“Tres pasiones, simples, pero abrumadoramente intensas, han gobernado mi vida: el ansia de amor, la búsqueda del conocimiento y una insoportable piedad por los sufrimientos de la humanidad. Estas tres pasiones, como grandes vendavales, me han llevado de acá para allá, por una ruta cambiante, sobre un profundo océano de angustia, hasta el borde mismo de la desesperación” — Bertrand Russell

30/6/15

L'origine del linguaggio e il socialismo scientifico

Enrico Galavotti   |   Spesso non ci si rende ben conto che, per quanto riguarda l'essere umano, non è di alcuna importanza sapere quando si è passati, sul piano del linguaggio, dai primi suoni, emessi in maniera simile alle scimmie, alle frasi di senso compiuto. Nessuno di noi si ricorda quando, da neonato, emetteva i primi vagiti. Non ci ricordiamo neppure quando balbettavamo frasi inarticolate. Per gli esseri umani il linguaggio comincia a diventare davvero significativo quando le parole vengono memorizzate per il loro significato. In questa maniera infatti ci diventa possibile procedere alla loro rielaborazione. Il linguaggio non è che un uso intelligente delle parole. È uno strumento in più. Non si diventa più capaci di parlare quanto più ci si ricorda di tutta l'evoluzione del nostro dire.

Più ancestrale del linguaggio è la sensibilità. Vi è umanità semplicemente là dove esiste sensibilità. Un cerebroleso resta comunque una persona "sensibile" e non ci sogneremmo neanche lontanamente di eliminarlo, come facevano i nazisti coi loro disabili. Il linguaggio può dare un significato razionale alla nostra sensibilità, può cioè renderla consapevole di sé, ma non ne aumenta la fisicità, la realtà corporea. La sensibilità può essere aumentata, cioè approfondita ed estesa, soltanto da se stessa. Il linguaggio, infatti, può anche essere usato per mistificare le cose. 

Gli animali non hanno bisogno di un linguaggio sofisticato proprio perché amano la semplicità delle cose. Pochi versi o vocalizzi devono indicare ciò che è sufficiente per esistere senza particolari problemi. Gli animali sono, per natura, essenziali e guardano con distacco le ambiguità. Ci dispiace quando non ridono delle nostre ironie, ma ci rassicura il fatto che non ci capiscono quando li prendiamo in giro o li offendiamo coi nostri insulti. Siamo noi, piuttosto, che col nostro linguaggio evoluto c'immergiamo a pesce nelle ambiguità, allo scopo di difendere i nostri interessi privati, anche dietro il paravento di un'esigenza collettiva, di una cosiddetta "ragion di Stato".

Questo per dire che quando si afferma che pensiero e linguaggio sono inscindibili e s'influenzano reciprocamente, non potendo noi sapere quando l'uomo ha iniziato a pensare, non potremo mai sapere quando ha iniziato a parlare. Resta comunque assodato che là dove esiste un minimo di lavoro, deve per forza essere esistito un pensiero e quindi, visto che sono strettamente connessi, un linguaggio.

Si tratta però d'intendersi sul significato della parola "lavoro". Se pensiamo che "lavori" solo l'uomo che scheggia delle pietre, rischiamo di considerare uno "sfaccendato" chi si limitava a raccogliere frutti selvatici all'interno di una foresta. L'uomo della foresta era forse muto, o si esprimeva al massimo come una scimmia? Non sarebbe meglio dire che la nascita del linguaggio, in forme e modi diversi, è coincisa con la nascita dell'uomo? E che l'uomo, sin dall'inizio, era in grado di possedere un linguaggio diverso da quello animale? Se tutti noi avessimo parlato come gli animali che frequentavamo, da chi avremmo appreso a parlare diversamente?

