Sebastiano Isaia
Scrive
Thomas Piketty nel suo ormai celebre (e “monumentale”: 928 pagine nella sua
versione italiana recentemente pubblicata da Bompiani) studio sul Capitale del XXI secolo: «La crescita moderna e la diffusione delle
conoscenze hanno permesso di evitare l’apocalisse marxista, ma non hanno
modificato le strutture profonde del capitalismo e delle disuguaglianze. […]
Tuttavia, esistono strumenti in grado di far sì che la democrazia e l’interesse
generale si riprendano il controllo del capitalismo e degli interessi privati,
senza peraltro fare ricorso a misure protezionistiche e nazionalistiche»
(1).
Sorvoliamo sull’«apocalisse marxista», suggestiva locuzione
che allude a quell’ideologia crollista elaborata da non pochi zelanti epigoni
che con il maestro di Treviri c’entrano assai poco (salvo che non si voglia
inchiodare il poveretto a singole frasi di stampo “apocalittico”); chiediamoci
piuttosto quando la democrazia e il cosiddetto «interesse generale»
hanno avuto «il controllo del capitalismo e degli interessi privati». La mia
risposta è: mai.
Come ogni intellettuale borghese che si rispetti, l’economista progressista francese crede – ancora oggi, nonostante tutto – alla sostanziale primazia del politico sull’economico (2), che secondo lui avrebbe caratterizzato i mitici «Trente glorieuse» o «golden age», ossia il periodo che va dal 1945 al 1975. Salvare il “lato buono” del Capitalismo (democrazia, diffusione delle conoscenze e delle competenze) segando gradualmente, attraverso misure economiche tese a colpire la rendita finanziaria (quale inusitata originalità di pensiero!), il lato cattivo di esso, «potenzialmente minaccioso per le nostre società democratiche e per i valori di giustizia sociale sui quali esse si fondano», è per Piketty una questione di «volontà politica».
Urge ripristinare questa volontà, se non vogliamo correre il
rischio di azzerare le conquiste economiche e sociali che hanno fatto grande
l’Occidente nel secondo dopoguerra.
Le contraddizioni sociali esplosive, potenzialmente foriere
di rivoluzioni sociali, hanno sempre preoccupato i riformatori del Capitalismo,
soprattutto quelli che, come il Proudhon a suo tempo doverosamente maltrattato
da Marx, pensano che «ogni categoria economica ha due lati, l’uno buono,
l’altro cattivo», e che «tutto il problema da risolvere consiste nel conservare
il lato buono, eliminando quello cattivo» (Miseria della filosofia).
Per quanto riguarda l’evocato «interesse generale», ci
troviamo dinanzi al più classico dei concetti borghesi chiamati per un verso a
nascondere il dominio degli interessi che fanno capo alle classi che detengono
il Potere (economico, politico, ideologico, psicologico), e per altro verso a
depotenziare l’antagonismo tra le classi (e nel seno di ogni classe) attraverso
l’individuazione di supposti valori comuni in grado di obliterare la divisione
classista degli individui, pardon: dei cittadini. Dei cittadini sempre di nuovo
atomizzati e ricompattati così da formare un’informe massa, secondo una maligna
dialettica che consente al marketing (anche a quello politico) di venderci il
rassicurante slogan: «Tutto ruota intorno a te». È, questo appena abbozzato, un
trattamento che sfugge al controllo di chiunque, che si dà oggettivamente nella
prassi sociale alla stregua di un fenomeno naturale che il cittadino può solo
subire o, al più, arginare attraverso le più disparate – e non raramente disperate –
razionalizzazioni.
L’essenza ultrareazionaria dell’«interesse generale» viene a
galla soprattutto nei momenti di acuta crisi economica, allorché la società
scopre con orrore che tutti gli interessi privati sono subordinati allo stato
di salute dell’economia, ossia del Capitale, il Moloch che solo le mosce
cocchiere credono di poter guidare a loro piacimento a colpi di «volontà
politica»: «Vai a sinistra, anzi no a destra». È nella concezione pattizia del
potere, grande conquista dottrinale e politica della borghesia in lotta contro
l’ancien régime, che trova il proprio alimento il noto luogo comune secondo cui
«siamo tutti sulla stessa barca», tesi che postula appunto la necessità di
salvaguardare «l’interesse generale» comunque declinato: Patria, Nazione,
Capitale.
