Uniti è attorno al 10% (…).
Che cosa dovrebbe dunque fare l’Europa? Sembra veramente
difficile che si possa risolvere la crisi intervenendo con riforme nei singoli
paesi senza riformare la struttura dell’eurozona nel suo complesso. Su
alcuni di questi interventi strutturali sembrerebbe esserci un discreto
consenso.
In primo luogo, una vera Unione bancaria, fatta di vigilanza
e di assicurazione comune sui depositi, faciliterebbe la risoluzione
congiunta delle crisi. Si tratta di misure urgenti, e l’urgenza
è data dai numerosi fallimenti di imprese e banche, che possono
danneggiare seriamente le prospettive di crescita future.
In secondo luogo, è necessario un meccanismo federale
di bilancio in Europa che potrebbe prendere, ad esempio, la forma degli Eurobond,
una soluzione pratica e facile che consentirebbe all’Europa di utilizzare
il debito in funzione anticiclica, come hanno fatto gli Stati Uniti in questi
anni. Se l’Europa potesse indebitarsi a tassi di interesse negativi
come stanno facendo gli Stati Uniti potrebbe stimolare molti investimenti
utili, rafforzare l’economia e creare occupazione. E i soldi che
oggi vengono spesi per il servizio del debito dei singoli paesi potrebbero
essere utilizzati per politiche di stimolo alla crescita.
In terzo luogo, l’austerità va abbandonata e va adottata
una strategia articolata di crescita. I paesi europei sono molto
diversi tra loro, ad esempio in termini di produttività. Sono dunque
necessarie politiche industriali che favoriscano la crescita della produttività
nei paesi più deboli, ma tali politiche sono precluse dai vincoli di bilancio
imposti agli stati membri. Un ostacolo ulteriore è rappresentato
dalla politica monetaria. Negli Stati Uniti la Federal Reserve ha un mandato
articolato su quattro obiettivi: occupazione, inflazione, crescita
e stabilità finanziaria. Oggi il principale obiettivo della Federal
Reserve è l’occupazione, non l’inflazione. Al contrario la Banca Centrale
Europea ha come unico mandato l’inflazione, si concentra unicamente
sull’inflazione. Questo viene da un’idea che era molto di moda, benché non
comprovata da alcuna teoria economica, quando lo Statuto della BCE
è stato redatto.
L’idea consisteva nel considerare la bassa inflazione
come l’elemento di traino fondamentale e quasi esclusivo per la crescita
economica. Nemmeno il Fondo Monetario Internazionale condivide più
questa convinzione, ma l’Europa non sembra in grado di abbandonarla. Questa
politica monetaria sbagliata, può produrre e sta producendo conseguenze
economiche gravi. Se gli Stati Uniti mantengono bassi i loro tassi di
interesse per stimolare la creazione di nuovi posti di lavoro, mentre in
Europa i tassi continuano a mantenersi più elevati, in una
logica anti-inflazionistica, questo favorisce l’afflusso di capitali
e l’apprezzamento dell’euro. E questo, ovviamente, rende ancora più
difficile esportare le merci europee con un evidente impatto negativo
sulla crescita. Quando gli Stati uniti hanno cominciato ad adottare un politica
monetaria fortemente espansiva ricorrendo al «Quantitative easing»,
l’esito positivo di questa politica è stato facilitato dal fatto che
l’Europa non ha fatto lo stesso.
Patologie USA e Unione
Europea
Se l’Europa avesse abbassato i propri tassi di interesse
nello stesso modo in cui l’ha fatto la Federal Reserve, la ripresa negli Stati
Uniti sarebbe arrivata molto più lentamente. Il paradosso, dunque,
è che gli Stati Uniti dovrebbero ringraziare l’Europa per aver aiutato
la ripresa dell’economia americana tramite le sue politiche monetarie
sbagliate. Ci sono altri aspetti da considerare. Viviamo oggi in un economia
fortemente legata all’innovazione tecnologica e alla conoscenza. Ma
per favorire l’innovazione sono necessari investimenti costanti e di
grandi dimensioni in comparti come l’istruzione e le infrastrutture.
Si tende a pensare agli Stati Uniti come a un’economia innovativa.
Questo è vero, ma è necessario ricordare negli Stati Uniti le
innovazioni più importanti, come Internet ad esempio, sono state sostenute
e finanziate attivamente dal governo. C’è stata una politica attiva
dell’innovazione. Quando ero a capo del Gruppo dei consiglieri economici
della Casa bianca, verificammo che i benefici degli investimenti pubblici
in innovazione erano superiori a quelli prodotti dagli investimenti
privati. Si tratta di esempi di politiche attive per la crescita che avrebbero
effetti molto positivi e che vanno in una direzione opposta
a quella del rigore che sta strangolando l’Europa.