Il linguaggio è uno strumento specifico dell'essere umano: gli animali emettono solo versi molto limitati. Ed è così perché siamo in grado di pensare molto diversamente. Per questa ragione dovremmo sostenere che l'uomo non è esattamente un ente di natura, cioè non è, propriamente parlando, un animale terrestre. L'uomo è figlio dell'universo, possiede qualcosa che non è esclusivamente "terrestre". Si rassegnino però i cultori degli UFO: l'unico vero "extraterrestre" è lo stesso genere umano. Lo dimostra il fatto che non riusciamo a sopportare i limiti di alcun confine e che persino quelli del nostro pianeta stanno cominciando a diventarci troppo stretti.

È curioso tuttavia che il socialismo scientifico sostenga che senza scambio di idee non sia possibile la produzione sociale, l'esistenza stessa della società. Formiche e api non si "parlano" all'interno della loro specie, se non in forme molto limitate, eppure sanno creare comunità molto più complesse di tanti altri animali. La loro efficienza dovremmo prenderla come esempio. Anche i castori sono dei gran lavoratori, eppure non dicono una parola. E che dire dei lupi, che quando davvero "parlano", ululando alla Luna, mostrano di avere nostalgia del "totalmente altro"? Quando cacciano in branco, i lupi non hanno paura di nessuno. Tutte le leggende relative ai licantropi lasciano quasi pensare che l'anello di congiunzione tra l'animale e l'uomo sia proprio il lupo: un animale straordinario, che abbiamo iniziato a sterminare o, nel migliore dei casi, a schiavizzare, trasformandolo in un cane da guardia o da caccia, quando siamo diventati stanziali e quindi proprietari di qualcosa.

Noi oggi siamo soliti dare una grande importanza al lavoro, e chi non lavora lo guardiamo o con disgusto o con invidia, a seconda che lo si voglia o emarginare o imitare. E tuttavia là dove la natura abbonda di frutti, il lavoro diventa un concetto relativo. Non è più un obbligo, ma un piacere; non è più una fatica, ma una soddisfazione.

Certo oggi quando si parla di natura non sappiamo neanche che cosa sia. Non riusciamo neppure a immaginarci come potessero vivere nelle foreste le comunità dei nostri progenitori. Oggi la natura ha quasi smesso di esistere, essendo stata sostituita con qualcosa di artificioso, frutto di antropizzazione. Per noi la natura è soltanto un oggetto da sfruttare al massimo, anche a costo di ridurla a un deserto.

Quando usiamo il concetto di "lavoro", generalmente lo intendiamo come del tutto prioritario rispetto alle esigenze riproduttive della natura. Prima veniamo noi, poi lei. Ecco perché continuiamo a difendere l'esigenza e il diritto del lavoro anche quando sappiamo che un certo tipo di mansione è una sicura minaccia per la nostra salute. Non solo non c'interessa che la natura venga violentata, ma siamo anche così disperati di fronte al rischio di non poter garantire la nostra sopravvivenza, che ci rassegniamo persino all'idea di compiere un lavoro che inevitabilmente accorcerà di molto la nostra vita. Invece di usare il linguaggio per ripensare in toto il modello di sviluppo, preferiamo dirci, con vari giri di parole, che non vi sono alternative. Le api e le formiche non si comporterebbero in maniera così assurda.

Da quando l'aria è diventata irrespirabile, le rondini hanno smesso di venire da noi. E quando un tempo si diceva che "una rondine non fa primavera", avremmo fatto meglio ad accontentarci anche di quella sola rondine, poiché oggi, coi mutamenti climatici provocati dal nostro inquinamento, sono scomparse anche le mezze stagioni. In altre parole è ridicolo sostenere che il linguaggio è nato dallo sviluppo del lavoro e della società, anche se è sensato aggiungere ch'esso è uno stimolo all'ulteriore sviluppo dell'attività lavorativa.

L'essere umano è, per definizione, strutturato come un linguaggio. Tutto il corpo umano è espressivo. Lo è anche quando non parla. Con la parola "linguaggio" si deve intendere qualunque azione in grado di comunicare qualcosa. Il linguaggio non nasce dal lavoro: è parte costitutiva di qualunque lavoro umano. Ed esso si sviluppa in base allerelazioni sociali e in rapporto all'importanza che l'individuo gli attribuisce.