Il libro di Piketty si apre con la citazione della seconda
frase dell’Articolo 1 della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del
Cittadino del 1789: «Le distinzioni sociali non possono fondarsi che
sull’utilità comune», e si chiude con il commento dell’autore a questi celebri
passi: le attuali «disuguaglianze smisurate non sono di alcuna “utilità
comune”». L’«utopia» (in realtà una miserevole chimera) dell’economista di
successo è dunque una società dalle disuguaglianze misurate? Mutuando
abbastanza ignobilmente Quello, possiamo dire: la prima volta come epopea
borghese, la seconda come rancida minestra apologetica cucinata dall’ennesimo
economista desideroso di salvare, sulla scia di Lord Maynard Keynes, il
Capitalismo dalle sue stesse contraddizioni.
Quanto poco Piketty abbia capito Marx, lo dimostra, fra
l’altro, questo passo: «Come gli autori a lui precedenti, Marx ha del tutto
trascurato l’eventualità di un progresso tecnico durevole e di un costante
aumento della produttività» (p. 24). Chiunque abbia compulsato, anche solo
superficialmente, gli scritti “economici” marxiani senza pregiudizi di sorta
riconoscerà senza fatica l’infondatezza di questa tesi: basti pensare ai
concetti marxiani di plusvalore relativo e di composizione organica del
capitale. Un’infondatezza che può indurre qualche lettore del Capitale del
XXI secolo a dar credito a una battuta del suo autore sollecitata
dall’accusa formulata da Wall Street Journal di essere egli un
esponente della scuola marxista camuffato in guisa riformista: «Non ho ancora
letto Il capitale». Ciò spiegherebbe tante cose, ma ovviamente la battuta
va presa per quel che è.
È invece corretto dire che Marx spese molte pagine per
spiegare il carattere necessariamente contraddittorio dello sviluppo
capitalistico, radicato nella bronzea legge della ricerca del massimo profitto,
la quale fa sì che lo stesso fenomeno sia, nelle diverse fasi del
ciclo economico, causa di sviluppo e causa di crisi, per poi riconvertirsi nel
suo contrario (per Marx la stessa crisi mostra i limiti dell’accumulazione
capitalistica ma ne è anche il tipico «processo di risanamento»), lungo un
processo altamente complesso che facilmente sfugge alla comprensione di un
pensiero non avvezzo a ricercare «cause ultime» semplicemente perché la testa
che lo ospita non è interessata a rivoluzionare lo status
quo sociale.
E quanto volgare, di più: triviale sia la concezione
economica dell’economista francese, lo testimonia oltre ogni ragionevole dubbio
la citazione che segue: «In tutte le civiltà, il capitale svolge due grandi
funzioni economiche. […] Storicamente, le prime forme di accumulazione
capitalistica sembrano riguardare sia gli utensili (selce ecc.) sia rudimentali
tipi di abitazione (grotte, tende, capanne, ecc.), prima di passare a forme
sempre più sofisticate di capitale industriale e di investimento, e a soluzione
abitative più sviluppate» (p. 327). Insomma, per Piketty «in tutte le civiltà»,
comprese quelle precapitalistiche, il capitale ha svolto quantomeno «due funzioni
economiche», e per tutte le civiltà si può parlare, senza temere di
cadere nel ridicolo, di «accumulazione capitalistica», sebbene a differenti
gradi di sviluppo.
Questa è precisamente la concezione dell’eterno capitalismo
contro cui Marx sparò diversi colpi critici tesi a mettere in luce la natura
storicamente peculiare (e perciò stesso potenzialmente transitoria) del
Capitalismo, le cui fondamentali forme di esistenza (capitale, merce, lavoro
salariato) diventano nell’economia politica, soprattutto in quella volgare
postclassica, categorie eterne.
«Poiché la forma reale o la forma dei valori d’uso oggettivi in cui consiste il capitale, il suo sostrato materiale, è necessariamente la forma dei mezzi di produzione – mezzo di lavoro e oggetto di lavoro – che servono alla creazione di nuovi prodotti, poiché dunque il capitale – in quanto si presenta come oggettive condizioni di lavoro – è costituito, secondo il suo valore d’uso, da mezzi di produzione, materia prima, materiale sussidiario e mezzi di lavoro, strumenti, impianti, macchine ecc., se n’è tratta la conclusone che tutti i mezzi di produzione siano, actu, capitale, e che perciò il capitale è un necessario momento del processo di lavoro umano in generale, fatta astrazione da ciascuna sua forma storica, e che, di conseguenza, è qualcosa di eterno» (3).