Infine, dobbiamo renderci conto che sia l’economia europea
che quella statunitense erano affette da un patologia ancor prima
dell’esplosione della crisi. Fino al 2008 l’economia europea e quella americana
erano sostenute da una bolla speculativa che interessava principalmente
il settore immobiliare. In assenza di quella bolla si sarebbero visti tassi
di disoccupazione molto più elevati. Ovviamente non vogliamo tornare
a una crescita fondata su bolle speculative (…). È necessario
comprendere, dunque, quali sono i problemi di fondo che colpivano le
nostre economie già prima della crisi e che, oltre a non essere
stati affrontati sino ad oggi, sono peggiorati durante la recessione. Il
primo problema sono le disuguaglianze crescenti nelle nostre società. La
crisi ha contribuito ad aumentarle ovunque, negli Stati uniti i benefici
della ripresa sono andati quasi completamente all’1% più ricco della popolazione.
Negli Usa il valore del reddito mediano (quello che vede metà degli americani
con redditi più alti e l’altra metà con redditi inferiori) al netto
dell’inflazione è oggi più basso di 25 anni fa. Questo fa si che la famiglia
americana media non abbia soldi da spendere e, di conseguenza, la domanda
aggregata rimane debole. Il secondo elemento è legato alla necessità di
una trasformazione strutturale verso l’economia della conoscenza. Una trasformazione
che i mercati non sono in grado di gestire. Il ruolo di guida e di
stimolo di tali trasformazioni dev’essere esercitato dei governi
i quali, a causa della crisi attuale, non hanno in alcun modo svolto
questo compito (…)
La politica industriale sarà senz’altro uno degli strumenti
fondamentali per uscire da questa situazione. È necessario un Fondo
europeo per la disoccupazione e un Fondo europeo per le piccole
imprese, investimenti che vadano molto oltre quello che fa oggi la Banca europea
degli investimenti.
Oltre alle cose che andrebbero fatte vi sono, però, anche
cose che non vanno fatte. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, ho già
detto che maggiore flessibilità non aiuterà a risolvere i problemi
attuali, anzi li aggraverà aumentando le disuguaglianze e deprimendo
ulteriormente la domanda. La situazione italiana, ad esempio, vede già presente
un elevato grado di flessibilità; aumentarla ancora indebolirebbe l’economia
senza portare vantaggi. Bisogna essere molto cauti.
Cosa non bisogna fare
Un’altra cosa che l’Europa non deve fare è sottoscrivere
il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti
(Ttip). Un accordo di questo tipo potrebbe rivelarsi molto negativo per
l’Europa. Gli Stati Uniti, in realtà, non vogliono un accordo di libero scambio,
vogliono un accordo di gestione del commercio che favorisca alcuni specifici
interessi economici. Il Dipartimento del Commercio sta negoziando in
assoluta segretezza senza informare nemmeno i membri del Congresso
americano. La posta in gioco non sono le tariffe sulle importazioni tra
Europa e Stati uniti, che sono già molto basse. La vera posta in gioco
sono le norme per la sicurezza alimentare, per la tutela dell’ambiente
e dei consumatori in genere. Ciò che si vuole ottenere con questo
accordo non è un miglioramento del sistema di regole e di scambi
positivo per i cittadini americani ed europei, ma si vuole garantire
campo libero a imprese protagoniste di attività economiche nocive
per l’ambiente e per la salute umana. La Philip Morris ha fatto causa
contro l’Uruguay perché l’Uruguay vuol difendere i propri cittadini
dalle sigarette tossiche. La Philip Morris nel tentativo di contrastare
le misure adottate in Uruguay per tutelare i minori o i malati dai
rischi del fumo si è appellata proprio ai quei principi di libero scambio
che si vorrebbero introdurre con il Ttip. Sottoscrivendo un accordo
simile l’Europa perderebbe la possibilità di proteggere i propri
cittadini. Questo tipo di accordi, inoltre aggravano le disuguaglianze
e, in una situazione come quella europea, rischierebbero di approfondire
la recessione.
Si può ancora
aspettare?
L’Europa può ancora permettersi di aspettare? Se non si
cambia la struttura dell’eurozona, se l’Europa continua sulla strada
attuale, si candida a perdere un quarto di secolo, dovete esserne consapevoli.
Quando eravamo nel mezzo della Grande Depressione degli anni trenta, non si
sapeva quanto sarebbe durata, ed è finita solo con la seconda guerra mondiale
e la massiccia spesa pubblica che l’ha accompagnata. Non dobbiamo
augurarci che l’attuale crisi venga risolta allo stesso modo, ma oggi l’Europa
ha le mani legate.
Infine, la questione della democrazia. C’è un deficit di
democrazia creato dall’introduzione dell’euro. Gli elettori votano
a favore di un cambiamento delle politiche, poi arriva un nuovo
governo che dice «ho le mani legate, devo seguire le stesse politiche europee».
Questo compromette la fiducia nella democrazia. Oltre alle argomentazioni
economiche che rendono necessario un cambiamento c’è questa disaffezione
nei confronti della politica, che porta al rafforzamento delle forze estremiste.
Non è soltanto l’economia che è in gioco, la posta in gioco
è la natura delle società europee.
(Traduzione del Servizio
interpreti della Camera dei Deputati italiana. Trascrizione e revisione
di Dario Guarascio)