È sbagliatissimo sostenere che il linguaggio primitivo era sonoro e che i gesti e la mimica completavano questa sonorità. Quando si ha a che fare col linguaggio umano non esiste un "prima" e un "dopo". Il linguaggio va visto in maniera olistica: sin dai primordi dell'umanità l'uomo ha cercato di esprimersi in tutte le maniere, proprio perché sapeva di poterlo fare. Non alcun senso pensare che lo sviluppo dell'umanità sia paragonabile a quello che possiamo constatare a partire dai nostri neonati. I neonati esistono perché esistono gli adulti. I neonati non emettono vocalizzi e gemiti come gli uomini primitivi. Noi dovremmo semplicemente limitarci a dire che là dove non possiamo constatare, empiricamente, un linguaggio umano, lì non esiste che specie animale. In tal senso lo studio dell'uomo primitivo dal punto di vista archeologico o paleoantropologico lascia il tempo che trova. L'unico uomo primitivo che davvero c'interessa è quello che ancora esiste nel presente e con cui possiamo parlare.

Per quale motivo una madre capisce il significato dei vocalizzi del proprio neonato, mentre per un estraneo risultano del tutto incomprensibili? Non è forse questo un eloquente dimostrazione che il linguaggio non è soggetto ad alcuna evoluzione qualitativa, ma solo quantitativa? Aumentiamo il nostro bagaglio di conoscenze, ma la facoltà di esprimersi è sempre la stessa: l'abbiamo dalla nascita. Si conoscono molti casi di bambini abbandonati che, a contatto con animali selvatici, usavano solo un linguaggio sufficiente per farsi capire; ma quando furono ritrovati, impararono a esprimersi in altra maniera. Semmai era necessario, da parte nostra, non dileggiarli per essere rimasti troppo indietro rispetto ai nostri abituali standard. Mosè balbettava, eppure elaborò una legislazione che ancora oggi ha degli addentellati in tutte le Costituzioni del mondo. Helen Keller, la cosiddetta "Anna dei miracoli", era sordocieca, eppure "sentiva" in maniera incredibile l'ottusità dei propri genitori.

Non ha alcun senso sostenere che i suoni del linguaggio dei primitivi si differenziavano per qualità dai suoni delle scimmie, a motivo del fatto che i primordiali utensili dell'uomo si differenziavano nettamente dai bastoni e dalle pietre occasionalmente usati dalle scimmie. Non è forse sotto gli occhi di tutti che l'uso di una tecnologia molto sofisticata, in grado di esigere una concentrazione particolarmente forte, porta a una diminuzione dell'espressione linguistica? Gli informatici sanno fare miracoli coi loro algoritmi, ma quando parlano non hanno neanche lontanamente la capacità degli attori di cinema o teatro: non a caso gli americani utilizzarono Reagan e non Bill Gates per farlo diventare presidente del loro paese. È forse un caso che le donne, abituate a socializzare più o meglio degli uomini, siano più capaci di esprimersi? E che siano anche più portate ad apprendere le lingue straniere? Se non ci fosse il maschilismo, che le relega nella sfera privata, saprebbero gestire sicuramente meglio la società.

Di per sé quindi il lavoro non c'entra nulla con la capacità di esprimersi; semmai è il modo di lavorare che può avere una certa influenza. Un orefice, sempre chino sugli orologi da riparare, si esprimerà sicuramente peggio di un insegnante abituato a relazionarsi quotidianamente coi propri allievi, anche nel caso in cui disponga soltanto di una lavagna di ardesia. Alberto Manzi era un genio assoluto della comunicazione: eppure aveva soltanto dei fogli bianchi e un gessetto nero, e quando faceva prendere la licenza elementare a milioni di italiani, la televisione non era neppure a colori.