In questo modo scompare magicamente la sostanza che
conferisce ai mezzi di produzione, al lavoro, alle merci e al denaro la loro
esistenza in qualità di capitale: il rapporto sociale capitalistico, che è
un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento. Normalmente
scrivo Capitale e Capitalismo con la c maiuscola non solo
per un vezzo stilistico, ma soprattutto per evidenziarne la portata storica e
sociale, per sottolineare la loro differenza specifica rispetto alle forme
economiche e alle società precapitalistiche. Una preoccupazione intellettuale
(spero non intellettualistica) che non tocca minimamente gli economisti, i
quali da sempre hanno il vizietto di «trasformare un fenomeno storico in una legge
eterna» (4).
Per Piketty (e per «il gregge degli economisti») il Capitale
è invece uno strumento al servizio degli uomini, ai quali spetta la
responsabilità del suo buono o cattivo uso. Qui non posso che rimandare il
lettore alle pagine marxiane sul carattere feticistico del Capitale colto in
tutte le sue molteplici fenomenologie: tecnologie, tecnoscienza, merci, lavoro,
mercato e via di seguito (5).
Quando l’economista più celebre e celebrato degli ultimi
tempi nega che si possa parlare di lui nei termini del «Marx del XXI secolo»
bisogna dunque credergli, e concedergli almeno un minimo di onestà
intellettuale.
Scriveva Oscar Giannino qualche mese fa:
«C’è un libro che potrebbe diventare una Bibbia del dibattito pubblico nazionale. A destra come a sinistra, visto che nel nostro Paese l’anomalia è che entrambe si fregiano dell’aggettivo “sociale”. Il che significa, nella traduzione concreta, che non favoriscono l’accumulazione e l’investimento dei capitali – “dei” capitali, perché non c’è solo quello finanziario, c’è quello umano, quello fisico delle infrastrutture, e quello immateriale dei brevetti e dei processi organizzativi e distributivi – necessari alla crescita, ma preferiscono occuparsi della redistribuzione del prodotto esistente. […] Piketty accumula un’impressionante congerie di dati statistici sul rapporto tra reddito e patrimoni, e già sbaglia “ideologicamente” a identificare la ricchezza cioè il patrimonio con il capitale, visto che come abbiamo ricordato il capitale è cosa assai più ampia e diversificata» (6).
Certo, Giannino non arriva a dire qualcosa che per lui deve
giustamente apparire come una mera astrazione metafisica di stampo
hegelo-marxista, e cioè che il Capitale è in primo luogo un rapporto sociale
(come peraltro rivela il «capitale umano» sopra menzionato); ma in questa
critica almeno fa capolino un po’ di quella processualità (di quel dinamismo
economico e sociale) che da sempre connota il Capitale e che nel libro di
Piketty latita alquanto, nonostante le apparenze contrarie.
La tesi centrale del libro di cui trattiamo, che connette la
crescita della disuguaglianza sociale al fatto che il rendimento del capitale è
stabilmente superiore al tasso di crescita, non solo non brilla per originalità
ma presa in sé non spiega affatto la causa strutturale che ha reso possibile il
fenomeno che tanto lo tormenta. Il fatto stesso di aver focalizzato la sua
analisi sul processo di distribuzione del reddito, tralasciando praticamente
del tutto l’intimo rapporto che lo lega al processo di produzione della
ricchezza sociale nella sua forma capitalistica, la dice lunga sulla concezione
economica di Piketty, il quale non fa altro che ripetere litanie keynesiane già
digerite e defecate, con rispetto parlando, dalla storia. Litanie del genere che
segue: «La lezione complessiva della mia ricerca è che il processo dinamico di
un’economia di mercato e di proprietà privata, se abbandonato a se stesso,
alimenta potenti fattori di divergenza» (p. 919). Per capire quanto poco
originale sia questa «lezione» è sufficiente ricordare come già agli inizi del
XX secolo, ben prima che la Teoria generale di Keynes facesse la sua
miracolistica apparizione sulla scena di un mondo perduto, il partito liberale
inglese sosteneva la necessità di limitati interventi dello Stato nella vita
economica. L’irruzione della Guerra mondiale accelerò le tendenze in atto da
lungo tempo nel sistema capitalistico colto nella sua compatta totalità
sociale, e l’interventismo statale ruppe i vecchi limiti tracciati dalla prassi
economica.
Non la dottrina di qualche economista eterodosso, ma appunto
la prassi capitalistica già da tempo, e comunque certamente alla fine del XIX
secolo, non dava alcun peso al mito del laissez faire. Paradossalmente –
ma a ben considerare meno di quanto non sembri a prima vista –, solo gli
antiliberisti ideologici hanno continuato a dar credito alle teorie
dogmaticamente liberiste, attribuendo alla loro maligna influenza sui governi
le magagne che minano la cosiddetta convivenza civile fondata sul Patto sociale.
È ciò che succede quando si coltiva la bizzarra idea che sia la realtà ad
adeguarsi alle teorie politiche ed economiche, e non viceversa. Con Keynes ci
troviamo al cospetto di un tipico esempio di capovolgimento ideologico della
realtà: «Le idee degli economisti e dei filosofi politici, così quelle giuste
come quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si ritenga» (7).
Qui è sufficiente ricordare ciò che scrisse Hegel neiLineamenti di filosofia
del diritto a proposito della civetta di Minerva, la quale «apre le ali al
volo» solo post festum, «quando la realtà ha compiuto e terminato il
processo della sua formazione». Ma, è noto, agli intellettuali piace tanto
credere che sia il pensiero a far muovere il mondo; mondo le cui essenziali
“leggi di sviluppo” non sono peraltro alla portata della loro comprensione
anche a causa di questo esiziale errore di presunzione.
A Piketty «Sembra necessaria la leva della tassazione. Penso
a un’imposta progressiva e trasparente sul capitale a livello internazionale.
L’ideale sarebbe di poter tassare tutte le grandi fortune a livello mondiale,
da quelle americane a quelle mediorientali, dai patrimoni europei a quelli
cinesi. È una proposta che può sembrare utopica, ma un secolo fa anche
l’imposta progressiva sul reddito era solo un’utopia. Occorre volontà
politica». No, occorre in primo luogo che l’accumulazione capitalistica
riprenda in grande stile, occorre che la generazione di ricchezza sociale
attraverso lo sfruttamento sempre più intensivo (scientifico) della capacità
lavorativa torni a sorridere al profitto come ai bei tempi (per il capitale
industriale, beninteso) del boom economico, perché solo questo rende possibile
la distribuzione della lana, per riprendere la celebre metafora di Olof Palme
sulla pecora borghese da tosare solo dopo averla ben nutrita. Insomma, anche
nel Capitalismo del XXI secolo la «volontà politica» non sorretta da un
adeguato saggio di accumulazione del capitale distribuisce solo la miseria.
Ho forse qualche ricetta da offrire a un Occidente che
sembra non sapere o non potere uscire dal lungo “tunnel” della crisi?
Certamente, ma solo in negativo. E quindi taccio. Infatti, ci andrebbe di
mezzo la pecorella capitalistica, e non vorrei irritare gli animalisti, pardon,
gli economisti. Per le ricette in positivo lascio volentieri la
parola ai teorici del Capitalismo dal volto umano e agli uomini di buona
volontà così insistentemente evocati nei tuitter del Santo Padre. Amen!
Note
(1) T. Piketty, Il Capitale nel XXI secolo, pp. 11-12,
Bompiani, 2014.
(2) Su questi temi rimando ai post Sulla crisi della democrazia e Alcune brevi considerazioni sul – presunto – primato della
politica.
(3) K. Marx, Il Capitale, Libro primo, capitolo sesto
inedito, p. 10, Newton, 1976.
(4) K. Marx, Storia delle teorie economiche, II,
Einaudi, 1955.
(5) «Così si perfeziona inoltre il feticismo proprio
dell’economia politica, che trasforma il carattere sociale che viene impresso
alle cose nel processo sociale di produzione, in un carattere naturale, che
scaturisce dalla natura materiale di queste cose. Ad. Es., “mezzi di lavoro
sono capitale fisso”: una definizione scolastica. […] I mezzi di lavoro sono
capitale fisso solo se, sotto un profili generale, il processo di produzione è
capitalistico» (K. Marx, Il Capitale, II, pp. 233-234, Editori Riuniti,
1980).
(6) O. Giannino, Tre ragioni per respingere il presunto
“capolavoro” di Piketty sul “Capitale”, Leoni blog.
(7) J. M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione…, p.
554, Utet, 1978.