L'esigenza di dirsi qualcosa non è venuta fuori, negli umani, solo "dopo" un certo momento. È a loro connaturata, anche se ovviamente si sviluppa in rapporto al contesto sociale: chi viene allevato dalle scimmie imparerà il loro linguaggio. Il neonato inizia a comunicare nel momento stesso in cui nasce: è sufficiente dargli un colpetto nella schiena e levargli il liquido amniotico dalla bocca. Noi siamo fatti per comunicare, proprio perché in principio vi è il logos, e chi non ha intenzione di farlo, rischia di diventare matto. Si può protestare quanto si vuole facendo lo stilita, ma, prima o poi, dalla colonna si dovrà scendere.

Chi non comprende questa cosa elementare è perché ancora ritiene che il pensiero e il linguaggio debbano servire per superare il "cieco istinto". Ma qui davvero si raggiunge l'insipienza. Anzitutto perché l'istinto non è mai "cieco", ma, semmai, "naturale", e quindi dotato di proprie leggi necessarie e universali: questo negli animali è evidentissimo. Quando un istinto è "cieco" è perché è "innaturale". Ma un istinto innaturale può appartenere agli uomini, non agli animali. Se appartiene anche agli animali, è per colpa degli uomini. Come quando p. es. addestriamo i cani ad essere aggressivi, e poi ci stupiamo se azzannano i nostri figli.

In secondo luogo il pensiero razionale non ha il compito di superare l'istinto, bensì di regolamentarlo, cioè di farlo stare entro i binari della naturalità. Ne abbiamo avuto abbastanza di quei filosofi che facevano del pensiero l'unica facoltà umana superiore, o che consideravano la scrittura superiore alla parola. L'uomo è un insieme integrato, un tutto unico: separare gli istinti dalle capacità astratte dell'intelligenza significa privarlo di qualcosa. Poi non dobbiamo stupirci se vengono fuori soggetti come Nietzsche, che pensano di fare dell'istinto l'unico criterio della loro vita, diventando così peggio degli animali cui vorrebbero assomigliare.

A volte addirittura gli scienziati pensano di poter risalire al modo esatto di pronunciare le parole da parte dei primitivi, facendo congetture sul loro apparato vocale: parlano di laringe e faringe, di glottide ed epiglottide. Son forse umani quei bambini che fino a un anno di età non pronunciano una sola parola e che dopo, per recuperare il tempo perduto, balbettano in maniera ancor meno comprensibile? Noi diciamo di sì. Gli esperti, infatti, ci suggeriscono di non forzare la mano, perché potremmo traumatizzarli. Ci dicono così perché sanno benissimo che il linguaggio viene da sé, vivendo una vita sociale normale e che ogni bambino ha i suoi tempi. Nessuno ci chiede di sottoporli ai raggi X per vedere se la gola è tutta a posto.

Pitecantropi e sinantropi non erano in grado di pronunciare complesse combinazioni di suoni non perché la laringe non era abbastanza sviluppata, ma semplicemente perché quel che si dicevano era sufficiente per vivere, e l'hanno fatto per migliaia e migliaia di anni. A differenza di noi, che, pur con tutto il nostro evoluto linguaggio, siamo sempre in procinto di sterminarci e di estinguerci, proprio perché, in fondo, non riusciamo a capirci, né vogliamo farlo.

In ogni caso gli scienziati dovrebbero spiegarci perché i gorilla, che pur stanno in piedi come noi e che quando ci guardano ci incutono una certa soggezione (tanto che abbiamo usato la parola "gorilla" per indicare i protettori delle persone importanti), non sono mai riusciti, in milioni e milioni di anni, a sviluppare la loro laringe, smettendo così di battere i pugni sul loro petto per farci capire che sono arrabbiati: arrabbiati soprattutto con noi, che facciamo di tutto per trasformare le loro foreste equatoriali in boschetti da picnic.
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